L'assedio dell'Alcazar

L’assedio dell’Alcazar e Il cavaliere di Kruja: un invito alla Spagna franchista e un elogio dell’Albania italiana(1940)

                 “A Toledo non appena viene diffusa la notizia della liberazione dell’Alcazar si assiste a indescrivibili scene di  entusiasmo delirante... si odono voci, esclamazioni entusiastiche, tedesche, greche, ungheresi, irlandesi, italiane, le voci di tutti i popoli che fraternizzano con l’esultanza spagnola conclamante la vittoria conseguita e l’imminente irreparabile destino delle milizie         bolsceviche.”
              Giuseppe Rasi, L’inferno spagnolo (1934)

Augusto Genina, nato a Roma nel 1892, esordisce nel cinema come soggettista e regista nel 1913. Tra il 1927 e il 1936 lascia l'Italia e gira numerosi film in Germania, Francia e Austria. Rientrato nella penisola ottiene due grandi successi con Squadrone bianco (1936), melodramma eroico ambientato in Tripolitania, e L'assedio dell'Alcazar (agosto 1940; 118 min.); quest’ultimo, basato su soggetto e sceneggiatura del regista coadiuvato da Alessandro De Stefani e girato tra Cinecittà e gli esterni reali della città iberica (con l’ausilio di attori spagnoli, comparse del posto e addirittura di truppe dell’esercito franchista), viene presentato alla mostra di Venezia dove riceve (come prevedibile) la coppa Mussolini quale migliore film italiano.
A soli quattro anni dagli eventi il lavoro ricostruisce, con una relativa fedeltà storica, la vicenda dell’Alcazar di Toledo in cui i militari guidati dal colonnelo Moscardò (Rafael Calvo), fedeli agli ideali nazionalisti del ribelle Franco, resistettero per oltre due mesi (dal luglio al 28 settembre 1936) all’assedio delle forze repubblicane nelle fasi iniziali della lunga e sanguinosa guerra civile. Il regista alterna un efficace sguardo corale ad ambizioni documentaristiche (compaiono nel lavoro immagini di repertorio rese omogenee con il resto della narrazione), al racconto di alcune vicende personali di carattere anche sentimentale. Queste ultime, totalmente irrilevanti e convenzionali (protagonisti Fosco Giachetti, Andrea Checci e Maria Denis in uno scontato triangolo amoroso), riescono tuttavia a generare un andamento più mosso (tra momenti di stasi e brusche accelerazioni) e rendono la pellicola più universale e “godibile” (il film ebbe un enorme successo e fu venduto a numerosi paesi).
Il punto di vista degli autori è totalmente inserito nella visione fascista del reale: si comincia con una aperta derisione delle pratiche del parlamentarismo (il leader falangista Carlo Sotelo viene irriso alla camera di Madrid e poco dopo la notizia del suo omicidio segna l’avvio del sollevamento militare franchista); si prosegue con una pittura ferocemente aggressiva delle truppe miliziane (un esercito di mezzi straccioni comunisti dediti a ogni sorta di innominabile crudeltà; tra gli episodi più atroci il ricatto telefonico a Moscardò: la resa oppure la fucilazione del suo figlio quindicenne, poi prontamente effettuata), degli “onorevoli” di sinistra (un grottesco parlamentare, dalle fattezze vagamente togliattiane, incita i militari ad azioni rapide, rischiose e totalmente sbagliate dal punto di vista bellico pur di potere annunciare la caduta di Toledo a Madrid; poco dopo lo si ritrae a banchettare pinguemente mentre la battaglia, appena cominciata, infuria) e della logica sovietica che li governa (bandiere rosse e odio per il cattolicesimo sono il collante delle truppe governative) per concludere con un inno maschio e solenne alle qualità austere della vita militare, le uniche che prevedono coraggio, competenza, azione e capacità di resistenza nel nome degli ideali giusti della nuova Europa anticomunista e antidemocratica che si va ormai profilando in quell’estate di guerra del 1940.
In larga parte la trama della narrazione è ispirata al libro di Giuseppe Rasi L’inferno spagnolo (edizione Minerva, Milano, 1937; capitolo “L’alcazar di Toledo”), testo filocattolico e celebrativo delle gesta del generale Franco.
Dunque l’Alcazar è un film di propaganda netta e sfrontata, inverosimile e manichea in cui risulta inutile ricorrere all’elogio dello stile linguistico (animato è vero da un forte chiaroscuro, dal gusto per i dettagli tipico dell’altrettanto austero e falso cinema di propaganda sovietico e da un taglio delle immagini sempre attento a restituire un’atmosfera corale e “veritiera”) al fine di nascondere quell’unico dato essenziale. Né stupisce riscontrare la critica italiana compatta e monolitica nel sottolineare i (discutibili) pregi del lavoro (tra gli altri svetta un giovanissimo Michelangelo Antonioni che, nel settembre 1940, sulle pagine della rivista “Cinema” parla di “ film scabro”, di “senso epico dell’opera” e di “gesta eroiche... che appena toccate squillano”).
Ciò che al contrario incuriosice nell’operazione romana (il film è stato concepito a Cinecittà) è scandagliare le motivazioni per cui la nostra industria e il Ministero della cultura popolare decidono di dare via libera a una pellicola che, pur trattando di una guerra alla quale avevano contribuito anche le truppe mussoliniane, si incentra su un episodio totalmente “spagnolo”. Quando il lavoro viene ideato (inizio del 1940) l’Italia si trova in mezzo al guado, nella fase transitoria della “non belligeranza”. Mussolini è indeciso sul da farsi o meglio è soprattutto indeciso sul quando intervenire nel conflitto. Ed è proprio questo che scrive a Franco in una lettera riservata dell’aprile 1940: “E’ mia convinzione che la guerra assumerà forme più dure e che la posizione dei neutrali diventerà sempre più difficile... Per quanto riguarda l’Italia, essa non può alla lunga evitare di entrare in guerra e quando lo farà, sarà a lato della Germania... E’ mio intendimento di ritardare sino al possibile l’evento di cui vi parlo, ma non so se potrò riuscirvi...”. Dunque l’era delle “fatali” decisioni si avvicina e Mussolini, tra le righe, caldeggia il sostegno di un intervento spagnolo che avrebbe sigillato il Mediterraneo attraverso la conquista di Gibilterra. La pellicola di Genina, un omaggio alla eroica Spagna franchista, legata all’Italia dal medesimo senso cattolico (e dalla medesima alleanza forte con il Vaticano), si muove nella direzione di sollecitare la fattiva alleanza della “parte sana” della penisola iberica nella lotta contro la vecchia Europa delle Massonerie parlamentari e del comunismo sovietico (nemico mortale della Chiesa). D’altronde lo stesso Franco stava pensando seriamente a un proprio intervento, tanto è vero che a seguito di quello italiano (10 giugno) il generalissimo proclama il passaggio della Spagna dalla neutralità alla no belligeranza (12 giugno 1940). In seguito però i disaccordi tra Franco e Hitler su molte cose (innanzitutto le rivendicazioni coloniali del primo) e l’andamento della guerra che, dopo la mancata invasione della Gran Bretagna (settembre 1940), diviene una guerra lunga e dall’esito incerto, faranno desistere il prudente leader spagnolo il quale, da quel momento, parlerà sempre di intervento spagnolo prossimo dopo la neccessaria preparazione, un abile trucco linguistico per rinviare sine die ogni mossa azzardata (ciò a partire dal lungo colloquio tra Hitler e Franco del 23 ottobre 1940 a Hendaye).
D’altronde Spagna e Germania erano anche divise sulla questione cattolica come testimonia proprio la differente accoglienza del film di Genina. In Germania infatti la pellicola circola solo dopo che Gobbels, in accordo con lo stesso Hitler (da lui interpellato), ha fatto eliminare le sequenze filopapali (soprattutto la lunga messa finale in cui un sacerdote benedice i provati occupanti dell’Alcazar che si credono ormai a un passo dalla disfatta). Il neopaganesimo hitleriano concorda con i regimi fascisti latini solo sulla priorità antisovietica; sulle questioni religiose il nazismo è nemico acerrimo di Roma, intenzionato a eliminare dalla Germania le ingerenze vaticane sentite come un illecito e invadente potere straniero (concetto peraltro ampiamente comprensibile e non lontano dalla verità). L’incontro tra Mussolini e Franco a Bordighera nel febbraio 1941 stabilisce il definitivo disimpegno della Spagna (dietro le abituali formule di amicizia e cortesia per l’alleato di un tempo) in quadro bellico totalmente mutato a sfavore dell’Asse.
In definitiva lo sforzo filmico di Genina, svolto in collaborazione con la Spagna, fallisce il proprio scopo: quello di attivare e sancire con un racconto eroico, celebrativo e popolare la desiderata alleanza tra fascismo e franchismo nella lotta contro l’Inghilterra. Franco non cade nella trappola bellica europea, rimane un astuto osservatore esterno e perciò governerà la Spagna fino al giorno della sua morte, avvenuta nel 1975. In questo modo la penisola iberica rimane ai margini e non rientra nel vasto campo d’azione (per ampi settori europei il termine esatto è “colonizzazione”) dei vincitori della seconda guerra mondiale.

Nel solco della propaganda più smaccata si muove anche Il cavaliere di Kruja (set. 1940; 80 min,), pessimo film firmato da Campogalliani che esamina e glorifica il recente intervento italiano in Albania. Insieme alla pellicola spagnola, il film viene presentato al festival di Venezia dove passa giustamente inosservato.
Un gruppo di italiani, tra cui spicca il giornalista Andreani (Antonio Centa), cerca di operare in maniera moderna ed efficiente nell’Albania del musulmano re Zog ma viene ostacolato dall’ottusità della polizia e della burocrazia locale, disinteressata al rimodernamento del paese. Andreani, però, stringe amicizia con la tribù antigovernativa di Hasslan (Guido Celano) e, per di più, si innamora di Eliana (Doris Duranti), sorella di quest’ultimo, finendo per ottenere il permesso di sposarla dall’amico albanese. La situazione, poi, precipita: su ordine del re l’esercito locale decide di sterminare i nemici interni e i loro alleati italiani, asserragliati in un casolare. Quando la loro resistenza è ormai allo stremo giunge, provvidenziale, l’invasione italiana dell’Albania (7 aprile 1939).
L’intreccio narrativo è risibile e termina con un evidente plagio degli stereotipi del western hollywoodiano (gli eroi nel casolare assediati dai “pellerossa” locali). I personaggi sono solo macchiette senza vita mentre i dialoghi risultano spesso mediocri. Trattandosi dell’unico film incentrato sull’impresa albanese italiana esso conserva, tuttavia, un certo interesse di documento storico. E’ evidente il taglio “razzista” del racconto: la superiore cultura italiana, resa ancor più moderna e “invincibile” dalla rivoluzione fascista, “si fa carico” di migliorare il mondo e di rinnovare usi e costumi delle nazioni confinanti, portandovi la propria superiorità tecnologica (lo sfrecciare degli aerei nel finale) e il proprio schietto e semplice cameratismo. Va rilevato che, mentre le leggi razziali del 1938 avevano cercato di isolare il ”superiore” popolo italiano dagli ebrei e dai matrimoni misti africani, tali provvedimenti non sembrano avere valore in terra albanese, una terra che viene, tuttavia, descritta, come musulmana e pertanto profondamente differente da quella italica. Ad est i matrimoni misti sono dunque benvenuti e auspicati, al fine di rafforzare i rapporti di amicizia con le popolazioni locali.

testo scrittto nel mag. 2006; ultimo aggiornamento: ott. 2017