4 passi tra le nuvole e I bambini ci guardano

4 passi tra le nuvole, Nessuno torna indietro e I bambini ci guardano: sogni e profezie (1942-45)


              “E serbare e riaccendere e alimentare il sentimento cristiano è il nostro sempre ricorrente bisogno, oggi piu' che non mai pungente e tormentoso, tra dolore e speranza. E il Dio cristiano è ancora il nostro e le nostre affinate filosofie lo chiamano lo Spirito, che sempre ci supera e sempre è noi stessi"
              (B. Croce, Perché non possiamo non dirci <cristiani>, novembre 1942)


La continuita' tra teatro lirico e scrittura filmica segna anche la migliore pellicola della lunga e discontinua carriera di Blasetti, pellicola girata l'anno seguente: 4 passi tra le nuvole (94 min.). Questa felice commedia offre un altro esempio di fraintendimento a posteriori della storiografia cinematografica: lungi dal trattarsi di un film di anticipazione "neorealista" come pure di un film di critica al regime, e' invece una deliziosa favola rurale che assorbe la propria struttura narrativa e la tipologia dei personaggi dall'opera buffa. Il piazzista Paolo Bianchi, afflitto da una moglie insopportabile e da un logorante stile di vita urbano, sceglie la temporanea fuga verso un'idilliaca campagna, insieme a una disperata giovane che ritorna alla casa paterna incinta: per un giorno interpretera' lui la parte del marito per alleviare il colpo alla famiglia di rigide idee tradizionali. Incorniciato da un prologo e un epilogo nella grigia abitazione del protagonista, il racconto si snoda lungo quattro concisi atti: il viaggio ovvero l'incontro, la cena o la simulazione, la notte o l'imbarazzo e la mattina o il chiarimento. La situazione di totale inverosimiglianza ("tra le nuvole" recita infatti il titolo), i personaggi schematici, il tema centrale del travestimento al fine di "giocare" e in definitiva commuovere un burbero genitore (a teatro spesso un tutore) e fargli accettare una realta' di fatto imprevista e antitradizionale (piu' spesso il matrimonio con un partner povero e bello nell'opera lirica), la scrittura filmica lieve e a tratti burlesca, il commento sonoro (Cicognini) dominato da un brioso e rossiniano moto perpetuo: tutti questi elementi della sceneggiatura di Zavattini e Blasetti derivano dalla grande tradizione della lirica italiana. Giova ricordare che numerosi altri film italiani verranno in seguito imperniati sullo schema narrativo del travestimento e del malinteso, fino al recente Baci e abbracci (1999) di Virzi' che presenta molti punti in comune con i 4 passi blasettiani.
Dal punto di vista ideologico il film si allinea con la prediletta visione ruralistica di Mussolini (si veda, tra gli infiniti esempi, il celebre documentario Luce con il medesimo che guida la mietitura) e della parte piu' conservatrice dello schieramento culturale fascista, nonche' con la dura politica antiborghese inaugurata nel 1937-8 da un duce non esente da rigurgiti socialisti e anticlericali, politica finalizzata alla illusoria creazione  dell' "uomo nuovo" del fascismo. La propaganda per la crescita demografica, il passaggio dal lei al voi, la creazione della GIL (Gioventu' Italiana del Littorio), le leggi razziali sono solo alcuni passi in questa direzione. Nella pellicola di Blasetti e Zavattini il riflesso di tale politica appare evidente nella descrizione dell'ambiente urbano corrotto, grigio e invivibile, popolato da figure sgradevoli (il cinico collega del protagonista) e dove c'e' chi (il cognato di Paolo) puo' stare anche due anni senza lavorare facendosi mantenere; a tutto cio' si contrappone nettamente l'aura favolistica della quale si ammanta un mondo rurale perfetto, ricco di solidarieta' umana e retto da antichi principi morali. Perfino il lavoro vi figura come gioia e festa. Ultimo indizio del carattere astratto dell'opera e' individuabile nell'assoluta mancanza di riferimenti allo stato bellico: 4 passi (come Ossessione) e' ambientato in un'Italia atemporale.

Nel prologo Paolo si alza all'alba e inciampa ovunque in una casa disordinata, litiga con la stupida moglie e fugge. E' con tutta evidenza un uomo insoddisfatto, deluso. Sul treno affollato trova un collega cinico e insopprtabile che lo infastidisce con i suoi luoghi comuni; incontra pero' anche Maria, l' "angelo caduto" della storia. E' per difenderla che finisce nelle grinfie di un autoritario controllore che non perde l'occasione di usare quel poco di potere che ha per angustiare il piazzista (solo qui e' visibile un accenno di critica a un regime che favorisce un sistema statale burocratico e vendicativo). Il viaggio prosegue con un'assurda corriera, tra cori semioperistici e personaggi tanto pittoreschi quanto irreali; la musica si incarica di rafforzare l'atmosfera favolistica (Zavattini anticipa con questo episodio un tipo di cinema che tentera' in grande stile con Miracolo a Milano). Tra l'altro uno dei viaggiatori consiglia al guidatore neopadre di fare del figliolo un grande tenore, in una significativa allusione che esplicita il legame del film con l'universo della lirica. Perfino l'incidente che termina il "primo atto" ha carattere giocoso e viene da tutti accolto come un divertente imprevisto.
Con la seconda parte entriamo in un ambito sentimentale, dominato dalla mestizia di Maria. Il suo dramma convince Paolo a simulare l'improbabile ruolo di marito della ragazza presso la sua famiglia. Tutto ora si svolge allora all'insegna del travestimento e Paolo, seppur a tratti combattuto, sembra prenderci gusto nell'immaginarsi parte di questo "perfetto" ambiente rurale. Durante la grande cena di benvenuto per il falso marito Blasetti sa, con garbo, coniugare la felicita' del quadro corale con l'infelicita' che tormenta la giovane.
Con la notte pero' la "recita" diviene insostenibile e Paolo e' costretto a passare la notte all'aperto, dopo due lunghi dialoghi-"duetti", uno imbarazzato e inquieto con Maria, l'altro giocondo con il nonno di lei. L'ultimo atto prevede lo scioglimento necessario e il culmine drammatico nel "duetto" tra quelli che si riconoscono ora come due padri: con un'intensa perorazione (nella quale fa balenare per Maria, qualora cacciata di casa, il pericolo di un futuro da prostituta), Paolo riesce a convincere l'ostinato (ma simpatico) capofamiglia a perdonare. Quindi se ne va, ma si puo' immaginare che, padrino ideale del futuro nato, tornera' spesso in quella cascina dove ormai e' "di famiglia". L'epilogo e' di una profonda malinconia: il solito appartamento, le urla (ora senza volto) della bisbetica, la grigia routine che ricomincia.
Grazie soprattutto alla delicata sceneggiatura di Zavattini, Blasetti firma il suo film piu' ispirato, perfetto nell'equilibrio trovato tra una scrittura elegante e allusiva e una galleria di personaggi tutti cosi' ordinari eppure a loro modo indimenticabili.

Nell’estate del 1943 Blasetti gira la trasposizione filmica del romanzo d’esordio (1938) di Alba De Cèspedes, Nessuno torna indietro (120 min.), pellicola la cui lavorazione si protrarrà durante i mesi dell’occupazione nazista di Roma e darà modo a numerosissimi importanti attori di avere una scusa per non seguire i pochi cineasti che sceglieranno di dar vita al Cinevillaggio veneziano. La pellicola uscirà di soppiatto solo nel gennaio 1945 e verrà vista da pochissimi spettatori, nonché da una critica distratta. Dopo la fine del conflitto si apre una stagione cinematografica differente mentre il film di Blasetti sembra appartenere a un’era superata, che tutti si sforzano di dimenticare. Eppure si tratta di una delle migliori opere dell’autore di 1860, ben servita da un complesso e vivacissimo intreccio narrativo.
In un pensionato cattolico, a Roma, si incrociano i destini di sette giovani ragazze, poco più che ventenni. Studiano all’università, tutte nel medesimo corso, eppure sono mosse da preoccupazioni e progetti totalmente differenti. La musicista Milli (Dina Sassoli) ama platonicamente il suo maestro, un organista cieco, e muore stroncata da una malattia incurabile. Silvia (Elisa Cegani) e Valentina (Valentina Cortese) sognano amori impossibili. Emanuela  (Doris Duranti, tra le poche attrici di fama a lasciare Roma per Venezia: è l’amante ufficiale del potente ministro Alessandro Pavolini e nella Roma liberata passerebbe più guai che nella RSI; infatti lascia la capitale solo nel 1944, dopo l’arrivo degli Alleati), che invece nasconde un figlia nata (fuori dal matrimonio) da un aviatore morto in un incidente, si fidanza con un giovane studente dell’alta borghesia (Claudio Gora) cui però nasconde l’esistenza della piccola; quando quest’ultima rischierà di morire per una scarlattina, la madre, per quanto insensibile alle esigenze della bambina, dovrà cedere alla pressione delle irremovibili suore che, con tatto, le ricordano i suoi doveri. Così la verità viene a galla, il fidanzamento sfuma per poi, forse, rinascere nell’ottimistico finale. Xenia (Mariella Lotti) addirittura fugge dal pensionato e va a vivere con un affarista pasticcione che presto finisce in galera; la giovane allora accetta di farsi mantenere da un ricco e anziano imprenditore che si arricchisce con metodi truffaldini. L’incontro casuale con un pittore vagabondo e un po’ filosofo (Vittorio De Sica) le apre gli occhi: si redimerà anch’essa nel luminoso finale. La storia più triste è però quella di Vinca (Maria Mercader), innamoratissima di un artista che parte volontario per la guerra di Spagna (1936) dove muore.
Su tutte queste disgrazie giunge infine la Grazia nelle vesti di Anna (Maria Denis) la quale, figlia di contadini possidenti, torna nella sua fattoria appena in tempo per salvarla da un terribile incendio e per trovare l’amato compagno di giochi dell’infanzia col quale decide di sposarsi. Con le nozze di questa coppia di giovani, orgogliosamente radicati in una sana realtà contadina, si chiude il film: alla loro cerimonia intervengono le cinque giovani amiche che trovano così la forza di andare oltre i propri errori.
La pellicola ribadisce le tesi già presenti in 4 passi tra le nuvole, arricchite da una visione filoclericale, finora estranea alla filmograzia del regista (il quale diverrà, nella seconda metà del decennio, con Un giorno nella vita, Fabiola e Prima comunione, il principale cineasta cattolico italiano). La contrapposizione città - campagna, tanto amata dal regime, viene nuovamente sottolineata con forza nelle vicende antitetiche della mantenuta Xenia e della “contadina” Anna. Tanto la prima precipita in un universo fatuo e delinquenziale, caratterizzato da un lusso sfrenato (alberghi elegantissimi; il casinò di San Remo, frequentazioni aristocratiche, l’uso di uno snobistico vocabolario francesizzante), tanto la seconda ritorna alla sua terra con gioia e ne trae una rinnovata vitalità per iniziare una vera esistenza, quella matrimoniale, al fianco di un giovane anch’egli innamorato del suo podere. Intorno a loro, così come intorno a tutte le giovani ragazze del pensionato, risalta la presenza benevola e saggia delle suore, presenza ricca di umanità e rigore nel caso della sciagurata, volubile Emanuela, la quale è sul punto di lasciar sola la figliola in fin di vita pur di non mancare al ricevimento dato in suo onore dal nuovo fidanzato. Dunque ruralismo fascista e nuove speranze riposte nella millenaria forza del Vaticano sono le due travi portanti del complicato affresco. Blasetti, come il Camerini dei Promessi sposi e il De Sica de La porta del cielo, guarda oltre Tevere nel momento più disgraziato della storia del regno d’Italia fondato dai Savoia (con il benevolo aiuto delle logge francesi e anglosassoni).
Va però precisato che il Centro Cattolico, irritato con Blasetti dai tempi della scandalosa Cena delle beffe (1942), trovandosi di fronte a un film tanto esplicito e scabroso nella materia trattata, condanna la pellicola con il pesante giudizio di “escluso”, senza valutarne appieno lo spirito etico complessivo .
Le giovani sono studentesse, aspetto che può apparire modernista e che certamente è tale nel romanzo della scrittrice progressista Alba De Cèspedes (1911-97), spesso ostacolata dal regime, scrittrice la quale si schiererà senza indugi con la Resistenza. Blasetti, pur collaborando con la Céspedes alla sceneggiatura, sembra disinteressarsi all’attività scolastica delle giovani le quali sono, in effetti, preoccupate esclusivamente dalle loro peripezie amorose. Fa eccezione la figura più mesta e rigida del gruppo ovvero Silvia, serissima studentessa che si innamora del suo anziano professore ma che deve poi lasciar cadere ogni illusione sentimentale poiché costui scopre di aspettare un figlio lungamente atteso dalla moglie. Questa giovane, la meno femmnile tra tutte le protagoniste, è quella che sembra interessare meno il regista ed egli la utilizza per attuare quel gioco di fini contrasti che anima l’intero lavoro la cui profonda vitalità nasce proprio dal continuo intersecarsi di tante psicologie femminili così differenti e spesso incompatibili. In questa abile orchestrazione, in questa polifonia di voci così discordanti eppure così umane e comprensibili, capaci di trascolorare in pochi attimi da situazioni di estrema gravità a “intonazioni” di impalpabile leggerezza, nasce un magnifico affresco degno di essere indicato tra gli esiti più alti del cinema italiano del periodo.
Le ragazze studiano per caso, frequentano l’ambiente universitario con l’evidente, primaria preoccupazione di trovare l’anima gemella e di portare a compimento il sogno di un matrimonio capace di dare un senso definitovo alla propria esistenza. E’ quello che riesce ad Anna; è quello che non riesce alla studiosa Silvia e alla sfortunata Vinca, è quello che probabilmente aspetta al varco le tormentate Emanuela e Xenia (quest’ultima, nel finale, va in carcere a trovare il ptimo amore, decisa ad aspettarlo per ricominciare tutto da capo al suo fianco). La patina modernista è dunque semplice colore mentre la sostanza narrativa e umana ci mostra l’antico gioco dei ruoli maschili e femminili, senza troppe novità. Il pittore vagabondo - splendido cameo di De Sica - impersona l’alter ego del narratore il quale dialoga senza infingimenti con la giovane che più di tutte si è perduta, quella Xenia - autoelettasi baronessa - che vive sprofondata in un lusso colpevole e improduttivo, serva di un uomo anziano e corrotto. L’artista di strada la illumina, spiegandole l’inutilità di quel suo arrivismo che non si capisce dove “voglia arrivare” e riportandola nel duro mondo reale, di nuovo povera (dopo aver lasciato il suo amante) ma finalmente libera e padrona del proprio futuro.
Parabola morale di alto valore, splendidamente recitata, fotografata entro inquadrature di bella eleganza nonché impaginata con movimenti di macchina di grande abilità, Nessuno torna indietro è l’ennesimo fim dimenticato del cinema italiano degli anni quaranta, dimenticato in quanto scomodo e inattuale, populista e colpevolmente ottimistico, ruralista e cristiano, privo inoltre del benché minimo cenno “neorealistico” (quello erroneamente intravisto in4 passi tra le nuvole dai soliti critici militanti). Come tante opere di valore del periodo, il disinteresse critico è approdato, nel tempo, a un più generico disinteresse popolare e ha sancito la scomparsa materiale di questa introvabile pellicola, prima dagli schermi e in seguito dal mercato home video.

Con I bambini ci guardano (86 min), tratto dal romanzo Pricò (1922) di Cesare Giulio Viola (sceneggiatura del medesimo, di Zavattini e di altri), Vittorio De Sica cambia radicalmente registro rispetto alle precedenti commedie leggere e passa a un cinema drammatico-emotivo, seppur non esente da artificiose forzature, al quale si atterrà fino a La Ciociara (1961). La vicenda del povero bambino Pricò, abbandonato più volte dalla madre in preda a una passione incontrollabile per un altro uomo, mal sopportato da nonna e zia, e' raccontata con sincera partecipazione dall'autore, anche se a tratti il sospetto di un'esagerazione irrealistica, di una mancanza di misura, di un voler commuovere a tutti i costi, rovina l'opera che termina addirittura con il suicidio del padre e con l'approdo finale di Prico' al porto sicuro di una imponente e paterna istituzione riligiosa. Inutile parlare anche qui di anticipazioni "neorealiste": il film circonda il rapporto padre-figlio, narrato con una sobria verosimiglianza, di una folla di improbabili personaggi stereotipati e macchiettistici, al punto da favorire una possibile lettura simbolico-politica del film: la meschinita' e la pochezza di tutti i personaggi che circondano il padre, il figlio e l'austera governante, sembrano alludere a un popolo incapace di controllare le proprie passioni e la propria innata futilita' (episodio di Alassio), laddove il severo padre, emblema dell'ideologia fascista della famiglia, non puo' far altro che suicidarsi. La guerra, anche qui (come in 4 passi e in Ossessione) assente, a riprova del carattere poco realistico dell'insieme, riemerge pero' a livello di metafora: gente inetta, incapace di attenersi ai propri doveri e percio' destinata alla sconfitta bellica; un personaggio allineato con l'etica del regime a cui non resta che il suicidio; il piccolo Prico', ovvero la nuova Italia, che cerca rifugio tra le mura della potente chiesa cattolica, l'unica a sopravvivere nella tempesta. Piu' che un film "neorealista", I bambini ci guardano è una pellicola profetica.

Il film è diviso in quattro parti: Pricò abbandonato dalla madre in cerca di nuova sistemazione; il ritorno della madre; la vacanza ad Alassio; l'epilogo tragico. Nella prima parte De Sica ci introduce in un universo dominato dalla grettezza: la madre priva di controllo sulle proprie passioni e incapace di assolvere ai propri natiurali doveri; gli ingombranti vicini di casa pronti a gioire delle disgrazie altrui; la zia e la nonna troppo egoiste per avere cura del piccolo; solo il generoso personaggio della governante Agnese, oltre ovviamente a quello dolente del padre, rifulge in questo quadro desolato. E' anche grazie a lei che il padre accetta di perdonare e di riaccogliere in casa la madre pentita. Ma l'assedio del seduttore continua, prima addirittura con un'irruzione in casa, poi ad Alassio dove, improvvidamente, il marito ha lasciato soli madre e figlio.
La terza parte descrive un gruppo umano dominato dalla futilità (ppare incredibile questa Alassio nel tremendo anno bellico 1943), una sorta di espansione corale del carattere debole della protagonista la quale arriva a dimenticarsi per un'intera giornata del figlio che nel frattempo fugge, rischia di finire sotto un treno, viene inseguito, anziche' aiutato, da un ferroviere ecc. Quest'ultimo episodio, nonostante la bella sequenza della fuga lungo la spiaggia di Prico' che anticipa il famoso finale di Les quatre-cent coup (Truffaut, 1959), costituisce un passo falso della pellicola, qui decisamente troppo inverosimile e troppo scopertamente costruita per commuovere.
Il tragico epilogo invece e' la prima grande pagina cinematografica di De Sica: l'imponenza rassicurante dell'edificio cattolico, il commosso addio del padre, il lacerato incontro conclusivo tra la madre e Prico' che, in lacrime, se la lascia alle spalle, percorrendo l'infinito spazio della grande sala sono raccontati con ammirevole concisione, perfetta scelta delle inquadrature, una recitazione fatta di pochi ma efficaci gesti e un commento sonoro (di Renzo Rossellini) che finalmente si fa intenso. La sconfitta del padre e la tragedia del bambino assumono ora significati piu' ampi e solenni: il futile universo mondano e' altrove mentre qui finalmente prevale un senso di nobile rassegnazione.
Vicino alla sobria scrittura realistica di Rossellini e De Robertis, De Sica dimostra di sapere trasformare, nei momenti alti della sua opera, l'atteggiamento cronachistico in assorto poema lirico.

Di fronte alla imminente caduta del fascismo, buona parte del regime, timorosa dell'avento del comunismo, si rivolge alla Chiesa cattolica. Myron Taylor, ambasciatore USA, e' stato piu' volte in Vaticano per importanti colloqui, perfino nel settembre 1942, generando proteste del fascismo intransigente irritato dall'evidente politica neutralista del Papato il quale si prepara da tempo a ereditare il governo del paese. Il prestigio di Pio XII e' enorme nel 1943 (nel discorso radiofonico del 1-9-1943, nel quarto anniversario dello scoppio della guerra, rivolge a tutti i belligeranti un pressante invito alla pace poiche' "in tutte le nazioni cresce l'avversione verso la brutalita' dei metodi di una guerra totale, che porta ad oltrepassare qualunque onesto limite e ogni norma di diritto divino e umano"); anche il liberale Croce scende in campo, scrivendo un celebre saggio in favore della secolare civilta' cristiana (Perche' non possiamo non dirci <cristiani>., novembre 1942) e perfino sulla rivista ufficiale di Mussolini, <Gerarchia>, appare un intervento (subito contestato) a favore di un nuovo ordine europeo centrato su Roma e il Cristianesimo (a firma Orestano, dicembre 1942). D'altronde, nelle biblioteche vaticane, si sta segretamente preparando una nuova classe dirigente imperniata sull'Azione cattolica e sulla FUCI (Federazione universitaria cattolici italiani) guidata da Aldo Moro fino al febbraio 1942, poi da Giulio Andreotti, il cui giornale, <Azione fucina>, viene sequestrato numerose volte dalle autorita' fasciste a causa del suo palese pacifismo. Durante la RSI, nel noto discorso al teatro Lirico di Milano (16 dicembre 1944), un Mussolini ormai sconfitto tornera' sull'argomento, denunciando tra i molti protagonisti dell'armistizio dell'8 settembre "talune forze clericali congiunte per l'occasione a quelle massoniche [USA]".
Nel finale del film di De Sica si respira dunque il nuovo e diffuso sentimento di speranza nei confronti della Santa Sede, ne' appare casuale che il successivo lavoro del regista napoletano, La porta del cielo (1944), venga finanziato dal Centro Cattolico Cinematografico.