La fiamma,  Anselmo ha fretta e Yvonne la nuit

La fiamma che non si spegne, Anselmo ha fretta, Biancaneve e i sette ladri, Yvonne la nuit, Marechiaro, La sepolta viva e Femmina incatenata: racconti morali e vicende amorali (1949)

              “Dovunque ci sia l’infinito, e non ci sia un’infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere, non c’è da esitare: bisogna dar tutto. E così quando si è obbligati a   giocare, bisogna rinunciare alla ragione per salvare la propria vita”
              Pascal, Pensieri. La “scommessa” (n. 164)    
              (citato in Ma nuit chez Maud, Rohmer, 1969)

Dopo il poco convincente Sconosciuto di San Marino (1946; vedi), Vittorio Cottafavi insiste nelle tematiche pacifiste e neocattoliche con La fiamma che non si spegne (settembre 1949; 105 min.), opera complessa e per molteplici aspetti meritoria la quale tuttavia suscita nuovamente (dopo il fiasco commerciale del film sopracitato) scarsa attenzione. Questa volta però - accanto a una certa inattualità del soggetto in una società italiana in via di ripresa, che quindi preferisce dimenticare - concorrono cause politiche poiché il film possiede una coerente impostazione ideale conservatrice che genera una feroce levata di scudi nella critica “militante” (Aristarco, per tutti, parlò di film “completamente negativo in ogni senso” e addirittura di “apologia del fascismo”, sebbene di fascismo nel fim non si parli).
Cottafavi si ispira al romanzo Itala gens del generale Franco Navarra Viggiani, sceneggiato dall’esperto Oreste Biancoli (già autore de Il piccolo alpino, 1940) e rievoca un argomento per certi versi tabù - in quegli anni - ovvero il sacrificio estremo del vice brigadiere Salvo D’Acquisto (23 settembre 1943) il quale, per evitare la rappresaglia dei Tedeschi decisi a fucilare ventidue abitanti (radunati a caso) di Torrimpietra in risposta alla morte e al ferimento grave di alcuni loro soldati, si dichiara colpevole del fatto e si offre al plotone d’esecuzione.
La vicenda appare tuttora poco nitida nei suoi lineamenti storici essenziali; e così mentre nel film si parla di attentato, il fatto reale risulta in una certa misura incomprensibile.
Un soldato tedesco è morto e due sono rimasti gravemente feriti a causa di uno scoppio determinatosi (sembra) dal loro incauto maneggiare alcuni esplosivi nella sede della locale Guardia di Finanza, abbandonata dai militari italiani e requisita dai germanici (questa versione - se corretta - caricherebbe la rappresaglia di una luce particolarmente sinistra). Che cosa è esploso realmente? Si trattava di tritolo lasciato incautamente negli uffici o era stata preparata una vera e propria trappola da parte dei militi italiani per i Tedeschi? D’altro canto le truppe locali della GdF hanno abbandonato la sede senza lasciare tracce (così scrive il giornalista Giuseppe Rimbotti che si è seriamente occupato della vicenda), mentre dei dodici carabinieri che dovevano essere presenti nella stazione di Torrimpietra c’è solo il vicebrigadiere D’Acquisto; sono assenti anche i suoi diretti superiori - il brigadiere e il maresciallo - che avrebbero dovuto gestire il tragico evento.
In ogni caso i Tedeschi avevano dato un lasso di tempo entro il quale i colpevoli (o presunti tali) avrebbero dovuto presentarsi per evitare il martirio dei ventidue civili arrestati a casaccio, cosa che non avvenne. A quel punto dunque si sacrificò - in ottemperanza a un profondo senso di carità cristiana - Salvo D’Acquisto, assumendosi una responsabilità che di fatto non aveva.
Questa vicenda - ben nota oggi al grande pubblico nei suoi lineamenti generali - è tuttavia assente da tutti i ponderosi volumi dedicati dai più eminenti storici al tragico periodo della guerra, della caduta del fascismo, dell’8 settembre e della successiva guerra civile. Salvo D’Acquisto - per loro - semplicemente non esiste e non esiste soprattutto perché gli studiosi avrebbero poi dovuto confrontare lo sconvolgente gesto del ragazzo napoletano (aveva solo ventitré anni) con la sciagurata condotta dei gappisti di via Rasella i quali, nel marzo 1944, dopo l’inutile attentato - come si sa - non si consegnavano alle autorità tedesche pur sapendo perfettamente, fin dall’inizio, quali feroci rappresaglie avrebbero dovuto subire centinaia di persone comuni a causa del loro gesto.
L’accostamento dei due eventi è invece implicito nel film (nonostante che di via Rasella e delle Fosse Ardeatine non si faccia parola nella pellicola), sia perché Cottafavi e Biancoli parlano di attentato a Torrimpietra (tralasciando la versione dell’esplosione accidentale), sia perché gli eventi sono talmente recenti che è impossibile, per il vasto e popolare pubblico delle sale cinematografiche, non tracciare un immediato ed esplosivo paragone tra le condotte etiche delle persone coinvolte nell’uno e nell’altro caso.
Allontanandosi da quei difficili anni è stato possibile isolare il gesto del carabiniere e rendergli il doveroso omaggio in ripetute occasioni (oltre al film di Cottafavi, seguiranno quello di Romolo Guerrieri del 1975 e un recente film televisivo), ma raccontare quella storia nel 1949 era inaccettabile per una parte politica, quella stessa che ovviamente stroncherà in modo brutale la pregevole pellicola di Cottafavi la quale - sia detto fin d’ora - si ispira molto liberamente alla vita del vice brigadiere, tanto è vero che nel film il protagonista si chiama Giuseppe Manfredi. In ogni caso - pochi anni dopo le Fosse Ardeatine - La fiamma che non si spegne (tra l’altro presentato al festival di Venezia) è una sorta di scandalo intellettuale, di silenzioso attacco alla Resistenza che va respinto nell’ombra, che va eliminato dalla scena artistica come un oggetto ingombrante e fastidioso. Operazione che risulta perfettamente riuscita visto che il film - nonostante i suoi pregi, il suo cast, il suo argomento storicamente rilevante - è tuttora invisibile.
In realtà l’8 settembre, lo smarrimento conseguente e la decisione del protagonista di sacrificarsi sono tutti racchiusi negli ultimi venti minuti di un racconto che parte da lontano, dagli anni dell’intervento nella prima guerra mondiale, e che racconta la lunga epopea della laziale famiglia Manfredi. Ciononostante in quel finale - dopo un’intera pellicola volta a esaltare l’operato dell’Arma nella storia patria - si propongono modelli di comportamento che, senza troppi discorsi, smentiscono tutte le scelte armate della Resistenza. Il rispetto per la divisa - quella dell’Arma come quella dei militi dell’esercito tedesco (questi ultimi descritti gelidamente ma senza inutili fanatismi, come soldati costretti ad applicare le terrificanti leggi della rappresaglia) - porta con sé l’ovvio postulato che le guerre si combattono solo al fronte, tra eserciti, senza coinvolgere le inermi popolazioni civili e che solo al fronte - in ultima analisi - si configurano vincitori e vinti. Il terrorismo resistenziale appare dunque inutile e crudele tanto che per sanare i suoi danni deve scendere in campo lo spirito cristiano più ispirato, pronto addirittura al martirio.
Tutto ciò prende corpo soprattutto nella narrazione di Cottafavi il quale racconta l’intera esistenza di Giuseppe Manfredi (Leonardo Cortese) come indecisa tra sacerdozio e passione civile (ossia adesione all’Arma). Si immagina infatti che il padre di Manfredi (sempre Leonardo Cortese), anch’egli carabiniere, all’entrata in guerra dell’Italia (maggio 1915) venga spedito al fronte. Ottenuta però una licenza di un solo giorno, il giovane si precipita a casa, sposa la fidanzata Maria (Maria Denis) di notte (magnifico episodio ricco di umorismo, di umanità e di saggezza) e (lo scopriremo poi) la mette incinta. Di fronte al sommo pericolo, intuendo la morte incombente, il giovane affretta i tempi per potere lasciare un segno importante di sé all’amata e alla sua famiglia. Questo episodio da solo vale il film e testimonia l’esistenza di un’Italia che, ancora alla fine degli anni quaranta, sa aderire ai significati della Tradizione.
Dal fronte - come istintivamente previsto - Manfredi non torna. La madre alleva il piccolo Giuseppe (nato dunque nel 1916 dalle parti di Roma e non nel 1920 a Napoli come l’autentico Salvo D’Acquisto il quale peraltro non era figlio di un carabiniere) con l’idea di farne un sacerdote. La famiglia è composta di rurali, di solidi possidenti che coltivano la propria terra. C’è l’energico capofamiglia Luigi Manfredi (un valido Gino Cervi) e c’è anche l’immancabile zio prete il quale veglia sul cammino spirituale di Giuseppe che infatti studia in seminario, porta la tonaca ma all’ultimo momento cede alla vocazione dell’Arma, ereditata dal ricordo del padre. Entra felicemente a farne parte, fa a tempo a gustare la divisa, l’avanzamento di grado, le fastose parate dei suoi colleghi (il film si configura - fin dal titolo - come un omaggio al corpo dei carabinieri) ma poi, improvvisi, giungono l’8 settembre e gli eventi di Torrimpietra (paesino alla periferia di Roma).
L’intero episodio conclusivo è segnato dalla sobria intensità delle immagini, la cui armoniosa misura riesce a restituire il momento del sacrificio, evitando ogni retorica. Lo sguardo, in qualche modo stupefatto, degli ufficiali tedeschi riproduce quello rispettoso del regista il quale descrive con ferma semplicità i tragici eventi, guardandoli come “da lontano” e accompagnandoli con commossi movimenti di macchina.
La fiamma del titolo indica dunque numerose realtà materiali e spirituali: indica innanzitutto il simbolo dell’Arma; allude anche alla sua vocazione civile come pure ci parla di un mistico fuoco interiore che sopravvive anche nelle situazioni più drammatiche e oscure.
Resta da ricordare che il sacrificio del vicebrigadiere verrà in seguito onorato dall’Arma che conferirà la Medaglia d’oro al valor militare al giovane con motivazioni in cui si parla di “pagina indelebile di puro eroismo”, nonché verrà ricordato in una ventina di monumenti e di caserme intitolati a Salvo D’Acquisto come pure una sessantina di scuole, una cinquantina piazze e almeno trecentocinquanta strade.

Dopo l’acceso, tolstoiano Amanti senza amore (1948) Gianni Franciolini sviluppa in immagini un soggetto di Cesare Zavattini, elaborato da Antonio Pietrangeli e sceneggiato da Piero Tellini. Si tratta del commercialmente sfortunato Anselmo ha fretta (ottobre 1949; 90 min.), il cui esito al botteghino è così disastroso da convincere i produttori a ritirare la pellicola per riproporla qualche mese dopo con il titolo fuorviante di La sposa non può attendere. Zavattini e Tellini firmano una sorta di variazione del loro soggetto inventato per 4 passi tra le nuvole (Blasetti, 1942): un annoiato Gino Cervi - Anselmo si sveglia anche questa volta in un appartamento borghese e si appresta a vivere la giornata del proprio matrimonio come un’incombenza necessaria e poco entusiasmante. Nel discorso programmatico iniziale l’uomo, intimamente poco convinto, elogia i vantaggi insiti nel legarsi a una donna, nell’avere compagnia e casa pulita, nel fare figli nonché nell’assicurarsi una buona posizione sociale in quanto la famiglia della donna possiede una piccola e florida azienda casearia. Una visione certamente equilibrata e “tradizionale” dell’unione coniugale, prevalente in quegli anni, e tuttavia spoglia di ogni elemento poetico.
Poi, sulla via per San Biagio (paesino toscano in cui avverrà la cerimonia) si imbatte in Maria, una giovane (Odile Versois) che si è gettata nel fiume con l’intento di suicidarsi. Di mala voglia Anselmo la pone in salvo, ne ascolta il dramma (è incinta, sola e abbandonata) e cerca di liberarsene al più presto poiché il tempo corre e Donata, la sposa (una monocorde, immusonita Gina Lolobrigida) attende. Dopo numerose peripezie, durante le quali tutti lo scambiano per il padre del nascituro, riesce finalmente a lasciare la giovane presso un convento poco distante dalla chiesa dove tutti aspettano ormai da alcune ore. Perfino le suore credono che egli sia il padre e intanto Anselmo comincia ad avere meno fretta, ad affezionarsi alla povera sciagurata e a vedere gli eventi sotto una luce nuova. La ragazza diviene gradualmente il simbolo di un amore disinteressato che l’uomo non ha mai conosciuto e la vicenda finisce con il colorarsi di significati religiosi allorché la madre superiora del convento, parlando con Anselmo, gli dice che se “ha incontrato quella giovane, un motivo ci deve essere”.
L’uomo entra in una vera e propria crisi mistica: come accadrà ai protagonisti dei futuri e più sofisticati lavori di Eric Rohmer (Ma nuit chez Maud, 1969; Le Rayon vert, 1986; Le conte d’hiver, 1991) anche Anselmo ha incontrato la Grazia e d’ora in poi tutto deve cambiare. La festa con l’esercito di parenti pettegoli e maligni viene dunque mal sopportata dallo sposo che continua a pensare alla giovane che sta partorendo. Si viene così a sapere del suo interessamento per la poveretta e tutti (a partire dal suocero) travisano: nessuno crede alla versione di Anselmo che, disgustato, in piena notte, lascia l’ottusa moglie per andare a trovare la giovane. Solo al suo ritorno le cose finalmente si aggiustano: anche Donata ha finalmente capito il desiderio di verità e umana semplicità che anima l’uomo e ora lo condivide. La coppia si bacia mentre le campane sembrano suonare a festa.
La pellicola possiede dunque numerosi meriti: essa riprende le tematiche della sincerità e della comprensione verso l’altro che già animavano il poetico 4 passi tra le nuvole (anche allora Cervi si accompagnava con una ragazza incinta fingendo di esserne il marito per stornare i fulmini di una famiglia rurale; anche allora trascurava i suoi impegni quotidiani per compiere un atto di bontà che finiva col coincidere con un momento di riscoperta di se stesso) e le coniuga, questa volta, con la tematica cristiana del divino. L’esistenza dunque deve cessare di essere mera rappresentazione, volta a nascondere il proprio essere per garantirgli una generica rispettabilità (base necessaria della logica competitiva inerente al sistema capitalista) e un fatuo benessere; essa deve essere gioia piena e condivisa, anche a costo di infrangere qualche convenzione sociale. Mosso dal proprio fervore Anselmo trasforma gradualmente il discorso augurale al banchetto di nozze in un involontario comizio nel quale si ammonisce a “dare e dare”, sollevando l’inatteso entusiasmo dei contadini, relegati ai margini della festa e mettendo in imbarazzo la famiglia benestante che, con irritazione, pensa di avere acquisito un genero “di sinistra” (la qual cosa disturba il suocero molto più del fatto che Anselmo possa avere un figlio illegittimo). Insomma Zavattini e Franciolini firmano una fiaba dossettiana (sulla via di Miracolo a Milano, 1951) in cui candore, fede e generosità si fondono all’interno di un universo sociale che si vuole (si spera) in trasformazione.
Il totale fiasco della pellicola costituisce una amara sorpresa: certamente la vicenda è esile e, laddove non si colga il versante favolistico-simbolico, disturbante per l’evidente inverosimiglianza. Anselmo non si spiega: non chiarisce che la ragazza gli è estranea, il figlio non è suo e la cerimonia incombente; così la struttura narrativa appare oltremodo artificiosa e può generare in tal senso un netto rifiuto. Se invece si riesce a percepire il tentativo di fare irrompere il divino nel quotidiano, allora la storia assume una propria logica stringente e perfino appassionante. Le meditazioni pascaliane di Rohmer trovano qui una bella e ispirata anticipazione: se il “raggio verde”, di colpo, compare tutto assume un colore nuovo e il più mite e grigio dei personaggi può divenire uno scandaloso innovatore, deciso a occuparsi con sincero trasporto di chi gli sta intorno e soprattutto di chi è in difficoltà.
Il Centro Cattolico Cinematografico il quale aveva nettamente rifiutato le due precedenti, ammirevoli opere di Franciolini (Notte di tempesta, 1945 e Amanti senza amore, 1948), appioppando loro il netto giudizio di “escluso”, ora invece “si ricrede” e si limita a etichettare Anselmo con un tollerante “adulti con riserva”. Nel nome di un umanitarismo illuminato e tollerante, la pellicola apre la via, con largo anticipo (almeno un decennio), alle larghe intese tra cattolici di sinistra e cultura socialcomunista che diverrà il collante nazionale degli anni sessanta, settanta e (forse) ottanta. La fine degli anni quaranta però è un ‘epoca poco ricettiva in tale direzione: lo scontro tra DC e sinistre è netto e senza possibilità di mediazione; la gentile fiaba cattolica infatti non accontenta nessuno e cade nel vuoto.

Biancaneve e i sette ladri (dicembre1949; 90 min.) girato da Giacomo Gentilomo basandosi su una sceneggiatura sempliciotta di Marchesi, Metz, Grassi e dello stesso regista, è invece una farsa leggera che offre due soli motivi di interesse: la cornice narrativa giocata su una parodia ironica del finale di Ladri di biciclette (De Sica, 1948) e la brillante interpretazione di Peppino De Filippo nel ruolo principale del ragioniere napoletano Biancaneve. Questi, a Milano il giorno di Ferragosto, deve raggiungere la fidanzata Nella (Luisa Rossi) in Brianza per chiederme la mano al padre (un ottimo Luigi Pavese) ricco, gioielliere e mal disposto nei confronti del futuro genero “terrone”. I guai cominciano allorché egli contribuisce a catturare un borseggiatore (Misha Auer): i due finiscono in prigione, fuggono, si trasferiscono nella elegante villa brianzola del suocero dove inizia un vero e proprio balletto di ladri a caccia delle chiavi della gioielleria milanese del capofamiglia. Nel finale grande corsa verso piazza Duomo e piazza Diaz per sventare la rapina in atto; poi nell’epilogo ancora un solitario borseggiatore viene catturato...
Nella Roma di De Sica il possesso di una bicicletta usata appariva un fatto vitale per garantirsi un lavoro e l’accesso a un benessere minimo; nella Milano deserta di Gentilomo il quindici agosto tutti sono in vacanza e dunque il tenore di vita sembra essere radicalmente più alto di quello presente nella capitale. In realtà è semplicemente l’ottica degli autori a essere differente e a inquadrare l’universo maggioritario della piccola e media borghesia urbana anziché concentrarsi sui quartieri popolari. I ladri e i borseggiatori peraltro non sono gente comune, resa disperata da una situazione generale di miseria bensì taglieggiatori recidivi e simpatici manigoldi (ben noti alle forze dell’ordine), abituati a entrare e uscire dalle galere. La donna dei banditi (Silvana Pampanini) infine lavora come soubrette nei locali per mantenere Auer e si scontra con l’ingenua fidanzata del ragioniere, scambiandola per la nuova amante del suo uomo.
L’ambizione a formare una nuova famiglia, segno di una diffusa fiducia nell’avvenire, attraversa sia l’Anselmo di Franciolini, sia Biancaneve di Gentilomo e mostra in entrambi i casi figure umane solide e attente ai valori fondamentali dell’esistenza: i protagonisti mirano ad acquisire una dimensione sociale matura, autonoma e volta alla procreazione di una discendenza sentita quale completamento ineludibile del proprio percorso umano. In tal senso questo cinema rivela un radicamento effettivo nei valori della tradizione, radicamento che tenderà a mutare lentamente ma inesorabilmente, soprattutto a partire dagli anni sessanta.
Lavoro senza particolari ambizioni, la commediola di Gentilomo passa inosservata anche al botteghino e viene presto dimenticata da tutti. Ciononostante il paragone diretto e ricercato con il capolavoro desichiano la rende una sorta di appendice polemica nei confronti di quel film, offrendo una visione sostanzialmente antitetica della realtà sociale italiana, in ripresa economica e assorbita dalla ricerca di nuovi svaghi collettivi, ignoti sia all’epoca fascista, sia a quella più cupa del periodo bellico (in tal senso sono esemplari le sequenze ambientate nel locale notturno con piscina) laddove i richiami al fascismo sono tutti in negativo: infatti proprio per una presunta apologia del ventennio il povero ragioniere viene messo in prigione da uno zelante brigadiere. Il passato mussoliniano è dunque qualcosa da cancellare radicalmente.

Giuseppe Amato, ben noto come produttore (La cena delle beffe, 1942; 4 passi tra le nuvole, 1942; Campo de’ fiori, 1943), di tanto in tanto dirige qualche pellicola. E’ il caso di Yvonne la nuit (novembre 1949; 86 min.), dramma passionale (il soggetto è di Fabrizio Sarazani) ambientato nella Roma di inizio secolo nel quale l’autore raduna un cast di tutto rispetto (Totò, Gino Cervi, Olga Villi, Eduardo De Filippo). La vicenda tuttavia è totalmente convenzionale (l’amore di un ufficiale di origini nobili per una cantante di varietà, ostacolato dal padre; il giovane muore nella prima guerra mondiale e la donna finisce i propri giorni in miseria), l’ennesima variante di Traviata (1853) mentre la realizzazione si rivela superficiale anche a causa dell’ambizione di raccontare una vera e propria saga familiare estesa lungo alcuni decenni, attraverso semplici e frettolosi accenni incapaci di restituire un intreccio umanamente credibile.
I celebri attori appaiono sprecati in piccole parti mentre l’ambientazione nel mondo della rivista si attiene ai canoni più noti e prevedibili, per quanto sempre dignitosi e professionali. Così il film ottiene un buon successo commerciale che testimonia del suo generico valore e della sua capacità di far rivivero lo stereotipo dell’impossibile amore tra persone di classi sociali tanto distanti.
In parte il lavoro riprende l’astiosa antipatia fascista per le classi elevate, incolpando il padre (Giulio Stival) del giovane del peggiore dei crimini: egli sottrae il figlio alla madre considerata indegna e glielo fa credere morto per poterlo crescere in un ambiente consono alle sue origini. Su questa trovata estrema si articola l’ultima (peggiore) parte della pellicola, con la coppia Yvonne (Olga Villi) - Nino (Totò) artificiosamente ridotta in lacere vesti a mendicare un piatto caldo nelle locande popolari.

Altrettanto convenzionale appare nella sostanza il melodramma canterino Marechiaro (ottobre 1949; 90 min.) di Giorgio Ferroni, sceneggiato tra gli altri da Anton Giulio Majano, Franco Rossi e Mario Monicelli e ambientato in una Napoli senza tempo. La conturbante Susy (Nada Fiorelli), pur di rimanere accanto al marinaio Luca (Massimo Serato) innamorato di Silvana (Silvana Pampanini), sposa l’anziano padre (Augusto Di Giovanni) della giovane e opera poi per dividere i due innamorati con ogni mezzo. Nel corso di una notte le riesce in modo clamoroso di impedire ai due una rocambolesca fuga (il padre della ragazza è contrario a questa unione) e al tempo stesso di sedurre l’uomo, prendendo il posto dell’amata. Poi però le cose precipitano, Susy ricatta il marinaio pur di averlo per se sola e muore sfracellata da una rupe. Luca viene acusato di omicidio ma all’ultimo minuto si scopre che è innocente e che la morte della donna è stata causata da una serie di gesti impulsivi e imprevedibili ai quali ha preso parte Gennariello (Otello Seno), un amico d’infanzia del marinaio.
Il bravo regista di Tombolo (1947; vedi) realizza questa volta un’operina gracile e artificiosa il cui unico punto di forza è dato dalla sensuale avvenenza e dalla bravura di Nada Fiorelli la quale riesce a creare una sorta di femme fatale attraverso una serie di gesti calibrati, di sorrisi, di ferme ed eleganti prese di posizione alternate a momenti di totale abbandono, di sguardi autorevoli seguiti da occhiate desiderose. L’erotismo dell’attrice risalta ancor più nel confronto con la legnosa prestazione della Pampanini e con la figura monocorde e sbiadita offerta da Serato. Va aggiunto che la pellicola offre, sempre relativamente alla vicenda di Susy, una serie di scelte e situazioni notevolmente audaci per l’epoca: sposare un uomo anziano con la finalità di sedurne il futuro genero costituisce un tipo di argomento narrativo decisamente insolito nell’Italia ormai democristiana del 1949; prendersi gioco del matrimonio, usarlo come mezzo per raggiungere mete di mero soddisfacimento erotico (poiché tale appare fin dall’esordio il semplice progetto della donna ossia fare di Luca il proprio amante, accantonando ogni lecita e conformistica intenzione coniugale) rende il film di Ferroni un lavoro “estremistico” e quasi amorale (neppure nel coevo noir americano si giunge a intrighi così espliciti in ambito sessuale); tanto più visto che il personaggio della Fiorelli è l’unico dotato di una vibrante carica vitale all’interno di un universo di poveri manichini. In questo ritratto a suo modo perverso e appassionato (solamente in questo) Ferroni si dimostra all’altezza del pregevole Tombolo (nel quale la Fiorelli, moglie del regista, compariva in un ruolo secondario), pellicola altrettanto audace e graffiante nel mettere in scena senza infingimenti debolezze e vizi di un’umanità marginale. A entrambi i film, come prevedibile, il Centro Cattolico Cinematografico non fa mancare il giudizio di “escluso”.

Un altro bruciante dramma passionale, innervato da comportamenti morbosi e criminali, è costituito da La sepolta viva (febbraio 1949; 95 min.), film tratto dall’omonimo romanzo d’appendice (1889) del napoletano Francesco Mastriani e girato con mano esperta da Guido Brignone. La pellicola ottiene un clamoroso successo (secondo posto negli incassi, dopo Catene di Matarazzo).
Nella Napoli del 1860 in cui il regime borbonico sta per essere definitivamente abbattutto da Garibaldi, in una dimora patrizia si scontrano per motivi di eredità il giovane e cinico conte Federico (Paul Müller) dapprima litiga con matrigna e sorellastra; poi - sobillato da Elena (Tina Lattanzi), amante segreta nonché governante della famiglia - decide di passare alle maniere forti. Così avvelena e infine uccide la prima (Evi Maltagliati) e imprigiona la giovane Eva (Milly Vitale). Inutile dire che lo spietato malfattore è uno zelante borbonico mentre le innocenti vittime simpatizzano per i garibaldini. E saranno proprio questi ultimi a salvare la giovane - ormai traumatizzata - irrompendo nella residenza aristocratica. Giorgio Capecci (Piero Palermini), il salvatore di Eva - un tenente di Garibaldi - è anche il suo antico fidanzato che prontamente la sposa.
Brignone - veterano dei drammi storici (si vedano Kean, 1940, e Beatrice Cenci, 1941) - tratta la materia con buon senso del ritmo; utilizza una fotografia fortemente contrastata e inserisce evidenti suggestioni gotico-noir che derivano da pellicole ormai popolari in Italia quali Rebecca (1940) e Notorious (1946) di Alfred Hitchcock, lavori affini sia nell’atmosfera complessiva, sia per alcune situazioni specifiche. Tuttavia il regista sbaglia clamorosamente la scelta della protagonista, una Vitale bamboleggiante che, nella seconda parte, allorché ha perso la facoltà della parola, rischia di far naufragare nel ridicolo le situazioni “terrificanti” del racconto. Anche i rimanenti interpreti non si sollevano da una dignitosa routine, decretando così il carattere complessivamente malriuscito dell’operazione.
Il successo popolare si deve quasi certamente al quadro generale del film, alla sua capacità di miscelare con naturalezza dramma, cornice storica, intreccio poliziesco e atmosfera gotica. In particolare la truce sequenza in cui Eva prigioniera ascolta - al di la della porta - i rantoli della madre che viene sgozzata dal fratellastro, senza poterla aiutare, costituisce un’impressionante scena madre.
Racconto giallo, lezioncina risorgimentale e dramma passionale immerso in un caratteristico fondale storico italiano si fondono, testimoniando la capacità dei nostri autori di inserire le suggestioni che provengono dal cinema hollywoodiano entro la coordinate primarie dello stile filmico praticato nella penisola da almeno un decennio.

Giuseppe Di Martino, nato a Pescara nel 1921, lavora negli anni quaranta e cinquanta come regista teatrale. Esordisce in ambito cinematografico (firmandosi G. D. Martin) con Femmina incatenata (dicembre 1949; 95 min.), pellicola melodrammatica su soggetto di Camagna, sviluppato in sceneggiatura dal regista con altri.
Vi si racconta dell’amor fou di Hidla (Lori Randi), giovane scultrice di talento, per il suo celebre maestro (Manuel Roero), in momentanea crisi di idee. La giovane si illude di poterlo strappare alla fidanzata ufficiale (Jacqueline Plessis): l’uomo appare indeciso e la giovane lo abbandona, non prima di avere realizzato per lui una magnifica statua che ritrae una “femmina incatenata”. In seguito le cose precipitano ulteriormente: Hidla vive in una profonda depressione dalla quale tenta invano di salvarla un serio corteggiatore (Gianni Agus). Nel pasticciato e frettoloso finale, durante una furiosa lite tra i due uomini, lo scultore spara e uccide per sbaglio l’ex allieva.
Il film, di taglio accademico, si compiace dei propri pesanti simbolismi: la donna incatenata è l’immagine stessa della protagonista, la cui sensualità, che non riesce a trovare sbocchi, vive repressa, condannandondola a una forma di mortale apatia. L’arte è dunque sublimazione inutile, che non riesce a lenire le sofferenze (nella pellicola Hidla si aggira invano per musei romani, né la successiva attività di disegnatrice di moda le dona alcun reale piacere) mentre d’altro canto lo scultore, ormai esaurite le proprie idee artistiche, vive una parallela forma di sofferenza e di scontrosa debolezza (infatti non ha il coraggio di liquidare l’ossessiva e volgare fidanzata).
Di Martino insomma illumina un quadro di incandescente sensualità (si veda l’incredibile torsione che anima la statua e si ascolti l’accesa colonna sonora, di ispirazione wagneriana, di Gino Filippini) nel quale si illumina con abilità e coraggio la totale dipendenza della psicologia femminile dalla dimensione erotica (nell’accezione più vasta, freudiana o se si preferisce weiningeriana; vedi testo su Eyes Wide Shut). Un fallimento in quella dimensione condanna la donna al fallimento totale, al di là della sua riuscita in attività artistiche o produttive che risultano essere vane “sublimazioni”.
Femmina incatenata è un film inconsueto nel panorama italiano del periodo: possiede dunque ambizioni alte, legate alla riflessione intorno al rapporto tra creazione artistica, spinta sensuale, esaltazione emotiva, depressione e abbattimento fisico situato a un passo dalla perdita d’identità, e cerca di svilupparle con coerenza e rigore stilistico. Tenta inoltre di chiarire il contenuto sostanzialmente istintivo e amorale che permea l’amor fou della protagonista: le attenzioni serie e posate del secondo corteggiatore, il quale le descrive la prospettiva di un matrimonio sereno e tradizionale, non trovano infatti alcuna eco nell’anima sconvolta e ferita della donna.
Tuttavia i dialoghi poco brillanti, le ambientazioni generiche (legate anche al basso costo della pellicola), la ripetitività degli eventi conducono il film verso esiti modesti anche se mai scadenti. Il confronto con i recenti noir simbolici di Lang (soprattutto La donna del ritratto,1944, e La strada scarlatta, 1945), di cui Di Martino ripete alcune cupe e claustrofobiche atmosfere fotografiche, va certamente a svantaggio dell’opera italiana.
Femmina incatenata gira pochissimo per le sale della penisola e non ottiene alcun successo. La critica lo snobba.