Gelosia, Le sorelle Materassi e Il cappello da prete

La morte civile, La bisbetica domata, Gelosia, Le sorelle Materassi, Il cappello da prete, Giacomo l’idealista, Sempre più difficile e Tristi amori: racconti illustri (1942-43)

                 “Se il prete Cirillo non fosse stato tanto stordito
                  dalla sua avara passione, avrebbe veduto che
                  l’occhio del barone cominciava a essere sinistro e
                  pieno di sangue, e si sarebbe voltato al suono di
                  una voce che diventava sempre più coperta e
                  morta, come quella d’un tamburo funebre”
                  Emilio De Marchi, Il cappello del prete, cap. IV

Dopo i poetici esiti di Addio giovinezza (1940) e di Sissignora (1942), la breve carriera cinematografica di Poggioli prosegue con una serie di trascrizioni filmiche da importanti testi letterari che denotano lo stato di persistente isolamento dell’autore rispetto alla sgradevole realtà del fascismo in guerra.
Il regista mette in immagini La morte civile (set. 1942; 80 min.), dramma teatrale (1861) di Paolo Giacometti. Vi si narrano le oscure peripezie di Rosaria (Dina Sassoli), moglie di Corrado (Carlo Ninchi), un uomo scontento e irascibile che, durante un violento alterco, ammazza il cognato. Condannato all’ergastolo, riesce in seguito a fuggire quando la moglie si è ormai rifatta una vita con la figlia accanto ad Arrigo, un generoso medico (Renato Cialente) che la tiene presso di sè in qualità di governante, dopo averne adottato la figlia. Nel paesino (Monte Sant’Angelo, vicino Foggia) dove Arrigo esercita, il notabile Don Giacinto (Elio Steiner) scopre l’inganno e insidia la donna, mentre il fuggiasco Corrado torna a farsi vivo e pretende che Rosalia lo segua con la figlia. Al culmine del dramma quest’ultimo comprende la propria assurda pretesa e, dopo avere rivisto la bambina, si suicida.
Come si nota siamo di fronte a un lacrimoso melodramma ottocentesco, accompagnato da una prevedibile e ingombrante musica di taglio operistico, in cui i personaggi sono stereotipi senza vita. Poggioli gira con buon mestiere e qualche raffinatezza senza riuscire a rimodernare il testo, nè a renderlo interessante. Da un lato il film si conferma prosecuzione del melodramma con altri mezzi, senza però rinverdirne i fasti, dall’altro qualche blando accenno di critica sociale emerge nella figura del notabile sfaccendato e prepotente la cui mediocrità si contrappone alla figura dell’operoso e leale Arrigo, antitesi che allude alla consueta contrapposizione tra figure tipiche della vecchia Italia prefascista e figure che anticipano quella nuova e dinamica, che diverrà egemone dopo la Marcia su Roma.
La bisbetica domata (settembre 1942; 82 min.), ricavato in modo abbastanza fedele dal celebre testo shakesperiano (The Taming of the Shrew, 1590 circa) tramite una sceneggiatura di Sergio Amidei, Gherardo Gherardi e di Poggioli stesso, traspone la vicenda inglese nella Roma contemporanea, senza cancellare i disagi di una città in guerra (in una sequenza i protagonisti sono costretti a scendere in un rifugio antiaereo). Il lavoro è, di gran lunga, il peggiore del regista il quale cerca di dar vita a un’“opera buffa” che vorrebbe esser divertente. In realtà l’autore - tanto versato per i dolenti melodrammi di sapore “pucciniano” -  non possiede alcun talento comico e delinea la figura della protagonista femminile (un’insopportabile Lilia Salvi) in maniera ripetitiva e stucchevole. Il carattere monocorde e bambinesco di Catina rovina l’intero lavoro, né l’elegante distacco di Amedeo Nazzari, nel ruolo di Petruccio ovvero di colui che deve, passo dopo passo, domare l’irascibile fanciulla, possono salvare un lavoro tanto scadente, privo dei consueti valori figurativi e musicali, tipici del cinema di Poggioli.
Se il regista appare dunque a disagio con la materia narrativa, si può peraltro azzardare l’ipotesi che il film volesse creare una segreta allegoria delle cose italiane in un momento tanto drammatico della storia nazionale.
Petruccio è un italoamericano che torna a Roma per sposare Catina. Sebbene gli USA non siano ancora in guerra con l’Italia (vi entreranno tra pochi mesi), questo “americano” che giunge da fuori per mettere a posto una frignosa, bambocciesca, ipercinetica e ultradispettosa Catina, odiata dall’intera comunità popolare del quartiere, può alludere all’intimo e inconfessabile desiderio degli autori (non dimentichiamo che tra loro figura Amidei, futuro sceneggiatore di Roma, città aperta) di vedere l’odiato fascismo (alias Catina) messo finalmente a tacere da una potenza esterna o estera. E’ solo con questa stravagante lettura ma non improbabile lettura che il noioso e sempre prevedibile film assume un minimo interesse. Il lieto fine prevede dunque una Catina la quale - soggiogata dal fascinoso Nazzari - finalmente obbedisce e tace.
Segnaliamo inoltre che venticinque anni dopo Zeffirelli proporrà una versione filmica più interessante del testo inglese, affidando i ruoli chiave a Richard Burton ed Elisabeth Taylor.
Gelosia (dicembre 1942; 86 min.), sceneggiato con l’aiuto di Sergio Amidei, Vitaliano Brancati, Giacomo Debenedetti e altri, ricalca le pagine de Il marchese di Roccaverdina (1901), probabilmente l’opera più riuscita del siciliano Luigi Capuana. Si tratta di un dramma passionale estremo incentrato intorno alla figura dell’aristocratico protagonista il quale, incapace di sposare la serva-amante Agrippina Solmo, decide di darla in moglie a Rocco Criscione, un altro suo dipendente, a patto che il matrimonio sia fittizio e che egli possa continuare a fruire dei favori della donna. In seguito l’uomo, travolto dalla gelosia, ammazza Rocco; viene arrestato un innocente e il marchese finisce prigioniero di un rimorso che diviene pazzia allorché la vittima muore in carcere, lasciando una moglie e tre figli nella più desolata solitudine.
La scrittura di Poggioli cala la vicenda entro paesaggi assolati e aspri, resi da una fotografia fortemente contrastata e affida i ruoli principali a un ottimo Roldano Lupi e a Luisa Ferida, limitandosi a osservare il loro dramma da lontano, con elegante freddezza. La pellicola si colloca dunque nel solco delle numerose trascrizioni letterarie del periodo (I promessi sposi cameriniani; Piccolo mondo antico e Malombra di Soldati), offrendo la semplice e popolare divulgazione di un testo noto (circa un decennio dopo Pietro Germi ne darà una seconda versione filmica, anch’essa intitolata Gelosia, 1953). L’unico elemento interessante nell’opera di Poggioli è costituito dalla figura del parroco don Silvio (Ruggero Ruggeri) il quale, saputo in confessione del delitto, cerca di convincere il marchese a costituirsi. Nel momento culminante dell’opera il protagonista, reso folle dal rimorso, vede la stanza riempirsi di immagini di croci percepite come un possibile sentiero di ravvedimento. In quel punto il film condivide con altre pellicole coeve (i già citati Promessi sposi 1941, La corona di ferro di Blasetti, 1941; I bambini ci guardano di De Sica, 1943) l’idea della fede come porto nel quale ripararsi dalla bufera in corso: anche Poggioli, un autore decisamente afascista, intuisce nel potere del Vaticano una via d’uscita dalla tragedia bellica e ne dà conto in quelle immagini visionarie che sembrano offrire una possibilità di salvezza al tormentato marchese. Ciò è confermato dal fatto che la figura del sacerdote possiede nel testo di Capuana un’importanza assai minore (muore prima della fine della vicenda laddove nella pellicola si ripresenta nel decisivo episodio finale, ripetendo il proprio monito al vacillante protagonista) come pure l’episodio delle croci, vero apice visionario del film, episodio consistente nel libro in poche “deliranti” righe affidate all’ossessionato marchese.
Il successivo Sorelle Materassi (79 min.), dal noto romanzo (1934) del fiorentino Aldo Palazzeschi, sceneggiato da Bernard Zimmer, viene completato prima dell’estate 1943, ottiene il visto di censura nell’ottobre e rimane poi bloccato dagli eventi; esce nelle sale solo nel dicembre 1944 (la Rai ne produce una seconda, fortunata versione in forma di sceneggiato televisivo nel 1972, diretta da Marco Ferrero). In questa pellicola intorno al bellissimo Remo, sciocco profittatore ai danni delle zie Carolina (Emma Gramatica) e Teresa (Irma Gramatica) Materassi, l’universo letterario-filmico si colloca in una distanza ancor più accentuata dal mondo reale. L’unico dettaglio che ricorda la presenza di un contesto bellico è costituito dalla trasformazione di Peggy (Clara Calamai), futura sposa di Remo, da ricca newyorchese ad altrettanto ricca argentina; cosicché nel finale gli sposi non partono per New York, bensì per altre mete più “realistiche” in quel 1943.
Poggioli descrive un universo giovanile fiorentino (il quale gravita intorno alla figura dello sciagurato giovane) dissoluto e gretto, i cui unici valori di riferimento sono le donne, le lunghe sere passate a gozzofigliare nei locali e le belle automobili. Questo quadro deciamente dissonante con il contesto fascista e tanto più con quello bellico, trova una qualche correzione nella puntuale e mesta descrizione del dramma delle sorelle (alquanto invecchiate dal cineasta, da donne vicine alla sessantina ad anziane settantenni; tale è peraltro l’età delle sorelle Gramatica) le quali si fanno derubare dal giovane la cui esuberanza vitale tuttavia dona loro un ultimo bagliore di vita. Il matrimono e la partenza di Remo coincidono con la premonizione della morte che ora bussa alle porte di queste due zitelle nelle quali si avanza l’amaro sospetto di non avere pienamente vissuto la propria esistenza.
Queste sono in definitiva le poche annotazioni personali di un lavoro filmico di scarsa originalità, che si fa notare soprattutto per il proprio anacronismo storico, per il deciso porsi in dissonanza rispetto alla propaganda del regime intorno a una gioventù virile e fascista, conscia dei “destini” della Patria.
La trilogia letteraria di Poggioli si completa con Il cappello da prete (novembre 1944; 83 min.), fedele trascrizione filmica sceneggiata da Sergio Amidei e Giacomo Debenedetti del romanzo Il cappello del prete di Emilio De Marchi uscito a puntate su alcuni quotidiani diretti da Matilde Serao nel 1887 (e nel 1888 in volume). Roldano Lupi interpreta per la seconda volta il ruolo di un nobile assassino, tormentato dal rimorso. Il marchese di Roccaverdina di Capuana era infatti in parte ispirato al lavoro di De Marchi il quale riscosse alla sua uscita un enorme successo popolare. Entrambi i lavori trovano un minimo comun denominatore nel riprendere i temi del delitto e del castigo trattati con maestria nel recente capolavoro (1866) di Dostoevskij. Così l’ultima pellicola del regista bolognese, già al montaggio nel settembre 1943 quando la lavorazione viene interrotta per ovvi motivi, risulta quasi un remake di Gelosia: certamente quasi identica è la figura tracciata da Lupi, quella di un nobile, il barone Carlo Coriolano di Santafusca, che commette un omicidio quasi gratuito nei confronti di un essere considerato palesemente inferiore e che in seguito viene perseguitato dalla paura e dal rimorso fino alla conclusiva confessione liberatoria di fronte a un “Porfirio Petrovic” incredulo (il barone è stato convocato dal procuratore del re per semplici chiarimenti ma finisce con il tradirsi palesemente sia negli atti, sia nelle parole).
La pellicola di Poggioli è di gran lunga la migliore delle tre qui trattate, sia per la stringente logica del tessuto narrativo, derivato con assoluta precisione dal notevole scritto di De Marchi, un vero e proprio giallo italiano ottocentesco, sia per la galleria varia e ben delineata di figure. In particolare colpisce la fantasia del cineasta il duro confronto tra l’altero nobile e l’untuoso usuraio don Cirillo (un alter ego della avida vecchietta uccisa a colpi d’ascia da Raskolnikov), quest’ultimo reso con una memorabile incisività, degna del cinema espressionista, da Luigi Almirante. In fondo l’omicidio matura in modo casuale nel film (al contrario nel testo è un fatto attentamente premeditato): un sempre più irritato barone decide di colpo di eliminare il ripugnante individuo nel corso della visita a una propria villa che lo spretato faccendiere sta per comprare per pochi denari, approfittando della situazione pesantemente debitoria in cui si dibatte il protagonista. Il gesto è quasi privo di movente, dettato essenzialmente dal carattere provocatorio e viscido dell’usuraio, nonché dal desiderio di derubare il ricco e ipocrita faccendiere il quale si è recato all’appuntamento col barone con un libro che l’assassino intuisce pieno di soldi.
Se il regista guarda con profonda pena a don Cirillo, d’altro canto dipinge anche il nobile come un fatuo scialacquatore legato a una cerchia altoborghese di scarso valore umano. In questi tratti ambientali Poggioli sembra volere accontentare la diffusa politica culturale fascista volta a deprezzare le classi borghesi, colpevoli di avere “sabotato” l’impegno bellico della nazione. Ciononostante tale aspetto appare piuttosto marginale.
In definitiva quello che avvince nell’opera è la narrazione stringente che costringe la psicologia del barone entro progressivi vortici di angosciosa paura in un travolgente crescendo che sfocia nella delirante confessione dell’ultimo episodio. Evitato l’acceso e statico naturalismo di Gelosia, così come lo stanco calligrafismo delle Sorelle Materassi, Poggioli firma un film “giallo” degno di entrare tra i classici, tanto più che si erge quasi isolato nel coevo panorama filmico italiano.
Pochi mesi dopo l’uscita delle Sorelle Materassi e del Cappello da prete (ultimi mesi del 1944) Poggioli muore a Roma, il 2 febbraio 1945, per una fuga di gas. Alcuni parlano di suicidio.

Alberto Lattuada nasce a Milano il 13 novembre 1914, figlio di Felice, stimato operista (La tempesta [1922], Le preziose ridicole [1929]). Gia nei primi anni trenta il giovane manifesta la propria passione cinematografica negli stessi anni in cui suo padre compone, oltre a significative partiture liriche, anche più remunerative colonne sonore per Blasetti e Camerini. L’esordio avviene in qualità di sceneggiatore e aiuto regista in Piccolo mondo antico (1941) di Mario Soldati mentre il primo film come autore è Giacomo l'idealista (febbraio 1943; 100 min.), dal romanzo omonimo (1897) di Emilio De Marchi, sceneggiato insieme a Emilio Cecchi e Aldo Buzzi. Si tratta di un’amara tragedia sentimentale di taglio melodrammatico la quale, filmata nello stile accurato ed elegante di Soldati, ottiene buone critiche.
A Cernusco (vicino Milano) il professore Giacomo Lanzavecchia (Massimo Serato) lavora a un testo filosofico e contemporaneamente cerca di salvare dalla bancarotta la piccola ditta paterna di mattoni. I conti Magnenzio si offrono di assumerlo per aiutarlo finanziariamente e danno un lavoro di domestica anche alla sua fidanzata Celestina (Marina Berti al suo debutto). Tutto sembra mettersi al meglio senonché Giacinto (Andrea Checchi), il depravato figlio del conte don Lorenzo, durante una fulminea visita (chiede al padre una forte somma per pagare ingenti debiti di gioco) violenta la giovane e se ne riparte. La famiglia aristocratica cerca di evitare lo scandalo, nasconde la verità a tutti (soprattutto a Giacomo) e allontana Celestina, rinchiudendola in casa di parenti nel cremonese. La giovane, sconvolta e ormai alle soglie della pazzia, fugge la notte di Natale e percorre, con mezzi di fortuna, il lungo tragitto che la riporta da Giacomo. Giunge esausta e muore. 
Il semplice traliccio narrativo - sorta di versione tragica de I promessi sposi manzoniani - si piega agevolmente alla consueta ideologia antiaristocratica che permea la cinematografia fascista del periodo. Il giovane professore, figura positiva di intellettuale d’azione, ex garibaldino, capace di intervenire con efficienza nelle questioni della ditta paterna, viene “sedotto” dall’ “altra Italia”, quella dei nobili sfaccendati e inoperosi, nel cui seno allignano giovani corrotti e pronti a ogni turpitudine. L’anziano don Lorenzo (Giacinto Molteni) riordina una collezione di antiche scritte funerarie (evidente simbolo di un universo al crepuscolo), la moglie (Tina Lattanzi) organizza tediose serate mondane e il figlio Giacinto vive dissipando al gioco le ricchezze della famiglia. La soave Celestina, emblema di un’Italia umile, semplice e profondamente morale, è la preda del mascalzone durante una notte di inedia. A quel punto tutte le energie della contessa si indirizzano verso la rimozione dell’evento mentre ignobili politicanti democratici - venuti a conoscenza del fatto - si recano da Don Lorenzo e lo ricattano: o finanzia la loro campagna elettorale o useranno i loro giornali per amplificare il crimine e per interpretarlo in direzione politica anticonservatrice. Così gli autori menano fendenti a tutti i nemici del regime: l’alta borghesia improduttiva e lassista e i parassiti democratici vengono additati al pubblico disprezzo mentre l’unica visione che si elogia è quella del decisionismo garibaldino di cui Giacomo tesse gli elogi a più riprese. Gli ideali popolareggianti e repubblicani della Massoneria angloamericana - sintetizzati in Italia dalle correnti mazziniane e garibaldine - sono cari al fascismo dai tempi della fondazione nella milanese piazza San Sepolcro (fascismo che, tra pochi mesi, si trasformerà in una Repubblica Sociale il cui emblema sarà proprio Mazzini, l’eterno nemico dei Savoia) e trovano perfetta rappresentazione nella trascrizione del testo di De Marchi ad opera del giovane Lattuada.
Solo superficialmente quindi questo cosiddetto cinema “calligrafico” si è allontanato dalle problematiche attuali del regime, della guerra in corso e del distacco di larghe classi sociali dalla politica bellica fascista. Al contrario nel suo metaforico accusare nobili, benestanti e democratici di essere le cause di indegne sofferenze e nel suo guardare con simpatia alla piccola borghesia produttiva e intellettuale, il film si allinea alle esigenze della politica culturale voluta da Mussolini a partire dalla fine degli anni trenta. Essendo poi un lavoro nato negli torinesi, esso guarda con poca simpatia al clero, in alcuni dialoghi associato ai nobili nella sua tipica funzione di baluardo conservatore. L’attenzione alla Chiesa - sentita come futura àncora di salvezza in un’Italia alla deriva - così diffusa nelle pellicole dei primi anni quaranta, è qui assente anche se il fiducioso discorso conclusivo è affidato alla rassicurante figura di un sacerdote
In seguito Lattuada, probabilmente dimentico delle caratteristiche del cinema di quegli anni, dichiararerà che si trattava della “storia di una ragazza sequestrata da un ambiente in realtà piccolo-borghese, cattolico, bigotto. Era già una rivolta, e certamente non era un soggetto di quelli che ci raccomandavano le autorità del regime”. La memoria - strumento duttile nel suo adattare gli eventi del passato alle esigenze ideologiche del presente - gioca brutti scherzi al regista: l’ambiente che sequestra la giovane è aristocratico e non piccolo - borghese; certamente è bigotto ma aristocrazia e clero erano appunto due dei bersagli favoriti della politica culturale fascista di quegli anni. Lo saranno anche (soprattutto le gerarchie cattoliche) nel futuro cinema laico- socialista postbellico, ma questo è un fatto fuorviante nell’analisi di Giacomo l’idealista.
La cifra stilistica del film contiene numerosi motivi di pregio. Il racconto - assai vicino al melodramma lirico, anche grazie alla  intensa colonna sonora di Felice Lattuada - è organizzato in tre ipotetici “atti”: Giacomo alle prese con i guai finanziari della ditta paterna; l’episodio centrale nella residenza della famiglia Magnenzio (al centro esatto del racconto si situa lo stupro, raccontato con ammirevole sobrietà e perfetto uso della ellissi); l’esilio di Celestina e la sua odissea verso casa, per morire tra le braccia di Giacomo. La qualità visiva, memore dei film di Soldati ispirati a Fogazzaro, è sempre alta, giocata su studiate composizioni figurative di derivazione pittorica, su attente gradazioni della fotografia e su pochi, espressivi movimenti di macchina. Gli attori sono tutti all’altezza dei difficili ruoli (soprattutto Marina Berti, il cui soave volto comunica tutto il dramma inconsolabile di una purezza spezzata per sempre), i dialoghi suonano credibili (evitando forzature letterarie) e le situazioni vengono svolte con buona concisione. Solo il terzo “atto” - nonostante l’incantevole bellezza delle immagini sull’Adda - con la sua insistenza sulla componente melodrammatica (la fuga verso Giacomo, gli artificiosi dialoghi finali dei due fidanzati, finalmente riuniti), cade nella trappola del ricatto lacrimevole, con esiti prevedibili.

Anche Sempre più difficile (aprile 1943; 90 min.), elegante trascrizione ad opera di Piero Ballerini e Renato Angiolillo della commedia Sue Eccellenza di Falcomarzano (1921) dello scrittore siciliano Nino Martoglio, si colloca nell’ambito del cinema antiaristocratico, voluto dal regime e lo fa attingendo a una fonte a suo modo attendibile e prefascista. Il racconto illustra le malefatte del fatuo principe di Falcomarzano (Nerio Bernardi) e di sua figlia, la principessa Giovanna (Orietta Fiume), nella Sicilia di inizio Novecento. Il nobile riassume tutte le caratteristiche negative di una classe un tempo oligarchica, ora in netta decadenza: pieno di debiti, senza soldi e senza “castello” (gli è stato sequestrato dai creditori), il principe vive da parassita in casa di una famiglia di operosi pescatori, benestanti e dotati di una piccolo naviglio. Senza rinunciare alla propria alterigia, il protagonista riesce a imbrogliare con piccole frodi anche la cerchia piccolo borghese che ora lo circonda e lo ospita (non senza irritazione). Quando ormai tutti i nodi stanno per venire al pettine, la principessa e il marinaio di casa si innamorano e mettono il principe di fronte al fatto compiuto. Quest’ultimo intanto riesce a sanare ogni debito accettando un incarico dirigenziale in Argentina, procuratogli da una vecchia amante.
Commedia a lieto fine, Sempre più difficile è l’ennesima occasione per dipingere un’Italia prefascista retta da una classe democratico-parlamentare corrotta e incapace, di cui il principe (senatore del regno, sempre al centro di beghe politiche) dovrebbe essere un tipico esemplare. Al polo opposto, nello schema ormai collaudato da decine di pellicole, si colloca la famiglia gioviale, apolitica e fattiva dei pescatori siciliani, esclusivamente dediti al loro onesto e proficuo lavoro in mare, famiglia soggiogata dall’alterigia del principe, ma anche orgogliosamente estranea alla sua boria. Come sempre il populismo fascista ribadisce la propria vicinanza a questa piccola borghesia solida e concreta che aveva costituito il perno della rivoluzione fascista del 1922 e conferma la propria estraneità nei confronti della vecchia aristocrazia improduttiva e arroccata su posizioni classiste. Quest’ultima potrà “redimersi” solo abiurando i propri titoli e accettando di unirsi (attraverso il matrimonio) alle attive e oneste genti della penisola.
Se il film non riserva alcuna sorpresa, va anche detto che gli attori sono tutti validi e convincenti, i dialoghi (di Martoglio) sono brillanti e la costruzione complessiva (la posizione del principe che diventa “sempre più difficile” o meglio insostenibile, fino al miracoloso scioglimento) ben congegnata.
Un altro paragone balza evidente: quale profonda differenza corre tra questi pescatori sereni e operosi, certi delle proprie qualità e queli tragici, sfruttati e disillusi de La terra trema (1948), film di soli cinque anni dopo che peraltro attinge a fonti ottocentesche (I Malavoglia). La dura realtà siciliana si trova sicuramente nel grigio mezzo di questi due modelli antitetici, entrambi stereotipati: quello letterario e fin troppo rassicurante di Martoglio (relativo agli anni venti) e quello spinto ad arte verso orizzonti di cupa desolazione, da parte di un Visconti melodrammatico e “progressista”.

Carmine Gallone porta sullo schermo con ottimi risultati Tristi amori (ott. 1943; 90 min.), la commedia teatrale (1887) di Giuseppe Giacosa che costituisce uno dei migliori esiti letterari dello scrittore piemontese. Il film si attiene fedelmente al testo e si concentra sul ritratto di Emma (Luisa Ferida), la moglie infedele, innamorata ed al tempo stesso invasa da un devastante senso di colpa (c’è anche una figliola...). La donna vive un’esistenza agiata nella casa del rispettato marito Giulio, avvocato di successo (un ottimo Gino Cervi), il quale ha accolto tra le mura domestiche (in cui si trova anche lo studio legale) il conte Fabrizio (un sofferente Andrea Checchi) in quanto suo collaboratore e presunto amico. Tra Emma (il nome rievoca quello di Madame Bovary) e Fabrizio è scoppiata un’inarrestabile passione e la voce corre nella piccola Ivrea. Solo il marito, amorevole e impeccabile, non sospetta nulla fino a quando non interviene lo spregiudicato padre (Jules Berry) di Fabrizio il quale, sommerso dai debiti di gioco, pretende che il figlio sposi una donna ricca e appiani, per tale via, le sue gravissime difficoltà economiche. Pertanto obbliga (quasi ricatta) Emma affinché convinca Fabrizio a fare questo passo.
Scoperta di colpo la verità, la desolazione scende nella casa di Giulio. Emma, combattuta, non riesce ad abbandonare la bambina e resta col marito il quale accetta la situazione, avvisandola che, d’ora innanzi, saranno solo due soci nella difficile impresa di educare la figliola per garantirle un futuro dignitoso.
L’ottica di Gallone, da un lato ritrae con amorevole compassione la debole Emma, succube delle proprie passioni (in tal senso le frequenti immagini del fuoco, nel caminetto, associate al volto della Ferida, esprimono compiutamente questo stato febbrile), dall’altro racconta la discesa agli inferi di Giulio il quale vede crollare l’intero senso della propria esistenza e, ciononostante, decide, con stoica rassegnazione, di tutelare, col proprio sacrificio, l’onore della figlia. Nel fondale il carnevale e la battaglia delle arance, tipica di Ivrea (ritornerà protagonista nel mediocre Una donna allo specchio di Quaregna, 1984, con Stefania Sandrelli), ricordano ai rispettabili borghesi che le convenzioni sono maschere dietro le quali si annidano passioni spesso intontrollabili e distruttive.
Pellicola di essenziale classicità, Tristi amori illumina un universo patriarcale ottocentesco il quale, in fondo, non è troppo dissimile da quello che governa il tessuto sociale di coloro che nelle sale cinematografiche, nei giorni immediatamente successivi alla disfatta dell’8 settembre, guardano questo dramma coniugale segnato da un lacerante verismo. Tanto più che in esso ritroviamo l’abituale disprezzo mussoliniano per le classi aristocratiche, inutili e parassitarie (il padre del conte Fabrizio, figura spregevole, si è rovinato col gioco, argomento ricorrente - sempre sotto il segno negativo - nel cinema della prima metà degli anni quaranta). Al contrario, nel nuovo millennio caratterizzato da un paranoico consumismo, i valori di riferimento di questo film appaiono collocati in un passato remoto e radicalmente diverso, valori lontani e incomprensibili almeno quanto quelli che caratterizzavano l’impianto narrativo dei melodrammi romantici di Donizetti, Verdi ed anche Puccini (col quale, come è noto, Giacosa collaborò per oltre un decennio).

testo scritto nel 2006; ultimo aggionamento nel giu 2017