La strada buia, Contro la legge, L'edera, Atto di accusa e Il bivio

La strada buia, Contro la legge, L’edera, Atto di accusa e Il bivio: primi passi del poliziesco italiano (1950-51)

          “Allora ella perdette l'ultimo barlume di ragione. D'un balzo gli fu sopra; gli gettò la coperta sul capo, lo premette con tutto il peso della sua persona.
          Un gemito sordo, un agitarsi disperato di membra sotto la coperta: poi, lentamente, il gemito s'affievolì, parve venire da una lontananza buia, dalla profondità d'un abisso; e sotto il suo petto convulso, fra le sue braccia contratte, Annesa non sentì che qualche sussulto, un lieve movimento, più nulla”.
          G. Deledda, L’Edera (1908)
           

Marino Girolami, nato a Roma (1914), lavora nel cinema già negli anni quaranta come aiuto regista (con Soldati, Castellani e Coletti) ed esordisce con La strada buia (maggio 1950; 85 min.), bizzarra imitazione dei noir hollywoodiani (innanzitutto La fiamma del peccato, Wilder, 1944) basata infatti sul romanzo Dark Road (1946) della scrittrice statunitense Doris Miles Disney (1907-77). Anche gli interpreti sono in parte americani ed esiste una versione in lingua inglese (intitolata Fugitive Lady) per il mercato anglofono, uscita negli USA nel luglio 1951.La pellicola mostra il buon mestiere di Girolami il quale riesce a confezionare un prodotto dignitoso, ben ritmato e relativamente intrigante, nonché costruito in una vertiginoso aprirsi di flashback, uno dentro l’altro.
La vicenda, priva di ogni originalità, racconta di un aristocratico romano (Alfredo Giannelli) che sposa la soubrette Barbara (Janis Paige) la quale - ritrovato l’inglese Jim (Massimo Serato), suo precedente amante - decide di uccidere il marito e incassare il denaro di una polizza sulla vita che l’uomo aveva sottoscritto. Il brillante Jeff DiMarco (Antonio Centa), detective per conto delle Assicurazioni, indaga con ostinazione fino a risolvere il caso e a smascherare l’assassina. Peccato che il rocambolesco finale sia totalmente assurdo (la donna - presa da un raptus omicida - ammazza a fucilate l’amante e poi sconvolta finisce in auto nella stessa scarpata in cui aveva spedito a morire il marito).
Numerose sono le incongruenze e i buchi della sceneggiatura, a stento mascherati dall’altalena temporale generata dall’intrigante gioco dei flashback. Cionostante l’atmosfera gotica e sospesa del noir americano viene perfettamente ricostruita e appare vagamente stralunata allorché la ritroviamo calata entro i fondali favolosi di Castel Sant’Angelo, della fontana di Trevi e del Colosseo. Così come stravaganti e assurde appaiono le movenze tutte americane attribuite a personaggi del mondo romano: un nobile che sposa una cantante qualunque e decide di tenersela a qualunque costo, anche dopo essere stato umiliato da lei a più riprese; una donna infernale che - per avidità - monta una complicata macchinazione per eliminare l’ormai insopportabile marito; uno spavaldo detective il cui spregiudicato spirito d’iniziativa appare incompatibile con le usanze della penisola. Tra l’altro Jeff DiMarco, il quale appare per la prima volta nel sopracitato testo della Disney, tornerà in sei successivi romanzi della scrittrice originaria del Connecticut.
Trasportare meccanicamente situazioni e psicologie anglosassoni entro i confini totalmente differenti dell’universo latino, produce uno sfasamento irreale e curioso, lo stesso che aveva sperimentato Visconti allorché in Ossessione (1943; vedi) aveva ambientato nei dintorni di Ferrara il Postino suona sempre due volte di Cain. Sono operazioni schematiche e premature che il pubblico italiano infatti punisce duramente (il film di Girolami non farà una lira) ma che tra qualche decennio - allorché gli stereotipi del mondo culutrale dei vincitori della seconda guerra mondiale sarà penetrato più in profondità - potranno essere tentate con maggiore successo, a tal punto che, in quella nuova fase, autori italiani (si pensi a Sergio Leone e Dario Argento) saranno in grado di superare abbondantemente i loro maestri d’oltre Atlantico.

Più convincente e riuscito appare invece Contro la legge (settembre 1950; 95 min.), poliziesco tutto italiano basato su un soggetto di Pietro Germi, sceneggiato e diretto da Flavio Calzavara.
In una Roma più popolare e meno turistica di quella di Girolami, il giovane Marcello (Marcello Mastroianni nel primo ruolo da protagonista), sempre alla ricerca di piccoli traffici poco puliti per arrotondare, tenta il colpo grosso: fa incontrare un compratore e un venditore di valuta straniera, due individui che ha incontrato per caso e di cui non conosce la vera identità, al fine ricavarne una grossa provvigione. La cosa però finisce male: il compratore ammazza il venditore e Marcello viene incolpato dell’omicidio. Ogni indizio lo accusa. Il commissario della mobile (un Tino Buazzelli assai magro e assai bravo) però non ci casca, insiste, interroga e indaga, lascia scappare il presunto colpevole e lo fa pedinare, gira per piccole pensioni malfamate, per officine d’auto di periferia e perfino per stravaganti botteghucce dove si vendono uccelli d’appartamento, fino a smascherare l’assassino.
Calzavara, al suo primo film italiano nel dopoguerra (nella seconda metà degli anni quaranta ha trascorso un lungo periodo in Spagna), firma anche una delle sue opere migliori, oggi ingiustamente dimenticata. Da un lato egli organizza un intreccio poliziesco tutt’altro che scontato il quale si chiarisce compiutamente solo nelle ultime inquadrature, in uno scioglimento ad effetto ben costruito. Lo spettatore dunque segue con attenzione l’evolversi della vicenda durante la quale giunge in alcuni momenti perfino a dubitare dell’innocenza del protagonista (un po’ come accadeva ne Il sospetto, Hitchcock, 1941). D’altro lato intorno agli eventi si viene dipanando un piccolo affresco di una Roma popolaresca e semplice, colorita e cinica, cialtrona e arguta, che finisce con l’essere il vero motivo d’interesse della pellicola.
Il commissario - abituato a trattare con questa variopinta umanità - non si stupisce più di nulla (in questo anticipando l’indimenticabile commissario Ingravallo de Il maledetto imbroglio, Germi 1959; vedi), tutto tollera e sopporta, con una vena di amara e sardonica ironia, pur di riuscire ad agguantare la complicata verità. Al contrario ci sono numerosi altri che sopportano assai poco e che appaiono prigionieri di sclerotizzati egoismi: i troppi poliziotti, cocciutamente convinti fin dall’inizio che il colpevole sia solo Marcello; i familiari di Maria (Fulvia Mammi), la fidanzata del protagonista, pronti a buttarla fuori casa senza ascoltare le sue ragioni (ovvero ancora il problema della colpevolezza di Marcello); il borgataro furbastro (il “Grigio” ossia Angelo Canova) che cerca di approfittare della situazione per sedurre Maria alle spalle dell’amico Marcello e magari di irretirla alla prostituzione; l’amica di quest’ultima che a sua volta cerca di sabotare il legame sentimentale tra i fidanzati.
Insomma nessun mostro ma neppure una realtà idilliaca pronta ad aiutare il malcapitato Marcello a uscire dal suo labirinto. In questa pittura d’ambiente realistica e schietta, ricca di chiaroscuri e di sfumature, prende vita l’universo di una Roma povera ed esuberante, uscita dalla miseria più cupa dell’immediato dopoguerra ma non ancora approdata al vero benessere. In essa ognuno corre da solo, l’amicizia è un’illusione da lasciare alle pellicole hollywoodiane e solo la competenza di un commissario intelligente e il sentimento di un amore certo, prossimo al matrimonio (Marcello stava per chiedere la mano di Maria alla sua famiglia, in ossequio a regole antiche, quando scoppia la tragedia), si rivelano decisivi per la salvezza.
Inutile aggiungere che Contro la legge - film poco fortunato quanto a incassi - non ebbe allora alcun appoggio critico: si trattava in fondo solo di un giallo “d’evasione”, in cui tra l’altro trionfava l’odiata polizia di Scelba, dipinta con i colori dell’efficienza e dell’astuzia, e si attribuivano i gesti criminosi a malfattori di professione (anziché a “povere” vittime del dissesto sociale... ), versati da anni (alcuni da decenni, dunque fin dal tempo del fascismo... ) a quel tipo di attività illegali. Insomma per la critica “militante” niente era al suo posto in questo film in cui bene e male erano nettamente distinti e in cui gli eventi terminavano lietamente. Mancava quella desolazione generale, quell’esser costretti al crimine da una situazione di diffusa povertà, che tanto piaceva agli autori “neorealisti”. Addirittura Marcello aveva un posto di lavoro e si dedicava ai suoi loschi traffici nel tempo libero; insomma uno che infrangeva la legge solo per conseguire un maggiore benessere.
D’altronde l’antipatia doveva essere reciproca se Calzavara si divertiva a sfottere nientemeno che Ladri di biciclette (De Sica, 1948) con la gag del politico importante (“eccellenza” lo chiama Buazzelli) che - per telefono - fa pressione affinché il commissario ritrovi la bicicletta rubata a un amico. “Come se non ci fossero decine di crimini più gravi di cui occuparsi”, impreca il commissario (a cornetta abbassata).

Perfino migliore è Atto di accusa (novembre 1950; 99 min.), valido poliziesco in cui Mastroianni riveste per la seconda volta i panni dell’innocente ingiustamente accusato di omicidio. La pellicola girata da Giacomo Gentilomo (già autore di un paio di discreti gialli in epoca fascista (Brivido, 1941; Cortocircuito, 1943; vedi), deriva da un soggetto di Silvana Magnoni, sceneggiato dallo stesso regista (aiutato, tra gli altri, da un giovane Franco Brusati) e segna l’episodio finora più riuscito nella poliedrica carriera del cineasta triestino.
Renato (Marcello Mastroianni) torna in Italia dopo sei anni di prigionia sovietica e ritrova la bella fidanzata Irene (Lea Padovani) sposata con Massimo Ruska (Carl Ludwig Diehl), un anziano e prestigioso principe del foro, un tempo loro professore universitario. La coppia si incontra clandestinamente nei locali di una sarta e il marito geloso - dopo aver pedinato la moglie - uccide accidentalmente la padrona di casa nel tentativo di entrare con la forza. A quel punto decide di sfruttare la tragica situazione per far ricadere ogni colpa sul rivale. Un valente commissario (un ottimo Andrea Checchi) indaga: mentre quasi tutti danno per scontata la colpevolezza del giovane (il quale nel frattempo - dopo un secondo abile delitto del Ruska sempre finalizzato ad aggravare la sua posizione - si è costituito), egli capisce che qualcosa non quadra. Approfondisce ogni indizio fino a che non giunge a conoscere l’identità della donna al centro del dramma. Da lì a comprendere che il colpevole è l’ “autorevole” marito, il passo è breve.
Atto di accusa - giallo intenso e oscuro, ambientato in una Roma periferica e notturna di grande suggestione (tra piccoli bar malfamati e salette cinematografiche di terza visione) - mostra come i registi italiani sappiamo far tesoro della lezione del noir americano e riguadagnare il tempo perduto (il poliziesco era un genere filmico pressoché vietato durante il fascismo). Gentilomo fonde il dramma sociale (la questione del reduce “tradito” era già stata trattata nel magnifico La vita ricomincia, Mattoli 1945 e in Fatalità, Bianchi 1947) con il gioco a incastro di un aggrovigliato puzzle dalla logica avvincente nel quale - come in Contro la legge - perfino Irene finisce per dubitare dell’innocenza di Renato. Ne fuoriesce un’abile rappresentazione del macabro gioco del gatto e del topo, di carnefice e vittima, all’interno del quale l’anziano e stimato avvocato Ruska sembra essere inattaccabile e sembra governare il sinistro complotto con signorile eleganza. Irene stessa finisce col cadere nella rete del marito il quale - anziano e (si intuisce) soggiogato dalla bella e giovane moglie - è pronto a ogni crudeltà pur di non perderla. E’ insomma l’egoismo di un’esistenza al crepuscolo che vive in modo morboso la sua ultima primavera. Irene cade poi malata e rivive in un atroce incubo la propria angosciosa situazione (secondo moduli visivi debitori nei confronti di Io ti salverò, Hitchcock, 1946), fino a percepire il pericolo incombente (immagina di venire strangolata dal marito). Infatti nella parte finale, allorché il commisario giunge finalmente nella ricca dimora dell’avvocato per interrogare Irene, l’assassino capisce che il suo castello sta per dissolversi e prende in considerazione anche l’ipotesi di eliminare l’ormai scomoda moglie.
Il poliziesco di Gentilomo procede a ritmo serrato, fondendo dramma umano e perverso gioco criminale e calando il tutto in un affresco sociale differenziato in cui la povertà degli umili appartamenti di Renato e della sarta così come lo spoglio grigiore dei bar, dei cinematografi e dell’orfanotrofio ove Renato lavora come maestro, stridono con la principesca abitazione dell’assassino, nella quale Irene si aggira come una triste prigioniera.Su tutto prevale infine l’intelligente operato del commissario il quale scopre il colpevole e libera l’innocente, garantendo un fulmineo happy end.
In questa impostazione fiduciosa nelle istituzioni (simile a quella di Contro la legge), descritte come efficienti e popolate da individui tenaci e moralmente integerrimi, si evince una visione politica filocentrista (o se si preferisce filogovernativa) che doveva disturbare non poco la critica militante dell’epoca la quale - ovviamente - stronca il film (Aristarco - per tutti- parla semplicemente di “un mediocre film”). Il poliziesco - inviso al fascismo - irrita anche i socialcomunisti poiché tale genere cinematografico, con il suo obbligatorio lieto fine (all’epoca - con rarissime eccezioni - era impensabile concludere senza punire i colpevoli) e con l’implicita tendenza a lodare l’operato dell’odiata polizia di Scelba, possiede qualità “inutili” o peggio dannose all’ideologia progressista. In esso, infine, per quanto si metta l’accento su problematiche sociali, non si giunge a quel tipo di disamina desolante e amara che solamente appare idonea a generare frustrazione negli spettatori e a spostare il voto verso le opposizioni politiche. Per costoro quindi il giallo è un genere di “intrattenimento” da declassare e possibilmente da evitare. Ciò spiega la sistematica sottovalutazione di queste pellicole, anche quando (come nei casi qui esaminati), esse appaiono degne di una ben diversa cosiderazione.

A suo modo si inserisce in questa prima stagione del giallo italiano anche L’edera (novembre 1950; 111 min., poi 82 min.), rilettura filmica del noto romanzo (1908) di Grazia Deledda ad opera di Augusto Genina, coadiuvato in sede di sceneggiatura da Vitaliano Brancati.
A Barunei (Monte Novo San Giovanni), piccolo centro agricolo vicino Nuoro (la città originaria della scrittrice), la serva Annesa (Columba Dominguez) è completamente innamorata del padrone don Paulu Decherchi (Roldano Lupi) che la tiene come amante da alcuni anni. Quando la situazione economica della famiglia è a un passo dalla rovina, in una notte di delirio, la donna uccide il vecchio e malato zio Zua (Gualtiero Tumiati) che si rifiuta di aiutare economicamente il nipote. Il delitto non viene scoperto (nonostante le indagini dei carabinieri e un primo arresto dell’intera famiglia) ma la donna - perseguitata dal rimorso - dopo una lunga meditazione in preghiera, confessa tutto al sacerdote Virdis (un ottimo Juan De Landa) e sceglie la via dell’ “esilio”. Il finale è frettoloso e oscuro: nel testo della Deledda Annesa andava a servizio in un’altra città, tornava molti anni dopo e sposava un don Paulu ormai vecchio. Nella versione lunga della pellicola (quella iniziale) sembra che vada in un convento ma (nella versione corta) viene raggiunta da Paulu che, scoperta finalmente la verità, afferma semplicemente “espieremo insieme”.
Il film è un disastro sotto molteplici aspetti, a cominciare da questo ridicolo finale. Una favola morale - con cui Genina si vorrebbe confermare autore di un “neorealismo” cattolico e centrista dopo il bel risultato de Il cielo sopra la palude (la pellicola su Maria Goretti, 1949; vedi) - termina quindi nell’ultima versione (quella scorciata e posta in circolazione con l’ammiccante titolo Delitto per amore, dopo il completo insuccesso della prima versione, oggi introvabile) con Annesa che non paga la propria colpa, sembrando sufficiente agli autori la sua breve e sofferta conversione al cattolicesimo (in precedenza la donna non frequentava la chiesa). 
Mentre registi quali Calzavara e Gentilomo mettono a fuoco l’essenziale e prosciugato giallo moderno, di ambientazione urbana, Genina resuscita un testo letterario di inizio secolo, piuttosto artificioso nei caratteri e nelle situazioni, e cerca di rivestirlo con immagini “neorealiste”: si reca a girare in un paesino della Sardegna, ne utilizza gli abitanti in qualità di comparse e impagina il raccconto con le tipiche, inutili lungaggini del cinema di Rossellini e Visconti (si pensi soprattutto a La terra trema, 1948) con i due protagonisti che vagano silenti tra paesaggi aspri e rocciosi, chiusi entro mimiche stereotipate di tediosa monotonia. I gesti di Paulu e Annesa sono peraltro del tutto insensati: il primo (un Roldano Lupi particolarmente monocorde nel suo sguardo vuoto e angosciato) vuole uccidersi perché non possiede il denaro per pagare i debiti alle banche, ma in fondo basterebbe aspettare la morte dello zio anziano e malato; la seconda, ugualmente noiosa nella sua insistita tetraggine, in una notte di sconforto decide di uccidere l’anziano per non perdere don Paulu.
Tutto suona falso in queste vicende, anche perché Genina non mostra - in nessun momento - di sentirsi ispirato dal dramma che viene filmando. Le pagine migliori sono quelle in cui compare don Virdis, l’unica figura raziocinante dell’intera combriccola: la sua mediazione tra i familiari, il suo sconcerto di fronte alla confessione dell’assassina, il suo disagio in mezzo alla famiglia riunita che ha obliato rapidamente il ricordo del morto sono le uniche cose che appaiono sincere e che restano nella memoria in questo compitino oleografico.
Il tentativo di dare un seguito al cosiddetto “neorealismo” cattolico segna quindi un totale fallimento, innanzitutto commerciale (d’altronde se il pubblico disertava i sermoni di Visconti e Rossellini, peché avrebbe dovuto subìre quelli di Genina?): L’edera diviene la pietra tombale di questo ambizioso filone cinematografico che avrebbe dovuto contrabilanciare politicamente le pellicole di De Santis e De Sica.

Fernando Cerchio, coadiuvato da un’impressionante numero di soggettisti e sceneggiatori (tra essi Corrado Pavolini, Leo Benvenuti e lo stesso regista), si cimenta nel poliziesco “hollywoodiano” con Il bivio (marzo 1951; 112min.), pellicola certamente pregevole sebbene indecisa tra giallo e melodramma.
Vi si raccontano le tortuose vicende di Aldo Marchi (Raf Vallone) il quale, sebbene con amici tutti malavitosi di lungo corso, riesce in modo poco chairo a diventare vicecommissario di polizia. Da questa vantaggiosa postazione egli comunica alla banda date e percorsi dei portavalori, facilitandone le rapine. Le cose però si complicano quando una povera donna sembra essersi suicidata (suo marito, un poliziotto innocente, è stato accusato di uno dei colpi): scattano nel protagonista i rimorsi e contemporaneamente la convinzione che si tratti di un omicidio. Con sospetta ostinazione Aldo cerca e trova il vero omicida, (un altro suo amico); a quel punto però il suo superiore (l’ottimo Charles Vanel), che da tempo sospettava il doppio gioco del brillante vicecommissario, gli tende una trappola. Vistosi scoperto, Aldo si redime, indica il rifugio della banda e si sacrifica sotto il fuoco dei malviventi dopo avere avuto la certezza che il suo superiore non svelerà il suo vergognoso passato.
L’impostazione del racconto è profondamente classica: sebbene gli autori giochino con il tema del doppio e dei labili confini tra bene e male, in nessun momento si mostra il minimo dato d’incertezza sulla questione morale. Aldo era un bandito, entra in un ambiente assolutamente sano e ne viene “contagiato” fino al punto di percorrere un proprio cammino di redenzione il cui costo è, alla fine, molto alto. Non solo. Cerchio guarda inoltre con evidente simpatia alle forze dell’ordine, descritte come preparate ed efficienti, e le poco popolari camionette degli “scelbini” nell’episodio finale corrono a fare giustizia, guidate dal protagonista purificato e dal suo saggio superiore. Funzionano insomma come la cavalleria americana nei finali dei popolari western hollywoodiani.
Il passato di abile documentarista di Cerchio emerge inoltre nell’ammirevole squarcio di vita popolare dipinto in riferimento all’episodio della moglie della guardia incarcerata. Questa donna che lascia la minestra sul fuoco in un ambiente di umile quotidianità, tra modeste stoviglie, una tavola apparecchiata con semplicità e il tavolo dei bambini con quaderni e calamai, è decisamente toccante e mostra una conoscenza della realtà popolare degna dei cosiddetti film neorealisti.
Sul versante del poliziesco invece la macchina perde colpi e appare totalmente inverosimile: un ex malvivente che diventa commissario e che, nel tempo libero, continua a frequentare le vecchie conoscenze (anche se un soggetto simile si è riproposto nell’altrettanto inverosimile e tuttavia intrigante The Infernal Affair, Lau 2002; poi mediocremente rifatto in The Departed, Scorsese, 2006); rapine girate con il solito, generico e bonario stile degno dei film di cappa e spada per sale parrocchiali; una trappola male imbastita dal commissario capo (dalla quale infatti i malviventi riescono a fuggire): insomma la lezione del cinema gangsteristico americano è stata - in questo caso - applicata con scarso coraggio.
Il cinema italiano rimane tendenzialmente estraneo (fino alla fine degli anni sessanta circa, con alcune eccezioni) alla tradizione del poliziesco, non amando la precisione degli intrecci e la durezza monolitica dei caratteri da mettere in gioco, qualità connaturate invece alla mentalità anglosassone. Così giunto a un terzo del racconto, il film devia verso il dramma individuale; l’interesse per la storia approda anch’essa a un “bivio”, lascia la via “maestra” del thriller (per realizzare il quale servono figure banditesche più convinte e convincenti) e si incammina nel dramma quasi dostoieskiano del protagonista, incapace - come il Raskolnikov di Delitto e castigo - di sostenere il rimorso di una povera vittima. Su questa via, con il pericolo di un’enfasi retorica sempre incombente, Cerchio cerca di dare grandezza al suo personaggio tormentato anche attraverso l’uso di statici totali presi dal basso (destinati a sottolineare la figura umana), di sequenze girate sotto una pioggia battente che tutto ingrigisce (la sequenza del ritrovamento del corpo dell’uccisa possiede addirittua vaghe rassomiglianze con quella celebre dei morti carbonizzati sull’asfalto nella prima pare di C’era una volta in America, Leone, 1984) e di improvvisi primi piani destinati a illustrare il volto lacerato del commissario.
L’indecisione tra giallo e dramma provoca lo scarso successo della pellicola mentre la critica dell’epoca ebbe parole dure o semplicemente si disinteressò della pellicola, in quanto troppo distante dai tipici parametri del sedicente cinema “impegnato”.