La nobiltà ostile

La nobiltà ostile

Accanto all’ampia cerchia dei mecenati beethoveniani - come si è visto tutti “poco viennesi” - si può cogliere la presenza di un’altra aristocrazia tutt’altro che benevola nei confronti del compositore di Bonn. Innanzitutto pesa l’ “assordante” silenzio della corte asburgica: se ai tempi di Giuseppe II Mozart era stato appoggiato in ogni modo dall’imperatore, Beethoven non ottiene alcun sostegno da Francesco II, quanto meno nel lungo periodo 1792 - 1810.
Vi è però un fatto ben più esemplare: nel 1802 il barone Peter von Braun (1758 - 1819), posto dalla corte, fin dal 1794, alla guida dei due principali teatri imperiali (Burgtheater e Kärntnertortheater), nega a Beethoven la possibilità di tenere un’Accademia. E’ un gesto clamoroso, non sufficientemente approfondito dai biografi, gesto che sembra palesare una rotta di collisione tra il Potere asburgico e il musicista. Ma se tale conflitto esiste, esso si situa a un livello più alto e importante ovvero tra il Potere e quella cerchia nobiliare che sostiene e protegge il musicista ma che appare totalmente inetta a procurarsi un banale, singolo spazio concertistico per quello che è considerato il massimo compositore “viennese” del momento. In una lettera del 22 aprile 1802, indirizzata nientemeno che alla Breitkopf di Lipsia, proprietaria della più importante rivista di scritti musicali della cultura tedesca (la Allgemeine Musicalische Zeitung), Kaspar van Beethoven, fratello del musicita, non mostra la minima prudenza e insulta senza mezzi termini von Braun; egli scrive che “il direttore del teatro, barone von Braun, persona notoriamente stupida e rozza, gli [a Beethoven] ha rifiutato il teatro per la sua accademia... “.
Due anni dopo sempre von Braun, divenuto padrone (a partire dal febbraio 1804) anche del Theater an der Wien nel quale Beethoven si era in certo modo “barricato”, riesce a sabotare i progetti operistici del compositore (annulla il contratto per il Fidelio) e a estrometterlo dal teatro. A proposito del potente barone in una lettera del marzo1804 Beethoven scrive a Joseph Sonnleithner (suo librettista): “so in anticipo che, se tutto dipende ancora dal sig. barone, la risposta sarà no, se così è me ne andrò via di qui [Theater An der Wien] immediatamente, mi è sempre stato nemico, dal momento che l’ho incontrato il suo comportamento è stato completamente ostile.  - E sia pure - ma io non striscerò mai - il mio mondo è l’universo”. Come si nota Beethoven è alle strette: aggredito nel suo ultimo rifugio, ribadisce che von Braun è un radicale nemico e lo è - quasi certamente - perché lui non vuole sottomettersi alla politica culturale asburgica; infine conclude con una tipica affermazione di difesa di pretto sapore massonica: si sente un uomo universale ovvero un cittadino del mondo, pronto a cambiare città e nazione se è necessario.
Se ne deduce che esiste quindi una nobiltà poco entusiasta di Beethoven, la quale non esita a negargli perfino la possibilità di far conoscere ai Viennesi le sue ultime, importanti creazioni (nel caso specifico si trattava della Seconda sinfonia e del Terzo concerto per pianoforte che verranno eseguite, nella capitale austriaca solo nell’aprile 1803, ma non nei teatri di corte).
D’altro canto - sempre facendo riferimento all’epistolario - va rilevato come Beethoven fosse diventato - almeno a partire nel nuovo secolo - un seguace della gesta napoleoniche, ovvero del più pericoloso nemico degli Asburgo emerso dalla scena europea da molti decenni a questa parte. Lo si deduce innanzitutto dalla citatissima lettera in cui il musicista si dichiara stizzito per il Concordato religioso firmato da Napoleone e Pio VII con il quale l’ “eroe” della rivoluzione si accordava con il massimo rappresentante dell’ “Oscurantismo” e ridava piena cittadinanza al cattolicesmo in Francia. Beethoven prende troppo sul serio quel gesto (non ha compreso che Napoleone - come altri tiranni del secolo successivo - non dà alcun peso a questi “impegni cartacei”) e - nell’aprile 1802 - si sfoga scrivendo all’editore Hoffmeister (si discute della proposta di comporre una Sonata rivoluzionaria): “Andate tutti al diavolo, signori miei! - Propormi di fare una simile sonata? - Ai tempi caldi della rivoluzione, questo poteva ancora andare; ma adesso, che tutti cercano di ritornare sui vecchi binari e che Bonaparte ha concluso il Concordato con il papa - una simile sonata?... ora che siamo di nuovo cristiani... ah ah... Lasciatemi fuori... non se ne fa nulla”. Il tono irridente è quello del rivoluzionario deluso, del democratico anticlericale che aveva riposto ampie speranze nel leader francese e si sente ora tradito. E’ d’altronde il sentimento di vasti schierameni radicali europei di fronte a questo gesto, tanto più se si pensa che il Direttorio - durante la prima campagna d’Italia (1796-97) - aveva ordinato a Napoleone di distruggere il Papato mentre il giovane generale aveva optato per la pace di Tolentino che umiliava Roma senza  distruggerla e annichilirla, senza cioé trasformarla in una repubblica.
Tra l’altro Beethoven dimostra un certo coraggio nello sfidare la censura asburgica e nel far circolare idee tanto radicali presso editori ovvero figure pubbliche, dotate di una vasta rete di relazioni. E si può, in definitiva, supporre che questo suo modo antiasburgico di intendere lo scontro politico in atto fosse noto negli ambienti di corte, certo tutt’altro che sprovveduti (dotati cioé di una efficiente polizia segreta e di una nutrita schiera di informatori). Quindi se Beethoven si lamenta della linea troppo morbida del temibile Napoleone, si può comprendere perché gli venisse negato l’accesso ai principali teatri imperiali.
Una ferma riprova della totale estraneità di Beethoven all’universo del Potere asburgico è costituita dalla “chiamata alle armi” (a partire dal 1805) di tutto il ceto intellettuale e artistico da parte dell’imperatore Francesco I (dal 1804 ha abbandonato il nome di Francesco II, accettando di divenire semplicemente il primo degli imperatori austriaci, lasciando da parte il troppo vasto e ormai in parte perduto Sacro romano impero) per una crociata propagandistica antifrancese, volta a rivalutare le radici nazionali tedesche e a incentivare una guerra di “liberazione” dal tirannico Napoleone. Nel lungo elenco dei principali nomi della cultura viennese (August Schlegel, Ernst von Arndt, Adolf Bäuerle, Heinrich von Collin, Ignaz Castell, Josef von Hormayr) che aderiscono con scritti e con opere musicali di vario genere (tra gli altri spicca - oltre a Salieri di cui si dirà poi - Sussmayr che già nel 1796 aveva composto l’opera patriottica Der Retter in der North) manca ovviamente quello del massimo musicista viennese (fama questa attribuitagli a posteriori da una musicologia disinteressata a indagare il reale quadro complessivo della politica culturale asburgica).
Al contrario nei mesi della prima occupazione francese di Vienna (dal 13 novembre 1805) Beethoven si lega a Cherubini, massimo esponente del mondo musicale francese in visita a Vienna. Napoleone infatti invita il musicista fiorentino a dirigere una serie di concerti nella residenza di Schönbrunn (dove si è momentaneamente stabilito). Cherubini è tra gli spettatori della prima del Fidelio (20 novembre 1805) mentre Beethoven ricambia l’onore assistendo all’opera dell’italiano Faniska (identico il librettista Sonnleithner, soggetto simile a quello del Fidelio) il 25 febbraio 1806 al Kärntnertortheater (uno di quei teatri di corte nei quali le note di Beethoven non avevano accesso), esprimendosi con toni entusiastici intorno alla qualità del lavoro. Faniska era stata commissionata proprio dal barone von Braun che era andato personalmente a prendere Cherubini a Parigi e col quale aveva fatto un lungo viaggio di ritorno verso Vienna nell’estate 1805; l’opera nuova del fiorentino veniva presentata alla presenza di Francesco I, rientrato a Vienna dopo l’armistizio di Presburgo (Bratislava).
Al tempo stesso bisogna notare che i massimi rappresentanti del potere e della nobiltà asburgica - Franz von Thugut, Johann Cobenzl, Franz von Colloredo, Johann Stadion e soprattutto Metternich - sono privi di relazioni con Beethoven. D’altronde tutti questi nomi operano con coerente determinazione al fine di scardinare e distruggere la potenza rivoluzionaria francese che - tramite Napoleone - sta diffondendo morte e distruzione in Europa. Metternich in particolare - il più duttile e astuto - ebbe significativamente a dichiarare: “La lotta dei giacobini e l’appello alle passioni popolari mi istillarono un disgusto che l’età e l’esperienza non hanno fatto che rafforzare”. Mentre la macchina asburgica muove tutte le risorse della nazione per arginare l’invasione francese, Beethoven non si limita a tacere; riceve (novembre 1808) l’invito da Jerome Napoleone a divenire Kapellmeister in Westfalia (a Kassel) e nel gennaio successivo sembra sul punto di accettare; infine nell’ottobre 1809 - nei giorni in cui l’imperatore dei Francesi è a Vienna - pensa bene di dirigere (in un concerto di beneficenza) la Terza sinfonia dedicata al Bonaparte, tanto per rimarcare la propria collocazione politica. Nel 1810 ancora medita omaggi napoleonici sotto forma di una dedica della Messa op. 86.
E’ significativa inoltre la pressoché totale mancanza di relazioni con Giuseppe Carpani, una figura a suo modo centrale nella politica culturale asburgica.
Carpani, nato a Villalbese (vicino Como) nel 1752, dopo una laurea in giurisprudenza (Pavia) si distingue a Milano nelle vesti di poeta e polemista. Nel periodo 1792-96 collabora con la Gazzetta di Milano sulla quale pubblica molteplici interventi (firmati Veladino) contro gli eventi e gli ideali del 1789. Conquistata la fiducia dergli ambienti asburgici si trasferisce a Vienna nel 1796 dove - dopo Campoformio (1797) - viene nominato censore e direttore di tutti i teatri di Venezia, carica che mantiene fino al 1804. In tale veste lo scrittore (autore anche di numerosi libretti teatrali, spesso musicati da Joseph Weigl) decide di vietare ogni lavoro che possa in qualche modo mettere in discussione i dogmi religiosi, l’autorità dell’imperatore e la casta degli aristocratici. Nel 1805 si stabilisce definitivamente a Vienna (dove morirà nel 1825) dove viene nominato poeta dei teatri imperiali. In questo lungo periodo Carpani scriverà molto in difesa dello stile oggettivo della musica della tradizione italiana e di quella viennese derivata dal limpido e quieto stile italiano; di contro si esprimerà (una sola volta) in modo fortemente critico nei confronti del genio beetoveniano accusato di portare disordine e caos nell’universo della Bellezza. Nelle Haydnine (edite nel 1812 a Milano) encomia lo stile bonario e politicamente asettico di Haydn e riguardo a Beethoven invece, dopo avere lodato i suoi lavori giovanili (soprattutto l’accademico, innocuo Settimino) afferma: “Vorrà egli porre un freno alla sua fantasia? Vorrà darle un ordine, una misura, un carattere? Vorrà anteporre la bellezza alla singolarità? Vorrà cessare di essere il Kant della musica? In una parola: vorrà farsi un sistema chiaro, intellegibile, sensato, e seguirlo?”.
L’intelligente Carpani riconosce la grandezza del compositore di Bonn e al tempo stesso ne denuncia la pericolosità, il suo attentare a quegli equilibri naturali dell’Arte per trasformarla da ornamento di corte in uno strumento di guerra della nuova classe politica liberale. Negli ultimi anni della sua esistenza - scomparso il pericoloso Napoleone, contro il quale Carpani non aveva mai cessato di inveire (anche in quanto tiranno di un regno d’Italia falso e francesizzato) - lo scrittore si dedica all’esaltazione del Pesarese ne Le Rossiniane, ossia lettere musico-teatrali (Padova, 1824) e interviene in favore dell’amico Salieri in Lettera... in difesa del Maestro Salieri calunniato di avvelenamento del Mozzard (Milano, s.d.). Insomma il lungo percorso biografico e artistico del Carpani - tutto interno all’universo della cultura ufficiale asburgica di cui rimase sempre un fervente sostenitore - non mostra alcun punto di tangenza con quello beethoveniano. Si tratta dell’ennesima riprova dell’isolamento in cui vive il compositore del Fidelio.

Amicizie particolari

Un’altra lettera suscita interessanti riflessioni politiche. Nella missiva del 18 maggio 1803 Beethoven scrive al barone Alexander Wetzlar (fratello di Raimund, amico e protettore di Mozart) per segnalargli il talento del violinista Bridgetower, pregandolo di volerlo introdurre presso i saloni di Therese Schönfeld. I musicologi brancolano nel buio quanto all’identità di questa signora e avanzano solo alcune labili ipotesi (la si ritiene - senza prove - imparentata al conte Johann Hilmar Schönfeld, autore di un utile dizionario della vita viennese datato 1796). Invece mi pare quasi certo trattarsi di Therese Schönfeld, sorella di Moses Dobrushka alias Franz Thomas von Schönfeld alias Junius Frey (1753 - 1794), ambiguo uomo politico appartenente alla setta dei frankisti, vicino poi a Giuseppe II e infine a Danton. Si noti che Beethoven si rivolge all’ebreo (quasi certamente) convertito barone Alexander Wetzlar per raccomandare Bridgetower presso un’altra ebrea convertita (dei dodici fratelli Dobrushka solo due non si convertirono al cattolicesimo; l’adesione al rito romano era il fondamento stesso della teoria frankista). Se tale ipotesi è esatta, siamo di fronte a un elemento in più per poter dire che Beethoven si calò a Vienna nella medesima cerchia di massoni, Illuminati e frankisti che circondava Mozart (si veda il mio saggio Indagine... su W. A. Mozart, 2007) e operò in sintonia con loro, ora aderendo a una politica filonapoleonica, ora a un indirizzo filoinglese a seconda dei periodi e dei momenti storici. D’altronde se è certa la gelida distanza che separa compositore e casa asburgica, d’altro lato la sua notorietà appare fin dall’inizio esagerata (soprattutto in relazione al discontinuo valore delle opere giovanili) e suscita il fondato sospetto che Beethoven potesse avvalersi di appoggi preordinati in relazione al suo operare all’interno di una precisa “Fratellanza”.
Anche la carriera del violinista “mulatto” Georg Bridgetower si svolge all’insegna del consueto cosmopolitismo tipico della cerchia di Mozart, Haydn e Beethoven. Nato a Biala (1778) in Polonia, probabilmente da madre polacca e da padre originario delle Indie occidentali, il ragazzo - un enfant prodige - segue le orme mozartiane: accompagnato dal padre si esibisce nel 1789 ai parigini Concert Spirituel, nel 1790 è a Londra dove suscita notevoli entusiasmi e diviene allievo di composizione di Thomas Attwood (ex allievo di Mozart). Suona nei Salomon Concert dedicati ad Haydn, entra a far parte dell’orchestra del principe di Galles (1795 - 1809) e nel biennio 1802-03 viaggia in Europa. Dopo alcuni concerti a Dresda (1802) conosce Beethoven nella primavera 1803 e insieme eseguono la celebre Sonata op. 47, in seguito dedicata a Kreutzer. Nel 1805 Bridgetower rientra a Londra dove si stabilisce (vi morirà nel 1860). Nel decennio seguente è tra i fondatori della massonica Philharmonic Society che, intorno al 1817, commissiona la Nona sinfonia a Beethoven. Come si nota, una biografia esemplare nelle sue aderenze alla cerchia politica prima di Mozart e Haydn, poi beethoveniana.

Accademie rimandate e una richiesta inutile

Tale confraternita, in difficoltà (come si è visto) quanto a penetrazione nei teatri asburgici, dopo il diniego subìto nel 1802 è costretta ad accontentarsi di quei teatri minori (oltre ovviamente ai saloni aristocratici dei vari Lichnowski e Lobkowitz) sui quali esercitava una diretta influenza. Così le creazioni di Beethoven vengono “deviate” verso il Theater an der Wien (costruito nel periodo 1799-1801 poco distante da quel Theater auf der Wieden dove, nel 1791, venne eseguito Il flauto magico e che verrà chiuso proprio nel 1801). Ne è direttore artistico Ignaz Seyfried (Vienna 1776, ivi 1841), un tempo forse allievo di Mozart, certamente di Albrechtsberger, il quale dopo una permanenza a Praga (1792-93) per studi universitari lavora stabilmente nei due teatri di Schikaneder dal 1797 al 1827, divenendo il Kapellmeister del Theater an der Wien.
In tale sede verranno eseguiti Seconda sinfonia e Terzo concerto per pianoforte nell’aprile 1803 (un anno dopo il rifiuto ricevuto dal barone von Braun in riferimento ai più prestigiosi teatri asburgici), nonché il Fidelio (novembre 1805; seconda versione marzo 1806), diretto appunto da Seyfried. In seguito appare eclatante e definitivo - per una esatta valutazione dei rapporti tra Beethoven e Vienna - il fallimento della richiesta di un posto a corte, in quella corte dove, ai tempi di Giuseppe II, Mozart era di casa sia come operista dei teatri imperiali, sia in qualità di compositore ufficiale per la musica da camera e i balletti.
Già nel settembre 1803, in una lettera indirizzata a Hoffmeister, Beethoven appare certo della propria estraneità all’universo della musica ufficiale asburgica. Scrive infatti: “Vi prego di ricordare che tutti i miei conoscenti hanno un incarico stabile e sanno esattamente su cosa contare per vivere; ma Dio ci aiuti. Quale incarico alla corte imperiale potrebbe mai esser concesso a un parvum talentum com ego?”. Il compositore appare quindi consapevole del baratro che lo separa dagli Asburgo. Ma c’è molto di più da notare nel contenuto di questa lettera. In fondo essa demolisce gli stereotipi con i quali la musicologia ufficiale imbastisce da sempre il retorico ritratto di un Beethoven libero professionista che, per primo, si sarebbe emancipato dalla servitù del servizio presso i nobili e che anzi avrebbe asservito i nobili al proprio capriccioso talento. Beethoven era altresì un uomo normale il quale, non diversamente da Mozart, Haydn e da tanti musicisti coevi, era alla ricerca di una sistemazione economica duratura e rassicurante. I continui progetti di un trasferimento a Parigi o a Kassel evidenziano appunto le umane reazioni a questo stato di costante incertezza economica.
In una missiva indirizzata alla Onorevole Regia Imperiale Direzione dei teatri di corte nel dicembre 1807 il compositore chiede di essere assunto presso tali teatri e si impegna a scrivere un’opera lirica l’anno (disponibilità di dubbio valore, considerato il sostanziale fiasco del recente Fidelio) nonché “a fornire ogni anno a titolo gratuito una piccola operetta o divertimento, dei cori o dei pezzi di circostanza, secondo il desiderio e le necessità dell’onorevole direzione...”. Come si vede Beethoven è dispostissimo a trasformarsi in un qualunque stipendiato musicista di corte, a dispetto di tutto quanto è stato scritto da una musicologia fissata nel voler distinguere Beethoven da tutti gli altri musicisti coevi come l’unico o il primo ad avere preferito la libera (e alquanto incerta) professione a un tranquillo e remunerativo impiego a corte. In definitiva possiamo affermare che il musicista di Bonn - a causa della propria collocazione politica - non riesce a ottenere alcunché e deve in definitiva fare di necessità virtù.
Come prevedibile la dirigenza dei teatri rispose negativamente: neppure Lobkowitz , presente nella società di direzione dei medesimi (dopo il 1806 anche il Theater an der Wien era stato associato ai teatri di corte), era riuscito a favorire il musicista. Ciò conferma ancora una volta la radicale estraneità di Beethoven alla cultura ufficiale viennese del primo decennio dell’Ottocento. D’altro canto il compositore non si faceva illusioni e negli stessi giorni in cui chiedeva un impiego alla Diezione dei teatri scriveva a Heinrich von Collin: “Ho così poco da aspettarmi da quest’ultima [la direzione dei teatri] che il pensiero che dovrò alzare i tacchi non mi esce dalla testa”.
Intanto le importanti partiture si ammassavano sulla scrivania di Beethoven al quale veniva negato ogni accesso ai teatri imperiali, anche per una semplice Accademia. Solo dopo due anni di pressanti e penose richieste (a partire dalla fine del 1806), le autorità concedono al compositore il permesso di poter dare un concerto. Merita di essere citata per esteso la lettera del marzo 1808 destinata a Heinrich von Collin nella quale traspare tutta la disperazione del musicista, evidentemente tenuto ai margini della vita culturale della capitale. Scrive: “...qui a Vienna mi sono ormai abituato a essere trattato come l’ultimo dei miserabili... Io ho 3 documenti che attestano la concessione del teatro per un giorno lo scorso anno e, considerando anche quelli della polizia, sono ben 5 documenti comprovanti il diritto di un giorno, che però non è mai stato concesso. Anche solo per il disturbo che mi sono preso per niente, mi dovrebbero dare un giorno che comunque mi spetta. Ripeto, il giorno che mi spetta perché se volessi potrei costringere la direzione teatrale a darmi questo giorno in virtù del mio diritto; anzi ne ho già parlato con un mio avvocato. - E perché non dovrei farlo? - Non mi hanno forse spinto agli estremi? - basta con i riguardi verso questi vandali dell’arte”. Altro che il Beethoven “coccolato” dalla aristocrazia viennese che la musicologia tradizionale va spacciando da almeno un secolo.
Pertanto anche il successivo “lotto” di creazioni sinfoniche e concertistiche viene eseguite “in massa” nello sciagurato concerto del 22 dicembre 1808, ovviamente al periferico Theater an der Wien, davanti a un pubblico scarso e con una compagine orchestrale e corale svogliata, che aveva limitato al minimo il numero delle prove. In quella fluviale serata vengono eseguiti Quinta e Sesta sinfonia, il Quarto concerto per pianoforte e orchestra, la Fantasia corale op. 80 e alcune parti della Messa op. 80. Significativo il commento di uno dei massimi sostenitori beethoveniani, il principe Lobkowitz: “Sedemmo dalle sei e mezza a mezzanotte in un freddo polare e imparammo che ci si può stufare anche delle cose belle”.
Il caso di tale concerto è sconvolgente: mentre il sommo Beethoven,presunto massimo rappresentante della cultura musicale viennese sta per proporre alla città il frutto di anni di lavoro ovvero due nuove sinfonie e un nuovo concerto pianistico - dunque composizioni da collocarsi entro i generi più popolari e artisticamente rilevanti dell’epoca - nel più importante teatro di corte, il Burgtheater, quella stessa sera Salieri dirige un concerto dedicato alle vedove e agli orfani dei compositori. Non solo accade questa sfrontata manovra “asburgica” di evidente boicottaggio ai danni del musicista di Bonn; a sentire il Beethoven infuriato, che scrive alla solita  Breitkopf di Lipsia (7 gennaio 1809), “per odio contro di me i promotori del concerto per le vedove, il signor Salieri in testa, hanno vigliaccamente minacciato di espellere dalla loro società gli orchestrali che avessero suonato per me”. Nella stessa missiva aggiunge che “nessuno ha qui più nemici di me”; con tono rassegnato afferma poi che è al Theater an der Wien “che ho dovuto dare il mio concerto ed è lì che l’intero mondo musicale ha cercato di ostacolarmi”. In quel frangente Beethoven, ormai convinto di lasciare Vienna per Kassel, comunica alla casa editrice lipsiense che “nella Musikalische Zeitung [di proprietà della Breitkopf] si potrebbe fare magari qualche allusione alla mia partenza da Vienna - senza risparmiare le frecciate, visto che qui non hanno fatto mai nulla di serio a mio favore”. Questo testo - troppo poco citato e valorizzato nelle biografie - ribadisce in maniera definitiva la totale estraneità di Beethoven alla cultura ufficiale viennese nel primo decennio del secolo.

Antonio Salieri: l’altra Vienna

D’altronde ben differente è l’atteggiamento di Salieri, fedele Kapellmeister asburgico, il quale celebra in musica le rivolte dellle popolazioni tirolesi nei confronti dell’esercito d’occupazione francese nella cantata a quattro voci, coro e orchestra Der Tyroler Landsturm (1799). Si tratta di un lavoro patriottico in cui si descrive l’eroica resistenza delle popolazioni del Tirolo, supportate dall’esercito asburgico, nei confronti degli invasori francesi. Pochi mesi dopo il Kapellmeister compone il canto di ringraziamento La riconoscenza dei Tirolesi. Negli anni di Francesco II, il musicista di Legnago appare totalmente estraneo alle ideologie libertarie francesi, dimentico del suo massonico Tarare (Parigi, 1787); d’altronde quelli erano i tempi in cui Salieri - senza troppa convinzione - si adattava ai desideri dell’ “illuminato” Giuseppe II.
A partire dalla metà degli anni novanta Salieri torna ad essere il protagonista incontrastato della cultura ufficiale viennese. I due teatri imperiali, ermeticamente chiusi a Beethoven fino all’epoca del Congresso di Vienna (epoca del suo “ravvedimento”), ospitano invece una quantità sorprendente di spettacoli del Kapellmeister italiano di cui forniamo un breve, significativo quadro riassuntivo: tre opere nel 1795; una cantata allegorica e una commedia musicale nel 1796; nel 1798 i canti patriottici de Il genio degli stati veneti all’entrata delle truppe austriache in Venezia l’anno 1798 (per celebrare l’annessione di Venezia all’Austria). Seguono Falstaff nel 1799; due lavori comici (Cesare in Farmacusa, lavoro di grande successo, dipinge nella lotta paziente e tenace di Cesare contro i pirati quella di Francesco II contro gli odiati Francesi) nel 1800; un’opera nel 1803. Nel 1804, allorché il ben noto von Braun diviene padrone anche del Theater an der Wien, mentre Beethoven, disperato, è costretto a sloggiare, ritroviamo per la prima volta Salieri al lavoro in questo teatro con Die Neger (novembre), ambientato in un possedimento inglese in America. Infine nel 1805, al riaccendersi del conflitto con la Francia il musicista veneto scrive la cantata encomiastica Habsburg, dedicata a Francesco II.
Nel decennio successivo Salieri si limita a composizioni sacre e all’attività di direttore; quando poi, nel 1810, la Parigi napoleonica lo invita a comporre un’opera (precisamente L’Hercule gaulois), il Kapellmeister asburgico - sebbene si respiri un’aria differente tra Vienna e la capitale francese (Napoleone ha appena sposato Maria Luisa, figlia di Francesco I) - preferisce declinare l’offerta. Beethoven e Salieri si ricongiungeranno solo l’8 dicembre 1813, in occasione della prima esecuzione di Wellingtons Sieg dedicata ai soldati austriaci e bavaresi.
Beethoven si rende conto che l’accesso all’universo musicale di corte passa attaverso Salieri e negli ultimi anni del Settecento, dopo la svolta filoasburgica segnata dai due canti patriottico-militari sopracitati (1796-97), si avvicina al compositore di Legnago con tre gesti che indicano un atteggiamento di sudditanza, gesti tutti parimenti rilevanti e significativi, tanto più trattandosi di un personaggio scostante e sicuro del proprio talento quale Beethoven. Innanzitutto egli entra nelle folte fila degli allievi di Salieri, al quale chiede lumi e consigli intorno alla scrittura vocale e operistica. In secondo luogo dedica al Kapellmeister le sue tre Sonate per violino e pianoforte op. 12 (Salieri era un buon violinista) e infine compone e pubblica (febbraio 1799) le Variazioni pianistiche WoO 73 sul tema del duettino femminile “La stessa la stessissima” del Falstaff (gennaio 1799). Tutte queste manovre di avvicinamento - come si è già detto - non sortiranno alcun effetto pratico, tanto che nel primo decenno del nuovo secolo Beethoven mediterà a più riprese di lasciare Vienna, ora per Parigi, ora per Kassel.
In riferimento alle tre sonate violinistiche - segnate da un carattere tanto brillante quanto vacuo - va rilevato che la loro scrittura accademica e noiosetta (con poche eccezioni) appare certamente in contrasto con quanto Beethoven aveva finora creato di importante (le Sonate pianistiche op. 2, 7, 10 e il primo Concerto op. 15; vedi sopra) ma risulta funzionale all’idea che il compositore vuole dare al Kapellmeister asburgico ovvero quella di un musicista rassicurante e tradizionale, capace di calarsi nei panni del mero “intrattenitore” e quindi idoneo a lavorare per il “reazionario” Francesco II. Nel caso delle “ipocrite” Sonate op. 12 dunque la dedica sembra essere più significativa del contenuto e l’operazione nel suo complesso può definirsi una sorta di furbesca mimesi musicale. 
Dal canto suo Salieri si conferma musicista conservatore, oltre che nelle ricordate aperte e celebrative manifestazioni di fedeltà alla casa Asburgo, anche nella sua principale opera lirica degli anni novanta, appunto Falstaff o le tre burle. Questo lavoro ci mostra un operista prudente e ironico il quale, da un lato sembra far mostra di avere dimenticato quasi completamente gli insegnamenti della scrittura gluckiana (con i quali aveva animato il “rivoluzionario” Tarare, 1787), dall’altro sembra mettere in scena una sorta di anti Don Giovanni, dodici anni dopo quello di Mozart e Da Ponte (undici dopo il fiasco della rima rappresentazione viennese).
Scelto dunque uno stile lineare e semplice oltre ogni previsione, nel solco di Paisiello e Cimarosa, Salieri racconta al pubblico viennese la favola morale di un grasso e goffo seduttore al quale non ne va una dritta: per tre volte viene gabbato da Mrs. Ford e Mrs. Slender le quali, neppure per un attimo, pensano di cedere alle grossolane lusinghe di Falstaff, cavaliere fanfaronesco al quale si accompagna il servo brontolone Bardolfo, in parte ricalcato sul Leporello mozartiano. Come capita al Don Giovanni corteggiatore di Zerlina, anche il cavaliere inglese viene ogni volta interrotto sul più bello (in particolare lo svolgimento della seconda burla, incentrato sul tenero duetto “Su, mio core, a gioir ti prepara!”, condotto in ritmo di siciliana, sembra modellarsi sull’episodio mozartiano segnato dal duetto “Là ci darem la mano”). Anche il finale della seconda burla, in cui un Falstaff travestito da vecchia strega tiene a bada i propri inseguitori attraverso beffarde previsioni “astrologiche”, ricorda nel suo insieme (situazione scenica e trattazione vocale), l’episodio in cui Leporello tiene testa alla folla dei suoi sconcertati persecutori (Donna Elvira, Don Ottavio, Zerlina, Masetto) prima di trovare una via di fuga (“Ah pietà, signori miei”; II atto, scena nona).
Insomma all’amorale e provocatoria creatura di Mozart e Da Ponte si contrappone lo sgangherato Falstaff per il cui tramite Salieri perviene a un tranquillo encomio dell’amore coniugale.
Lo stile musicale invece si muove proprio nel solco dei lavori italiani del salisburghese, a loro volta ispirati a quelli della scuola napoletana: vi si ritrovano infatti, all’interno di una struttura francamente buffa, inserti di opera seria (quasi per intero il personaggio del geloso Mr. Ford) in quel vivace e animato connubio di stili che aveva reso magnifiche le tre opere del binomio Mozart - Da Ponte. D’altro canto però le composizioni vocali di Salieri sono sempre assai concise, semplificate nelle armonie e poco ricercate nel disegno melodico, quasi a non voler pesare eccessivamente nell’economia di un’opera nella quale ogni pagina è a suo modo riuscita e impeccabile e al tempo stesso nessuna è memorabile. Insomma un’abile pittura musicale, entro i rassicuranti e un pò vecchiotti canoni “napoletani” appena contaminati con le novità mozartiane e dunque una partitura che rimane complessivamente inferiore a quelle più significative del musicista di Legnago ovvero Europa riconosciuta (1778), La grotta di Trofonio (1785) e Tarare (1787). Salieri sembra voglia esplicitamente porsi come autore di operine inoffensive, politicamente conservatrici e musicalmente volte al semplice intrattenimento. A riconferma del carattere di abile artigianato di questa composizione priva di grandi ambizioni, va ricordato che il Falstaff verrà ripreso solo a Dresda (ottobre 1799) e a Berlino (dicembre 1799) prima di cadere nell’oblio. Al contrario il Novecento inizierà il recupero di Salieri proprio da qui (la prima edizione moderna avviene a Siena nel 1961), soprattutto per poter confrontare il lavoro “asburgico” con quello sommo (1893) del tardo Verdi.

Sebbene Salieri non abbia nei decenni seguenti preso una chiara posizione riguardo alle opere musicali di Beethoven, possiamo vederne un evidente riflesso nel celebre passo presente nel diario (alla data 16 giugno 1816) del suo allievo Franz Schubert il quale, parlando del suo maestro, attua un implicito paragone con lo stile di Beethoven a tutto vantaggio del compositore di Legnago. Scrive infatti: “Egli ha bandito quella bizzarria che vuole mescolare il tragico al comico, il piacere al disgusto, il sacro al profano; egli ha condannato quella deplorevole tendenza a voler tutto mescolare e confondere e che giunge a far perdere all’uomo la misura e i limiti di ogni cosa fino a precipitarlo nel buio della follia anziché elevarlo, attraverso un sentimento d’amore e di armonia, alla luce divina della fede”. Per il tramite del giovanissimo Schubert (allora diciannovenne) si evidenzia la netta contrapposizione tra una poetica tradizionale (asburgica) e una visione “progressista” del discorso in musica: è lo scontro tra Salieri e Beethoven, tra un universo sonoro armonioso e quieto e uno stile aspro e tormentato le cui sperimentazioni armoniche e formali divengono lo specchio di una visione insoddisfatta dell’universo sociale coevo e dei suoi arcaici equilibri.
In ogni caso la tenace manovra di avvicinamento agli ambienti asburgici prosegue con successo nel biennio 1799-1800. Beethoven infatti compone in quel periodo il Settimino op. 20 e la Prima sinfonia op. 21; dedica il primo all’imperatrice Maria Teresa e ha intenzione di dedicare la seconda a Max Franz, ex elettore di Bonn e suo antico datore di lavoro. Al momento della stampa tuttavia (luglio 1801) lo zio di Francesco II muore e il compositore opta per una dedica al vivo e influente van Swieten. I lavori suddetti confluiscono nel concerto del 2 aprile 1800 il quale si svolge proprio al Hofburgtheater, segno concreto di un temporaneo e labile inserimento di Beethoven nell’universo asburgico. Per pochi mesi l’idillio prosegue: Beethoven ottiene il prestigioso incarico di comporre la musiche di scena per il balletto Le creature di Prometeo op. 43 di Salvatore Viganò, che andranno in scena l’8 marzo 1801 nel medesimo teatro. Nonostante il buon successo dello spettacolo (attestato dalle numerose repliche) è questa l’ultima iniziativa del Beethoven “di corte”, prima del lungo “esilio” dagli ambienti della musica ufficiale.
Tutte queste composizioni confermano, nei tratti stilistici, l’intenzione beethoveniana di “mettere la testa a posto”. I gesti bellicosi, le forzature laveranti e le allusioni massoniche, tipiche delle opere del periodo perecedente (1794-96; vedi quanto detto intorno alle op. 1, 2, 3, 7, 9, 10) miracolosamente scompaiono. La sinfonia, ad esempio, è un brano pieno di giovanile vigore, di positiva baldanza e di caratteri danzanti, in grado di intrattenere la corte in modo conciliante e appropriato. E’ insomma un’opera secondaria nella quale tutte le durezze e sperimentazioni pianistiche vengono tralasciate per un lavoro relativamente anonimo, soprattutto se messo in relazione con le ultime creazioni orchestrali di Mozart. Tutto ciò è tanto più significativo se si considera che l’Op. 21 non è un brano occasionale ma è altresì l’atteso incontro tra Beethoven e il genere fondamentale della sinfonia, incontro tardivo (il compositore ha già trent’anni) e piegato dunque alle necessità contingenti.
Ancora più smacccatamente “servile” appare il tipo di invenzione musicale che anima il Settimino, un lavoro festoso e brillante segnato da un innocuo artigianato mozartiano - non privo a tratti di un’aerea eleganza - volto a divertire con garbo un uditorio aristocratico (il legnoso temino del Minuetto angustierà schiere di piccoli pianisti una volta inserito nella facile Sonata op. 49 n. 2, edita nel 1805). Un vero e proprio abisso separa questa prolissa composizione (sei movimenti, circa 45 min.) dalle invenzioni brucianti, bellicose e “massoniche” del periodo 1794-96. Del resto anni dopo lo stesso Beethoven si mostrerà infastidito dalla popolarità riscossa dal Settimino fino al punto di “non poterlo più sopportare” e di “adirarsi del successo che esso riscuoteva universalmente” (lo riferisce l’amico Carl Czerny). In questa irritazione posteriore non è fuori luogo intuire la rabbia di un autore che, controvoglia e per motivi pragmatici, si era invano sottomesso a un’estetica di corte che poco gli si addiceva. Il tentativo di entrare a far parte dell’universo asburgico fallisce per ora; si avvererà solo tra un decennio, attraverso l’attività del Beethoven docente ineccepibile dell’arciduca Rodolfo.