Noi vivi , Il treno crociato e Quelli della montagna

Giarabub, Noi vivi - Addio Kira, Il treno crociato e Quelli della montagna:  propaganda sciagurata e rassicurazioni superflue (1942-43)

               “Pensate alle valle del cuneese, dove si reclutano i soldati di una di quelle divisioni che sul fronte del Don sono state distrutte. Su ognuna di quelle case oggi si è abbattuta una catastrofe. Il padre, il figlio, il fratello che Mussolini ha mandato in Russia non torneranno  più.”
              P. Togliatti, Discorsi agli italiani (Mosca, 1943)

Goffredo Alessandrini, nato al Cairo nel 1904, già aiutante di Blasetti in Terra madre (1930), dopo le osannate prove di Cavalleria (1936), Luciano Serra pilota (1938) e Abuna Messias (1939), firma nei primi anni quaranta una coppia di rilevanti film bellici.
Nella primavera 1942, accanto al rosselliniano Un pilota ritorna (aprile), il cinema di regime dunque offre una seconda pellicola volta a celebrare lo sforzo bellico in atto. Si tratta di Giarabub (maggio 1942; 85 min.) di Alessandrini, su un soggetto di Asvero Gravelli (sceneggiato da quest’ultimo con Oreste Biancoli, Gherardo Gherardi e altri), nel quale si ricostruiscono, in modo insolitamente preciso quanto a collocazione storico - temporale, le gesta dei soldati italiani nel fortino libico di Giarabub, collocato in mezzo al deserto della Cirenaica, al confine con l’Egitto. Il film rievoca la strenua resistenza di questo ridotto manipolo di italiani dai primi di gennaio al 22 marzo 1941, giorno in cui l’avamposto verrà definitivamente travolto dall’esercito inglese. Mentre lungo la costa mediterranea lo sforzo bellico perviene ad esiti disastrosi con la caduta di Bardia (5 gennaio) che implica la resa in massa di circa 45000 soldati e del loro comandante, generale Bergonzoli, e soprattutto l’abbandono di Bengasi (8 febbraio), nel cuore del deserto questo gruppo isolato e testardo decide di dare una solenne prova di eroismo e abnegazione. Lo testimoniano numerosi bollettini di guerra del periodo: “A Giarabub e a Cufra, i valorosi presidi resistono tenacemente alla pressione avversaria” (27 febbraio); “Il nemico ha nuovamente attaccato in forze Giarabub, intimando la resa. Il nostro presidio ha risposto col fuoco delle sue artiglierie” (4 marzo); si giunge infine al bollettino n. 288: “Nell’Africa settentrionale, il nostro piccolo presidio di Giarabub... dopo strenua difesa durata quattro mesi è stato sommerso dalla prevalenza delle forze e dei mezzi avversari “ (22 marzo 1941).
In quell’inverno 1941 le speranze di vittoria potevano ancora essere motivate, e perfino nel momento in cui Alessandrini metteva in immagini questa piccola epopea (l’inverno seguente), si poteva nutrire qualche residua illusione. La pellicola però esce nel maggio 1942 quando il disastro russo è cosa nota e ogni attesa positiva va estinguendosi, lasciando il posto alla più nera desolazione.
In ogni caso il lavoro del regista è abbastanza buono: l’umile taglio cronachistico viene rispettato, soprattutto nella prima parte mentre la folla dei personaggi è credibile e a tratti perfino toccante come nel caso del capitano Del Grande (Mario Ferrari) che prende servizio e va a occupare la stanza del figlio Saverio, morto da poco. Fa eccezione però l’artificiosa figura della prostituta Dolores (Doris Durante), la quale non esercita la professione, veste abiti lussuosi e si limita a nostalgici dialoghi notturni con qualche soldato insonne. Il crescendo drammatico è invece ben orchestrato e le sequenze dei combattimenti - che occupano l’intera, ampia parte finale - sono girate con perizia nel deserto africano. Se gli autori evitano la retorica più sguaiata, tuttavia l’atteggiamento dei militari nella eroica e un po’ masochistica parte conclusiva della loro avventura, è segnata dal consueto puerile cameratismo e immerso in un’atmosfera di irreale, gioioso desiderio di morte. I soldati vengono dipinti come zelanti scolaretti (così come la prostituta si trasforma in una inverosimile, pentita crocerossina), tesi a compiacere il loro austero e granitico comandante, il capitano Castagna (un prevedibile Carlo Ninchi) e a correre verso il sacrificio finale, certi dell’utilità del loro grave gesto, la qual cosa stende un’ombra funerea su una pellicola condotta con buon equilibrio fino alle pagine finali. Questo inno alla morte, reso a tratti decisamente eccessivo (l’ultimo appello mostra dei soldati martoriati, quasi tutti gravemente feriti e pressoché inabili al combattimento), costituisce un episodio di discutibile propaganda: in ogni lotta - grande o piccola, di un fortino o di una nazione - esiste un momento in cui la resa appare più intelligente del sacrificio: attraverso la resa molte cose si possono preservare per garantire la continuazione di una certa realtà sociale e nazionale; la scelta irrazionale di portare la lotta fino alle estreme conseguenze, anche quando ciò è palesemente inutile, appare un gesto che innanzitutto porta a un colpevole spreco di ricchezze umane le quali - se salvate - possono invece trovare valorizzazione in epoche seguenti. Per fortuna il popolo italiano non ha seguito le indicazioni “teutoniche” del film di Alessandrini e - una volta compresa l’inutilità del proprio sforzo bellico - ha cercato con forza l’armistizio e la pace. La Germania e il Giappone che si sono comportati in maniera antitetica, lottando con ardore fanatico fino all’ultimo (secondo il modello proposto dalla Giarabub reale e soprattutto filmica), sono approdate a una quasi completa distruzione del proprio patrimonio umano e storico (le città rase al suolo).
Dunque il film di Alessandrini racconta giustamente episodi di valore che meritano rispetto; l’intento propagandistico però è sciagurato: fare dell’Italia una grande Giarabub ci avrebbe portato terribili lutti, privi di senso logico. Di fronte a superpotenze coalizzate quali Usa, impero inglese e Urss, dotate di una schiacciante superiorità di uomini e mezzi, la guerra poteva concludersi con un solo tipo di esito. Una classe politica responsabile avrebbe dovuto agire partendo da questi fatti reali e muoversi - a partire dall’entrata in guerra degli Usa (dicembre 1941) - con enorme prudenza. Il lavoro di Alessandrini si colloca sul crinale decisivo del conflitto mondiale poiché viene girato quando la questione americana e l’allargamento della guerra sta prendendo corpo; l’incitamento a una guerra totale è ancora parzialmente comprensibile e scusabile; molto meno invece l’inno alla bella morte. A ciò si deve aggiungere l’incapacità di descrivere con toni adeguati e maturi questa situazione tragica: i penosi, fanciulleschi e censurabili dialoghi di chi va ad affrontare la morte come si trattasse di un’allegra scampagnata sono ulteriori elementi di discredito che rendono insincero e in definitiva inaccettabile l’intento di mera propaganda fascista che governa il film.
Nelle intenzioni degli autori questa eroica Giarabub è in fondo - quanto a spirito eroico - un’allegoria dell’Italia desiderata: i suoi soldati vengono da Treviso e da Lecce, sono popolani che parlano differenti dialetti, accomunati da un incrollabile, unitario senso della Patria alla quale sono disposti a sacrificare tutto. Purtroppo l’Italia, dalla primavera 1942, finirà per assomigliare a quel fortino di Giarabub dove scarseggiano viveri e armi e la fine è solo questione di tempo dando luogo a un capovolgimento tristemente ironico di un film che da strumento propagandistico si trasforma in oscura profezia di rovina. Da quel momento in poi nessuno potrà più credere nella vittoria e i successivi, numerosi film bellici giocati sul registro estremistico del sacrificio individuale e collettivo, appariranno maggiormente colpevoli e mendaci.

Alla fine degli anni trenta Mussolini cerca di indirizzare le mire espansionistiche di Hitler ad est, negli ampi spazi dell’impero staliniano. Il sorprendente patto nazisovietico dell’agosto 1939 spiazza l’Europa e pone il fascismo in una posizione imbarazzata nei confronti dell’inaffidabile alleato tedesco. In qualche modo, per il tramite nazista, Mussolini è ora alleato di Stalin. Ovviamente le mosse del dittatore tedesco e di quello russo sono meramente tattiche: consentono al primo di procedere con più tranquillità all’aggressione della Polonia (settembre 1939) ed al secondo di rimandare di qualche tempo il temuto scontro finale con la temibile macchina bellica teutonica. Stalin, uomo deciso e sanguinario, è per la prima volta in reale imbarazzo: a partire della seconda metà degli anni trenta, teme la potenza tedesca ed è pronto a qualunque alleanza pur di procrastinare il confronto con la Germania.
Nella seconda metà del 1940 Mussolini conduce la propria “guerra parallela” che naufraga rapidamente sia in Africa, sia nei Balcani cosicché solo l’intervento delle armate naziste nella primavera 1941 riesce a salvare l’esercito italiano da una resa indecorosa. A quel punto ogni velleità “autonomistica” viene sepolta, nelle aree geopolitiche “italiane” (appunto Africa del nord e Balcani) e le truppe fasciste vengono sottomesse ai comandi hitleriani mentre per la Germania scocca l’ora decisiva con l’operazione Barbarossa (giugno 1941). L’attacco alla Russia, preparato da almeno sei mesi, coglie parzialmente impreparato il dittatore sovietico che fino all’ultimo aveva sperato che Hitler non rompesse la fragile ed opportunistica alleanza russotedesca, evitando di aprire un secondo fronte prima di avere realmente sconfitto il pericolo inglese (dietro al quale si prepara l’imponente macchina da guerra statunitense). Nell’autunno 1941 Mussolini, divenuto figura di secondo piano, cerca di rimediare all’immagine già ampiamente compromessa del fascismo intervenendo nello scenario russo con un’armata (dapprima lo CSIR, circa 62000 uomini inviati già nel luglio 1941, poi l’ARMIR, circa 227000 uomini nel giugno 1942) offerta a Hitler (posta sotto i comandi militari germanici) e collocata nello scenario meridionale (Ucraina- Caucaso) della ciclopica battaglia orientale. Il duce cerca ora di riguadagnare credibilità mediante qualche significativa impresa bellica finalizzata a rendere più consistente il contributo italiano alla eventuale vittoria finale, una vittoria alla quale peraltro nell’estate 1942 Mussolini comincia a non credere più.
In ambito mediatico circa un anno dopo l’inizio delle operazioni russe del contingente italiano giunge sugli schermi la scellerata pellicola di propaganda Noi vivi - Addio Kira (settembre 1942; 174 min) del blasonato regista Goffredo Alessandrini (sceneggiato con l’aiuto di Anton Giulio Majano, Corrado Alvaro e Orio Vergani), la quale, a causa dell’ampia durata, viene proposta nelle sale in due distinte parti (primo caso nella storia del cinema italiano). Ispirata al romanzo Noi vivi di Ayn Rand (1939) la prolissa ed uggiosa narrazione ruota intorno al triangolo sentimentale che vede Kira (Alida Valli) amante innamorata dello spostato Loe Kowalevski (Rossano Brazzi) ed amante per necessità di Andrej Tishenko (Fosco Giachetti), implacabile dirigente della GPU (la polizia segreta) nello scenario della Mosca del 1922.
La prima parte dell’opera si concentra sulla descrizione dell’universo bolscevico, dandone la prevedibile immagine di un inferno senza luce ove la gente vive brutalmente ammassata negli appartamenti e nei treni, controllata nei minimi particolari da una polizia politica cui nulla sfugge. L’attività privata è perseguitata, fioriscono il mercato nero e la delazione quale metodo per regolare vendette e per eliminare concorrenti mentre la privilegiata nomenclatura del partito si spartisce le poche risorse e condanna il resto della popolazione ad un’esistenza desolata. Il quadro fosco sembra peraltro ispirarsi più ai recenti anni del grande terrore staliniano (1936-39) che non all’epoca iniziale della rivoluzione bolscevica, anch’essa comunque sanguinosa e segnata da una spaventosa attività di repressione ad opera della Ceka (1917-21) ed in seguito della GPU (dal 1922), entrambe dirette da Dzerzinski.
Questa sgraziata pellicola di propaganda é chiaramente volta a motivare la recente iniziativa bellica (destinata a concludersi in modo disastroso) presso le smarrite masse italiane, le quali, già angosciate da una situazione di crescente miseria sul fronte interno, appaiono ben poco convinte della necessità di un impegno militare italiano in Russia. Il film ottiene un enorme successo commerciale, probabilmente dovuto al carattere insolito dell’argomento, sebbene si tratti di un lavoro di qualità men che mediocre nel quale la ricostruzione della miseria russa avviene secondo i peggiori stereotipi con fanatici bolscevichi indossanti truci giubbotti di pelle nera, onnipresenti immagini di Lenin, gli esterni calati in un’imbarazzante, perenne foschia notturna finalizzata a nascondere l’incapacità degli autori di ricreare verosimili paesaggi urbani moscoviti, appartamenti ed uffici che somigliano tutti a magazzini dismessi. Appare sottinteso che l’arrivo dell’armata nazifascista (per ora accampata alle porte della capitale), portatrice della superiore, armoniosa cultura europea, è quanto di più necessario e desiderabile per risanare una situazione umana tanto compromessa.
Nella seconda parte invece Alessandrini sembra dimenticarsi dell’infernale paesaggio bolscevico e si concentra sul triangolo amoroso all’interno di scenari che appaiono ora più normalizzati, generando un’evidente incoerenza nei confronti della prima parte. La vicenda del doppio amore di Kira è da un lato segnata dai soliti luoghi comuni della fanciulla che immola la propria purezza per salvare l’amato, divenendo una sorta di Tosca accondiscente; dall’altro tutto il racconto è avvolto nel ridicolo poiché il potente Andrei, dirigente della GPU, che conosce i particolari più nascosti delle singole esistenze, ignora tuttavia che la sua amante Kira convive con l’odiato Loe Malinovski. Se ne accorge solo nel finale, quando è costretto ad effettuare una perquisizione in casa di quest’ultimo e poco dopo, sconvolto, si suicida.
Goffredo Alessandrini, nato al Cairo nel 1904, già aiutante di Blasetti in Terra madre (1930), giunge a dirigere questo kolossal fascista al culmine di una carriera, dopo le osannate prove di Cavalleria (1936), Luciano Serra pilota (1938), Abuna Messias (1939) e Giarabub (1941). Il film viene presentato alla mostra di Venezia dove riscuote discreti consensi; a Fosco Giachetti (la cui misurata interpretazione costituisce l’unica qualità della pellicola) viene assegnata la coppa Volpi.

Intorno alla questione russa esce qualche mese dopo Il treno crociato (aprile 1943; 85 min) diretto da Carlo Campogalliani, regista (nato nel 1885) che aveva esordito all’epoca del muto ed aveva firmato una dozzina di dignitose pellicole nel periodo 1930-42, il cui protagonista è ancora Rossano Brazzi. Vi si racconta il lungo viaggio di un treno ospedale che lascia la Russia per portare i numerosi feriti in patria. Il regista si sofferma sulla vicenda del tenente Alberto Lauri il quale, gravemente ferito ed immobilizzato a letto, ricorda (in flashback) la propria tortuosa vicenda sentimentale la quale allinea l’appartenenza ad una famiglia aristicratica, l’amore con una ragazza del popolo (Maria Mercader), gli ostacoli frapposti dalla madre (Ada Dondini) e la nascita di un bimbo fuori dal matrimonio. Giunto il convoglio a Torre rossa, paese dell’ufficiale, durante una sosta protrattasi a causa di un bombardamento aereo, un amico corre ad avvisare l’anziana madre e la fidanzata del giovane che si precipitano a salutarlo sul treno. In quel drammatico frangente le due donne finalmente si comprendono e la prima approva la scelta del figlio.
La pellicola si muove lungo due binari, entrambi canonici della cinematografia fascista. La vicenda amorosa ripete la nota visione populista del regime ovvero fiera antipatia nei confronti delle classi nobiliari, simpatia completa verso l’umile, fattiva borghesia impiegatizia (la ragazza lavora alle poste) e difesa senza quartiere della maternità, in qualunque contesto essa si manifesti (riguardo al bimbo nato fuori dal matrimonio la giovane afferma soddisfatta: “un tempo una ragazza come me era costretta a nascondersi in campagna per partorire; ora invece va alla maternità”).
Sulla questione bellica invece il film ripete quel tipo di rassicurante cronaca che aveva segnato i primi lavori di De Robertis e Rossellini (Uomini sul fondo e La nave bianca, entrambi del 1941; in particolare il secondo lavoro, ambientato su una nave ospedale, è l’evidente modello della pellicola di Campogalliani; vedi); tuttavia nella primavera 1943 c’é ben poco da “rassicurare” in quanto le peggiori sciagure sono già tutte avvenute e la popolazione spera ormai in una qualunque conclusione del conflitto e nella caduta del regime per poter porre fine alle perdite di vite umane e ad una situazione quotidiana difficilissima (scarsità di viveri, mercato nero, drammatico aumento del costo della vita, bombardamenti, sfollati ecc.) che sfocia nei massicci scioperi del marzo-aprile 1943, i primi del ventennio motivati essenzialmente dal forte disagio economico delle classi lavoratrici. Tra le numerose lettere private citate da Aurelio Lepre in L’occhio del duce (1992) ce ne sono molte che testimoniano la precaria situazione alimentare; ad esempio da Padova nell’aprile 1943 una donna scrive: “E’ tre giorni che tiro la cinghia e mi mangerei le dita dalla fame che ho e che tutti teniamo...Da domani poi ci levano anche 50 grammi di pane, così cammineranno i pantaloni... Pane non ce n’è, pasta non ce n’è...diventassi cieca se c’è una goccia d’olio e altro...”; e da Roma nel giugno seguente si dice: “le file incominciano a farle per la frutta e la verdura all’una circa di notte, sicché quando una disgraziata va alle sei della mattina, come faccio io, ritorna a casa alle dodici senza aver portato nulla, con la borsa vuota”.
Sul fronte russo si è da poco consumato il dramma più terrificante, con la disfatta completa dell’ARMIR (gennaio-febbraio 1943) costata non meno di ottantamila morti ed un numero incalcolabile di prigionieri (forse altrettanti di cui la maggioranza morirà per il freddo e l’insufficiente alimentazione) i cui pochi superstiti (qualche migliaio) verranno restituiti all’Italia dalle autorità sovietiche gradualmente, tra il 1946 e la metà degli anni cinquanta. Nel libro di memorialistica Noi soli vivi (1986) di Carlo Vicentini, una delle testimonianze più vivide e commoventi della lunga odissea patita dai soldati italiani imprigionati in URSS, l’autore (originario di Bolzano) scrive: “Dopo quarant’anni l’amarezza per quanto è accaduto non è diminuita. In Russia ho lasciato quasi tutti i miei alpini....Lassù è andata “soto tera la mejo zoventù” delle mie vallate trentine, di quelle friulane, piemontesi, lombarde, delle montagne abruzzesi e tante migliaia di ragazzi di ogni parte d’Italia. Quei massacri non si dimenticano e non si dimentica che furono inutili”. Se nel buon senso della società civile traspare ovviamente un infinito sconcerto per la tragedia russa, qualcosa filtra anche negli scritti ufficiali della nomenclatura fascista, complessivamente assai reticenti al riguardo. Nel suo Diario Giuseppe Bottai annota: “A Udine, senso diffuso di scoramento per quello che ormai lassù si chiama la “strage degli alpini”. Più o meno copertamente la si addebita a Mussolini. “Abbasso Mussolini assassino degli alpini”, canticchiano a mezza voce i reduci dalla Russia” (26 marzo 1943). Questa pesante sconfitta (impossibile nasconderla sia per le sue dimensioni, sia per le notizie trasmesse da Radio Londra) produce un effetto traumatico e definitivo sull’opinione pubblica.
Narrato con un linguaggio sobrio, dignitoso e funzionale il piccolo affresco corale di Campogalliani restituisce un’umanità ferita e tuttavia piena di un ottimismo, ben poco verosimile, all’interno di un convoglio nel quale i medici e le suore si prodigano per dare la migliore assistenza a tutti. Sulle pareti la presenza di numerose immagini di Mussolini e di Vittorio Emanuele III completano il grottesco quadro di un’Italia fiduciosa nel proprio avvenire. L’atteggiamento è quindi il medesimo che animava i film di propaganda bellica di due anni prima laddove la realtà circostante è tragicamente mutata. Tale operazione cinematografica dunque, per quanto risolta entro i termini di un’apprezzabile semplicità narrativa e di un taglio descrittivo capace di delineare figure ricche di risvolti umani, manifesta nel proprio anacronismo il carattere artificioso e mendace di un cinema illusorio e “terapeutico”, commissionato da un regime in agonia e spudoratamente cieco nei confronti della vertiginosa piega presa dagli eventi.
Dietro il finto documentarismo del Treno crociato si cela dunque una favola bella e superflua: nel loro falso ottimismo e radicale distacco dalla realtà i lavori terminali dell’era fascista assomigliano in modo impressionante alle coeve e successive pellicole della propaganda sovietica.

Aldo Vergano nasce a Roma il 27 agosto 1891. Negli anni trenta scrive numerose, fortunate sceneggiature ed esordisce alla regia nel 1938 con Pietro Micca. Il secondo lungometraggio, Quelli della montagna (marzo 1943; 85 min), arriva solo cinque anni dopo ed e' un film bellico di propaganda patriottica, ambientato tra gli alpini. Se Il treno crociato rimandava soprattutto alla Nave bianca rosselliniana, la pellicola di Vergano si riallaccia a Uomini sul fondo di De Robertis di cui condivide l’ammirevole precisione nel delineare la vita quotidiana sotto le armi: si tratta in questo caso di un corpo di alpini, dapprima impegnato in esercitazioni lontano dai combattimenti (la parte migliore), poi sotto il fuoco nemico sul fronte greco-albanese in un periodo imprecisato (probabilmente agli inizi del 1941). L’asciutta competenza con la quale il regista riesce a mostrare il virile spirito collettivo degli alpini e la loro passione per la montagna lo si deve anche alla diretta collaborazione alle riprese della Scuola Militare Centrale Alpinismo e alla consulenza del capitano Andrea Brazzola (citati nei titoli di testa).
Il pretesto narrativo si incentra sulla scarsa sintonia tra il comandante della postazione, l’ufficiale di carriera capitano Sandri (un eccellente Mario Ferrari la cui severa, controllata mimica simboleggia un intero universo di valori) ed il richiamato tenente Fontana (un fremente Amedeo Nazzari), fresco di nozze. Un tempo amici, i due non si intendono più: il secondo si permette alcune discutibili iniziative personali, infrange lo spirito della compagnia, angustia chi lo circonda con problemi privati di natura sentimentale e viene presto emarginato dal capitani in umili funzioni secondarie. La tensione tra i due ufficiali cresce fino al riscatto morale del tenente che, di fronte al nemico incombente, mette prontamente in atto un’azione militare decisiva per la salvezza del battaglione alpino, ritrovando in tal modo l’affiatamento con il resto del battaglione.
Lavoro di propaganda bellica superiore alla media, Quelli della montagna si lascia ammirare nella parte ambientata sui monti italiani per la capacità di dipingere un universo maschile armonioso e compatto, calato entro fondali di grande suggestione. Tra canti e scalate le figure umane si perdono entro i paesaggi immensi, mostrando una compiuta fusione del singolo nella totalità umana e naturale. Arrivati sul fronte delle operazioni le cose cambiano. Lo spirito di corpo si trasforma in una puerile gara di eroismo e martirio nella quale le istanze di un patriottismo un po’ ottuso prevalgono sul lodevole senso della misura delle belle pagine che animavano la parte centrale dell’opera. Vale infine quanto detto per Il treno crociato: questi lavori appaiono totalmente anacronistici nella primavera 1943 e non depongono certo a favore dei loro autori (tra gli sceneggiatori del film montanaro compaiono le firme di Blasetti, Cottafavi e Corrado Pavolini), qualsivoglia siano le contingenze materiali che li hanno spinti o obbligati a girare tali pellicole il cui carattere “rassicurante” è inutile in quanto ampiamente sorpassato dal tragico precipitare degli eventi. C’é un momento in cui è opportuno tacere e riflettere, al di là delle necessità politiche di un regime in declino, sottoscrivere le quali appare operazione succube e infelice.