I tre aquilotti e Stasera niente di nuovo

Catene invisibili, I tre aquilotti, Labbra serrate e Stasera niente di nuovo: cameratismo e perdizione (1942)

                “Alla natura si comanda solo obbedendole
                F. Bacone, Novum organum (1620)

Mario Mattoli firma nel 1942 quattro pellicole: tre drammi sentimentali appartenenti a un’ideale tetralogia (ossia “I film che parlano al vostro cuore” inaugurata dal precedente Luce nelle tenebre, 1941) e un lavoro di propaganda bellica (I tre aquilotti). Catene invisibili (aprile 1942; 79 min.), su un soggetto di Francesco Marturano sviluppato in sceneggiatura dallo stesso Mattoli con altri, narra il cammino di “redenzione” di Elena (Alida Valli), una ragazza dell’alta borghesia figlia di un importante industriale. Il fatuo ambiente che la circonda è dipinto con “colori” di un’antipatia graffiante e aggressiva, secondo i consueti vocaboli ideologici del fascismo popolare e viene questa volta contrapposto a crude immagini semidocumentaristiche che mostrano il duro lavoro degli operai siderurgici. L’elemento traumatico consiste nella improvvisa morte del padre di Elena. L’austero dirigente degli stabilimenti della ricca famiglia (Carlo Ninchi), uomo semplice, dinamico e completamente dedito al lavoro in omaggio all’altro ricorrente stereotipo del regime (quello di una piccola borghesia attiva, onesta e fascista), si incontra e scontra più volte con la capricciosa giovane fino a innamorarsene; quest’ultima intanto ha abbandonato la propria esistenza spensierata e cerca invece di realizzare le ultime volontà del padre intorno a un proprio figlio segreto (Andrea Checchi). La ragazza lo avvicina e lo aiuta procurandogli un lavoro ma l’individuo è irrimediabilmente perduto entro loschi traffici; nel finale, improntato con talento al cinema noir americano, Andrea Checchi, inseguito dalla polizia, cade da un cornicione e muore.
La pellicola mostra le buone doti di Mattoli sia nella pittura degli ambienti, sia nella caratterizzazione dei personaggi. Gli sciocchi salotti dell’alta borghesia, le aspre immagini della fabbrica, gli squarci paesaggistici di Capri, le poetiche inquadrature di una città notturna e nebbiosa nel drammatico finale forniscono una cornice intensamente espressiva la quale riesce ogni volta a fondersi perfettamente con i tratti caratteriali delle figure. Queste ultime, per quanto abbastanza rigide e prevedibili, vengono vivificate dalle ottime interpretazioni di Ninchi, Checchi e della Valli cui bisogna aggiungere un ottimo Carlo Campanini nella spassosa parte di un amico cui tutti ricorrono per avere consigli, personaggio che attua una funzione di necessario alleggerimento ironico del contesto drammatico. Inoltre va notato che, mentre Elena è in grado di percorrere un preciso cammino di interiore trasformazione, il suo fratellastro documenta la tipologia umana del malvivente “naturale” il quale, sebbene disponga della possibilità di “redimersi”, dimostra di non sapere che farsene e di essere prigioniero del proprio destino congenito. Mattoli dunque afferma, secondo un modello di pensiero lombrosiano e antimarxista, che l’ambiente favorevole, la generosità e le chiacchiere molto spesso non servono a modificare un’inclinazione dell’individuo e che, in definitiva, non resta che “obbedire” baconianamente al dettato naturale.
La guerra, la fame e la politica sono apparentemente assenti dal racconto sebbene la dura condanna dello stile di vita della elite benestante e il duro impegno del probo dirigente ricordano agli spettatori cosa è bene e cosa è male in quel difficile momento storico della vita della nazione.
Nel 1942 compaiono due pellicole su soggetto di Tito Silvio Mursino alias Vittorio Mussolini. Dopo Un pilota ritorna (R. Rossellini, vedi) uscito nella primavera è la volta de I tre aquilotti (agosto 1942; 75 min) diretto da Mario Mattoli e presentato alla mostra veneziana. La pellicola, sceneggiata da Alessandro De Stefani, cerca di illustrare la vita quotidiana presso la Scuola Areonautica di Caserta ed è in larga parte interpretata da veri allievi piloti mentre i ruoli principali sono affidatio a un trio di attori professionisti tra i quali si nota un Alberto Sordi alla prima prova importante. La vicenda è completamente occupata dalle peripezie sentimentali di Marco (Leonardo Cortese) il quale si innamora di Adriana (Michela Belmonte) ma viene fieramente osteggiato da Mario (Carlo Minello), fratello della ragazza; il sottotesto prevede invece il “dramma” di Marco il quale improvvisamente scopre di essere inadatto al volo e viene confinato a terra, in ruoli subalterni. La guerra irrompe solo nelle ultime sequenze: sul fronte russo Mario è costretto ad atterrare in territorio nemico e Marco riesce a salvarlo dando prova di eroismo e di una ritrovata capacità aviatoria.
Mattoli, regista più sensibile alle disavventure sentimentali che alle questioni belliche (si veda il fortunato, recente Ore 9: lezione di chimica, 1941), immerge la narrazione in atmosfere giulive e fanciullesche poco adatte all’ambientazione militare e soprattutto al momento storico. Se da un lato appare evidente l’intento di produrre una sorta di Uomini sul fondo (De Robertis, vedi) ambientato tra protagonisti dell’aria, d’altro lato il regista e lo sceneggiatore non posseggono alcun talento per la cronaca documentaria e firmano una pellicola puerile e reticente. Puerile in quanto questi ventenni sembrano avere quale unico interesse le avventure erotico-sentimentali con ragazze del luogo (è in definitiva l’argomento esclusivo delle conversazioni) e reticente in quanto questa folla di ragazzi, sul’orlo di una catastrofe storica, non spendono neppure una parola per commentare le coeve vicende belliche, la tecnica del volo, i rischi e le ansie che naturalmente dovrebbero occupare la loro mente. Sebbene girato nel pieno del conflitto il film potrebbe tranquillamente essere collocato in un periodo di pace se non fosse per le immagini drammatiche che irrompono nell’ultima parte del film, immagini le quali, essendo in larga parte fornite da materiale di repertorio, operano una rottura stilistica insanabile con il resto del solare lavoro. Nè la singola notizia della morte del fratello di un allievo pilota appare sufficiente a rendere con verosimile autenticità il momento storico.
La pellicola di Mattoli appare quindi un capitolo trascurabile (se non irritante) nella produzione filmica di quegli anni: la penosa falsità di questo gruppo di giovani, assorbito dalle scaramucce goliardiche e dalle festicciole di fine corso, impedisce alla pellicola di testimoniare alcunché. Le sottintese rassicurazioni “tecniche” che questo film vuole veicolare (sul modello di quelle presenti nella citata opera di De Robertis), corredate da ottime sequenze aeree e da indicazioni intorno al valore dei nostri caccia e della preparazione degli aviatori,   naufraga a causa dell’irrealtà e del carattere immaturo di questi giovani, entusiasti neopiloti i quali, sempre calati entro impeccabili divise, più che intenti ad attrezzarsi per una cruciale avventura bellica sembrano godersi una sorta di piacevole vacanza in un prestigioso istituto professionale. Un abisso dunque separa il film di Mattoli da Alfa Tau di De Robertis (vedi; presentato alla medesima mostra veneziana), opera anch’essa di argomento militare capace però di illustrare con ben altra sincerità la situazione drammatica dell’Italia di quei mesi.
Smesse le goffe movenze di cantore della patria, Mattoli ritorna alla poetica più abituale con Labbra serrate (novembre 1942; 80 min.), un efficace dramma passional-giudiziario inserito nel ciclo del “cuore”. Soggetto e sceneggiatura sono dello stesso Mattoli il quale si cimenta nel genere poco “italiano” (leggi fascista) del whodonit con due falsi colpevoli e un finale a sorpresa in tribunale. La vicenda ruota intorno a Carlo (Andrea Checchi), giovane disoccupato e figlio di un giudice, innamorato della seducente, pericolosa avventuriera Lydia (Annette Bach). Ruggero (Fosco Giachetti), procuratore del regno e fidanzato di Anna (Vera Carmi), sorella di Carlo, riesce a dissuaderlo e ad allontanarlo dalla donna la quale nel frattempo viene uccisa. Il giovane, unico indiziato, viene arrestato e processato e sebbene innocente, ostinatamente tace (tale atteggiamento scarsamente motivato, è il punto debole dell’intera sceneggiatura). Nell’ultima sequenza il procuratore, che sostiene l’accusa, riesce a smascherare l’insospettabile assassina.
La pellicola, serrata e avvincente, costituisce un buon esito della cinematografia italiana del periodo la quale mostra di sapersi muovere con sicurezza entro coordinate “nuove”, molto vicine alla tradizione del noir americano. Intorno alla figura del debole e tormentato Carlo si aggirano personaggi vecchi e nuovi: il dolente padre, austero servitore dello stato, è un personaggio arcinoto; la donna fatale nonché ex prostituta rispetta l’abituale stereotipo e conferma la visione mattoliana del destino individuale immodificabile, “scritto” una volta per tutte nel proprio bagaglio genetico (secondo il citato motto baconiano); di contro Anna configura un inedito modello femminile di donna lavoratrice (assiste un chirurgo) il quale infatti solleva le esplicite perplessità del fidanzato Ruggero. Appare evidente che Mattoli sta proponendo al pubblico una differente figura femminile, non più relegata entro le mura domestiche, figura in qualche modo dettata dalle contingenti esigenze del regime che ora (a causa del decisivo conflitto in atto) caldeggia un impegno straordinario e collettivo che coinvolga anche le donne. Dunque si coglie la necessità di Mattoli di giustificare e spiegare (soprattutto attraverso una “didascalica” conversazione tra Anna e Ruggero) questa nuova figura trattaggiata con positiva simpatia, radicalmente antitetica a quanto proposto nella maggior parte del cinema italiano precedente.
Ancora il bravissimo Carlo Campanini, in un ruolo di supporto (amico di Carlo nonché corteggiatore di Lydia), garantisce nuovamente (vedi Catene invisibili) i necessari momenti di alleggerimento attraverso battute spiritose e una strepitosa mimica, conferendo pertanto all’insieme quella varietà di toni che impedisce al film di precipitare in una cupa monotonia. 
Subito dopo esce l’intenso e pregevole Stasera niente di nuovo (dicembre 1942; 97 min; conclusione della tetralogia del “cuore”) nel quale, partendo da un soggetto di propria invenzione ispirato a un fatto di cronaca, narra la triste odissea di Maria (Alida Valli), una giovane scappata di casa e finita nella rete della prostituzione, la quale incontra Cesare Manti, giornalista alcolizzato alla deriva, il quale si prodiga per offrirle un’alternativa di vita. Su suggerimento di quest’ultimo la giovane accetta di entrare in un istituto femminile cattolico di riabilitazione ove però non riesce a sopportare l’esistenza tediosa; ripresa l’abituale esistenza girovaga Maria torna dopo alcuni mesi nella casa di correzione stremata ed in fin di vita. Manti la ritrova, la sposa in extremis per nascondere il passato della ragazza di fronte ai suoi ignari genitori e la assiste in punto di morte.
Il “neorealismo” postbellico ha ossessivamente accusato il cinema di epoca fascista di non occuparsi di drammi sociali, di essere ligio al Potere, di mostrare realtà addomesticate e fatue. Tale posizione appare viziata da uno schematismo di comodo e da una superficiale conoscenza del cinema dei primi anni quaranta (o se si preferisce da una certa malafede). Come si è visto sono numerose le pellicole che affrontano drammi femminili con piglio realistico (tra esse ricordiamo La peccatrice di Palermi; E’ caduta una donna di Guarini e La fuggitiva di Ballerini), senza peraltro indietreggiare di fronte a tematiche scottanti quali la prostituzione, l’aborto e la diffusa pratica dell’adozione dei figli abbandonati da donne di piacere. Ciò accade nonostante si tratti di tematiche poco “onorevoli” per il regime, la cui disamina finisce con l’indicare una realtà sociale ancora assai problematica e tutt’altro che risolta dalla “rivoluzione” fascista. In definitiva la presenza di questi lavori mostra una realtà cinematografica tutt’altro che appiattita sulle esigenze propagandistiche del regime, nonché un lodevole sforzo di sincerità.
L’ingiustamente ignorata pellicola di Mattoli (il quale ne appronterà più tardi un remake intitolato L’ultimo amante, 1955) si colloca tra le opere più valide del periodo per l’intensa recitazione dei protagonisti, per la qualità incisiva dei dialoghi, per il felice tratteggio dei comprimari (le figure a tutto tondo dell’anziano dottore interpretato da Antonio Gandusio e della direttrice dell’istituto di correzione), per la fotografia fortemente chiaroscurale, per l’utilizzo sensibile dei primi piani ed infine per il taglio figurativo di alta qualità, spesso pittorico (si vedano le tragiche immagini conclusive).
L’impostazione politica della narrazione denota una cauta presa di distanza dalla visione fascista e risente invece della emergente ondata filocattolica: il dramma bellico (lo si è detto in abbondanza) porta gli italiani a guardare nuovamente alla chiesa come ad un’ancora di salvezza e non è dunque una sorpresa la descrizione luminosa del meritorio asilo che tale istituzione universalistica appronta con generosità per le giovani “traviate”; si può addirittura arrivare a intuire nella stessa figura di Maria e delle sue disgrazie una sorta di allegoria inconsapevole della desolata situazione italiana e della naturale propensione di larghi strati della società civile e politica a cercare rifugio entro le mura vaticane (in tal senso si vedano La corona di ferro, I promessi sposi, I bambini ci guardano e La porta del cielo).
La pellicola inoltre propone numerosi altri elementi di rottura nei confronti del cinema precedente, una rottura che culmina nella magnifica sequenza del film nel film: completato lo spettacolo di rivista le luci in sala si spengono e i personaggi assistono e commentano con sarcasmo alcune sequenze del film L’abbandono (sempre di Mattoli, girato nella primavera del 1940), un’artificiosa commedia in costume. Il distacco tra l’accorato realismo di Stasera niente di nuovo e le mielose immagini del film proiettato nel locale di avanspettacolo non potrebbe essere più netto: tra il primo e il secondo ci sono stati due anni di guerra ovvero un’esperienza dura che ha incentivato nel lavoro dei cineasti più sensibili una differente presa di coscienza delle reali problematiche sociali nonché l’inclinazione a raccontare con scarna veridicità le dure condizioni di vita dei più deboli. Questa straordinaria pagina filmica costituisce una storica presa di distanza rispetto a un tipo di scrittura di mero intrattenimento e l’implicito invito a utilizzare la macchina filmica anche quale “lingua scritta della realtà”, dando vita ad un realismo duro e denso di interrogativi, capace tuttavia di inchiodare lo spettatore in virtù dell’intensa partecipazione emotiva che lo permea (val la pena di ricordare che nel dicembre 1942 sul Corriere della sera il recensore scrive: “Alla fine della proiezione il pubblico ha applaudito. Era parecchio che ciò non avveniva. Noi eravamo tra gli applauditori...”).
D’altronde quello di Mattoli è un realismo lirico che continua ad attingere a piene mani alla declinante tradizione melodrammatica, stabilendo una volta di più la nota continuità tra i due universi artistici all’interno della cultura italiana. In particolare sui titoli di testa e nella struggente pagina finale il commento è affidato al “piangente” preludio del terzo atto di Traviata (Verdi, 1853), straordinaria pagina musicale quanto mai idonea ad accompagnare l’agonia della sfortunata Maria mentre l’incipit del racconto è affidato al celebre sestetto della Lucia di Lammermoor (Donizetti, 1835; lo trasmette un programma radiofonico). Insomma se la scrittura filmica ricerca un realismo autentico e sobrio, venato di uno scettico cinismo, d’altro canto l’autore non dimentica la secolare sensibilità italiana e nei momenti più dolorosi lascia prevalere il discorso sonoro melodrammatico.
Questa pellicola profondamente antitetica a quella degli aquilotti mussoliniani contiene ulteriori motivi di interesse. In particolare una lucida ed insolita filosofia affiora nell’indimenticabile personaggio del dottor Moresi, sorta di commentatore esterno e relativamente distaccato delle fosche vicende. Di fronte agli sforzi generosi ma anche ingenui del giornalista l’anziana figura gli rammenta a più riprese che ogni persona possiede un proprio ineluttabile destino inscritto nei tratti caratteriali e che è vano tentare di modificarlo (“ogni creatura nasce col proprio destino ed è una sciocchezza forzare il destino” afferma e la ricaduta di Maria nell’universo della prostituzione conferma, di lì a poco, le disincantate previsioni del dottore). Sembra di ascoltare il noto detto baconiano secondo cui alla natura si comanda solo ubbidendole, la qual cosa suona alquanto inusuale in epoca fascista: al volontarismo cieco e vagamente stolto del Mussolini “impegnato” da anni nella fabbricazione dell’inesistente “uomo nuovo” italiano, guerriero e imperiale, sembra replicare il timido, rassegnato Moresi, sorta di scettico Carneade, ricordando al pubblico (e all’Italia nel suo complesso) che l’unica saggezza possibile consiste nel conoscersi e nell’accettarsi entro i propri limiti e che nessuna sciagura è più grande di quella che pretende di trasformare arbitrariamente un individuo (o un popolo) per destinarlo a imprese ed opere non confacenti alla sua più intima natura.