Al servizio degli Asburgo
Per Beethoven tuttavia le cose iniziano a cambiare proprio a partire da quel 1809, ovvero da quando diviene assiduo precettore dell’arciduca Rodolfo (il figlio minore di Francesco I, nato a Firenze nel 1788).
L’attività di maestro di composizione del figlio dell’imperatore gli consente - finalmente - l’accesso “concreto” agli appartamenti reali: infatti nel 1810, dopo il ritorno del giovane Asburgo dall’esilio (30 gennaio), il
compositore passa larga parte del proprio tempo a Schönbrunn (scrive all’amico Zmeskall: “Il mio Signore vuole che stia con lui e lo stesso vuole la mia arte. Io sto per metà a Schönbrunn...” - luglio 1810). All’allievo ha già
dedicato una magnifica sonata pianistica a programma - la celebre Op. 81a - in cui si racconta la partenza di Rodolfo da Vienna, se ne lamenta l’assenza e se ne festeggia il ritorno. E’ un Beethoven assai accomodante
quello che si relaziona all’arciduca: non solo negli anni seguenti egli compone musica più conciliante e spesso di intento celebrativo (cosa quasi senza precedenti nel catalogo del musicista), ma lo scorbutico autore di Bonn
non protesta neppure quando l’arciduca gli chiede una composizione “per cavalli” (in vista dei caroselli equestri per i festeggiamenti, nell’agosto 1810, dell’onomastico della povera Maria Luisa) e scrive: “Noto che Vostra
Altezza Imperiale vuole fare sperimentare gli effetti della mia musica anche sui cavalli. Benissimo. Voglio vedere se in questo modo i cavalieri riusciranno a fare qualche bella piroetta...
Anche in questa incombenza resto, finché vivrò, il Suo disponibilissimo servitore” (luglio o agosto 1810). Insomma il Concerto “Imperatore” è l’ultima opera apertamente napoleonica di Beethoven. Dopo di essa inizia una
lenta “conversione” alla causa degli Asburgo che culminerà con le composizioni per il Congresso di Vienna. Alla fine, come era accaduto a Mozart (il quale era però ben altrimenti protetto da Giuseppe II), anche il suo ideale
successore entra nelle stanze del Potere, sebbene con un ruolo assai marginale. Si può comprendere che egli venga infine tollerato da Francesco I e dalla nomenclatura asburgica: sono per loro gli anni più difficili e umilianti,
quelli della cessione di Maria Luisa e del forzato imparentamento di una della case aristocratiche più antiche d’Europa con l’ex generale italofrancese di origini ordinarie. Se Francesco I deve subìre questo disonore (che
coincide tra l’altro con un sincero dolore in ambito familiare per la perdita della giovane figliola) per motivi diplomatici (seguendo l’astuta strategia di Metternich - quella di blandire il vincitore in attesa di tempi
migliori - che risulterà vincente), sicuramente non farà poi molto caso alla presenza del musicista “giacobino” tra le mura di Schönbrunn. In fondo queste aperture “liberali” fanno parte della politica del “nuovo corso” che
prevede appunto l’alleanza (come si è detto provvisora e strumentale) con la Francia della Rivoluzione. Nel periodo 1810-14 la corrispondenza tra il compositore e l’arciduca Rodolfo è assidua e mostra un Beethoven
“impiegato” di lusso presso la casa Asburgo. Con buona pace degli stereotipi della musicologia tradizionale e di tutta la favola intorno al primo “libero professionista” della storia della musica, possiamo ben dire che
Beethoven vive in quegli anni principalmente con lo stipendio fornitogli dalla “aborrita” casa regnante, in ottemperanza al celeberrimo e un po’ assurdo contratto del 1809 con il quale il trio nobiliare Rodolfo - Kinskij-
Lobkovitz si impegnava a versare al musicista una rendita annua in cambio di nulla. In realtà gli Asburgo continuarono a pagare la cifra pattuita in cambio della quale però Beethoven fornì assidue lezioni di composizione a
Rodolfo e divenne una presenza abitudinaria entro le mura reali; al contrario gli altri due nobili si dimenticarono presto della promessa (tra l’altro Kinsky muore nel novembre 1812 per una caduta da cavallo) e Beethoven non
esita a ricorrere agli avvocati coi quali perseguitare i nobili e (nel caso di Kinsky) i loro eredi affinché paghino le annuali somme pattuite. E’ logico che stipendi regalati in cambio di nessun servizio vengano presto
“dimenticati” da questi mecenati incostanti. Beethoven continua a guadagnare discrete sommette anche vendendo alle case editrici le sue composizioni, ma si tratta di entrate più saltuarie e meno consistenti. Egli finisce
con l’assicurarsi un proprio introito costante, solo lavorando in modo continuativo per gli Asburgo. Lo stesso era accaduto a Haydn (con gli Esterhazy) mentre qualche maggiore autonomia economica l’aveva avuta Mozart in quanto
era un’operista abbastanza ricercato e un docente. Se proprio si vuole confrontare l’emancipazione economica dei compositori, allora ben maggiore risulta quella degli operisti italiani fin dalla seconda metà del Settecento:
infatti le loro partiture erano costantemente richieste dai teatri di tutta Europa (come dimostra la loro sempre assai prolifica produzione), interessavano una vasta collettività borghese, nobiliare e perfino popolare e ciò
garantiva loro remunerazioni più alte e costanti, insomma li rendeva relativamente autonomi. Beethoven invece, occupandosi quasi esclusivamente di musica strumentale, dipendeva da un pubblico altoborghese e nobiliare assai più
ristretto e si vedeva perciò costantemente costretto a ricercare un impiego fisso presso qualche corte o istituzione. Da questa situazione assillante il musicista esce solo con il contratto del 1809 quale preludio al proprio
impiego fisso presso il figlio di Francesco I.
Sebbene Beethoven sembri entrato a far parte della cerchia asburgica, numerosi sono ancora gli indizi di una sua sostanziale estraneità a quell’ambiente il quale - infatti - continua
a guardarlo con sospetto. Scrivendo al proprio editore Härtel da Teplitz nel settembre 1812 egli afferma: “Può darsi che io venga a Lipsia, però La prego di mantenere il più assoluto tacet in proposito perché, detto tra noi, in Austria non si fidano più tanto di me, ammetto con ragione, e non mi concederebbero il permesso... “.
D’altronde in una lettera del settembre 1813 all’amico conte Franz Brunsvik di Buda scrive: “Addio, amato fratello, sii un fratello per me, non ho nessun altro cui dare questo nome, fa’ attorno a te tutto il bene che ti
consente quest’epoca malvagia”: il musicista rivela così il proprio senso di isolamento entro una realtà viennese che gli è ostile e nella quale cerca ancora di inserirsi. E’ questo un passo che si presta a una lettura
massonica: di fratello (nelle logge) ormai non è rimasto nessuno nella capitale viennese e Beethoven sembra lamentarsene con l’amico ungherese, quasi a voler giustificare la propria condotta “collaborazionista” in un’epoca
“malvagia” che non consente altre scelte. Se questa lettura è solo probabile, un fatto certo e dirompente si profila però all’orizzonte e viene a confermare implicitamente il tipo di considerazioni sopra esposte: nonostante
Beethoven sia il docente ufficiale del figlio dell’imperatore, egli continua a non riuscire ad ottenere la disponibilità dei teatri per tenervi un concerto. Alla fine del 1812 sono ormai completate la Settima e l’Ottava
sinfonia e nella primavera seguente Beethoven si adopera con ogni mezzo per avere il permesso di tenere una nuova Accademia. Prega l’amico Rodolfo, di cui si dichiara “devotissimo servitore” al termine di quasi ogni missiva, affinché intervenga per “dire una parolina all’attuale rector magnificus dell”Università” (lettera 16-4-1813) e ciononostante il rettore nega il consenso. Intorno a Beethoven permane quindi quell’atmosfera di diffidenza e sospetto - che si traduce in aperto ostruzionismo - che abbiamo ampiamente dimostrato, percorrendo le vicende del primo decennio del secolo.
Il concerto si farà (8 dicembre 1813) ma solo quando il pezzo forte della serata sarà Wellingtons Sieg, e si farà come concerto di beneficenza patriottico per i soldati austriaci e bavaresi, reduci dalla battaglia di
Hanau. Solo allora, con un’aperta e indiscussa adesione di Beethoven alla causa asburgica, tramite un pezzo di tipo celebrativo, il musicista si vedrà finalmente accettato e festeggiato (il concerto avrà un enorme successo,
verrà replicato e il brano in questione diverrà presto il suo pezzo più conosciuto). Durante l’esecuzione della trionfale battaglia, il compositore si troverà quale collaboratore (per la direzione delle percussioni), nientemeno
che l’antico nemico Salieri, vero simbolo dell’ortodossia asburgica. A quel punto - schieratosi con clamore dalla parte della coalizione antifrancese - al musicista si permetterà qualunque cosa, perfino di rimettere in
scena il suo vecchio Fidelio, finalmente al Kärntnertortheater (maggio 1814) ossia in un teatro di corte. Nel concerto del dicembre 1813 verrà eseguita anche la Settima sinfonia la quale mostra un compositore assai mutato rispetto alla poetica bellicosa e filonapoleonica che animava le principali creazioni del decennio precedente. La Settima è un’opera interamente gioiosa - un po’ come lo era l’accademica Prima
sinfonia (ai tempi dell’iniziale, fallito “avvicinamento” a casa Asburgo) - pervasa da ritmiche ossessive e da episodi contrappuntistici (si pensi ai temi principali di primo e quarto movimento, all’andamento di passacaglia e agli accenni di fugato nell’Allegretto) di tipo neobarocco. La Settima è insomma un lavoro solennemente celebrativo, come impongono i tempi nuovi e il differente contesto biografico dell’autore.
Il taglio “conservatore” della Settima sinfonia trova ulteriore e più esplicita conferma nelle un po’ antiquate gaiezze haydniane della Ottava sinfonia nella quale Beethoven addirittura reintroduce l’aristocratico Minuetto mentre riduce le accensioni bellicose di tipo “napoleonico” - come quelle presenti nel marziale secondo tema dell’Allegro iniziale - a isolate reminiscenze di una poetica superata. Il lavoro - che non solleva particolari entusiasmi nel pubblico viennese - trova comunque immediata esecuzione (febbraio 1814) all’interno dei numerosi concerti che il compositore della Wellingtons Sieg può ora permettersi di dare.
Possiamo considerare Wellingtons Sieg l’apice del percorso di “rientro” del compositore nei confronti di casa Asburgo. Dopo il decennio “napoleonico, il docente dell’arciduca completa la propria presa di posizione firmando questo famoso e popolare pezzo nel quale si glorifica il coraggio e l’abilità delle truppe di Lord Wellington le quali avevano sconfitto l’esercito francese in Spagna - a Vittoria - il 21 giugno 1813. Dopo il disastro russo, si tratta della prima grande sconfitta della Francia e prelude alla disfatta finale di Lipsia (ottobre 1813).
La partitura beethoveniana (15 min. circa), divisa in due parti (Battaglia e Sinfonia di vittoria) propone all’inizio i due inni degli eserciti contrapposti, poi un’efficace illustrazione dello scontro
(cavalli al galoppo, fucilerie e scoppi di cannone... ) e infine un inno per i vincitori. L’abilità del musicista nel trattare il materiale tematico di tipo marziale - abilità centrale in tutte le opere “filofrancesi” del
decennio precedente (come già illustrato) - viene ora piegata all’encomio verso Gran Bretagna e Austria ovvero verso i principali nemici di quella rivoluzione liberale alla quale si era sempre mostrato idealmente vicino il
compositore di Bonn. Il pezzo, assai fracassone e di scarso interesse musicale, riutilizza in modo meramente effettistico alcuni stilemi (gli sforzati, i contrattempi, il crescendo a effetto, l’andamento di marcia, i ritmi
puntati, le fanfare) che avevano impregnato sinfonie fondamentali come la Terza e la Quinta. Finalmente Beethoven viene festeggiato senza remore da tutta Vienna, da quella ufficiale e da quella popolare (il
brano avrà parecchie repliche e verrà edito a Vienna nel 1816 presso Steiner). Un anno dopo la festa si ripete - e più sontuosa - con il grande concerto in onore dei regnanti vincitori riuniti a Vienna per il Congresso
restauratore. Nel novembre 1814 al Burgtheater, immediatamente “concesso” a Beethoven, viene eseguita la cantata per soli coro e orchestra Der glorreiche Augenblick op. 136 (Il momento glorioso) e si replica la Wellingtons Sieg.
La nuova opera del compositore - il quale finge di dimenticare di essere stato un decennio prima il più convinto sostenitore, in ambito musicale, delle gesta napoleoniche - è un lungo inno ai vincitori della coalizione
antifrancese e in particolare all’imperatore Francesco I e alla Vienna trionfatrice nei confronti degli “attacchi sacrileghi” che hanno a lungo minacciato la stabilità dell’Europa. Tutto ciò che Beethoven aveva mostrato di
odiare nella prima parte della sua permanenza viennese (1792-1809) viene ora incensato senza remore e in modo pienamente servile, in una partitura “oggettiva” e a suo modo “neobarocca” nel suo ricondurre il discorso musicale
alla arcaica, pura funzione celebrativa del Potere. La musica esalta dunque la funzione salvifica degli Asburgo (di Francesco I definito “l’essere sublime”), di Vienna (“Incoronata, prediletta dagli Dei... regina delle città”)
e in generale “il momento glorioso” che l’Europa sta vivendo. In quella solenne serata - davanti ai regnanti vincitori e a un vastissimo pubblico - il musicista trova la propria imprevista, finale consacrazione cantando i
secolari valori della Tradizione monarchica che il Congresso si accingeva a restaurare dopo la bufera napoleonica.
|