Santo disonore, Il conte di Sant’Elmo, Incantesimo tragico, Messalina e Camicie rosse: auspicando il declino del cattolicesimo (1950-52)
“Quello che la sedusse fu l’idea delle
nozze, per la enormità stessa dello scandalo: estrema ebbrezza di chi si è d’ogni altra saziato... ... nulla io invento per suscitar
meraviglia; racconto ciò che dai nostri vecchi ho inteso, e che essi hanno scritto” C. Tacito, Annali, libro undicesimo
Guido Brignone inaugura il decennio girando Santo disonore
(marzo 1950; 90 min.), film ispirato al popolare dramma omonimo (teatro Quirino, 1907) dello scrittore mazziniano Leone Ciprelli (1873-1953), nel quale ripropone la sua classica miscela di intreccio poliziesco e film storico (si ricordino Kean e Beatrice
Cenci, 1940-41), cercando di ripetere per tale via il grande successo del recente La sepolta viva (1949; vedi). Di quella pellicola il regista riprende l’impostazione ideologica filogaribaldina ambientando la nuova storia nella Roma papalina del 1870, ormai prossima a divenire capitale d’Italia.
I protagonisti della vicenda sono quasi tutti cospiratori che preparano l’insurrezione finale contro il Papato. Tra di loro però si cela Alfredo (Otello Toso), perfida spia papalina che tra l’altro desidera ardentemente la
moglie (Elli Parvo) di Pietro Forcella (Antonio Vilar), il suo migliore amico. Non esita allora a unire dovere e passione: mentre ruba importanti documenti nella cantina di Pietro, scoperto dal padre di quest’ultimo, lo ammazza
e fa ricadere ogni colpa sul figlio. A quel punto convince una nobildonna del circolo garibaldino a fingersi l’amante di Pietro per dargli un’alibi e salvarlo dalla forca. La fedeltà della sposa a quel punto vacilla ma gli
eventi precipitano: l’esercito piemontese sta per entrare a Roma e Pietro riesce a evadere e a unirsi ai bersaglieri di Porta Pia. Una volta libero, e ormai conscio delle colpe di Alfredo, può regolare tutti i conti. Il lieto
fine vede la famiglia ristabilita in una nuova Roma che festeggia l’annessione all’Italia. Come nella celebre Tosca (1900) pucciniana, l’impostazione massonica appare evidente, seppure ben celata dentro i perfetti congegni di un meccanismo giallo che affascina lo spettatore e lo tiene avvinto a un intreccio che procede accumulando colpi di scena in un quadro di crescente tensione melodrammatica, non priva di particolari morbosi (il tentativo di Alfredo di sedurre la moglie di Pietro, debole e avvilita dopole dichiarazioni della nobildonna). Al di là del ben orchestrato dramma giudiziario - passionale, appare però chiaro che tutti i personaggi positivi sono garibaldini mentre il camaleontico criminale (nel finale vorrebbe guidare l’insurrezione di una borgata romana) appartiene alle file della Chiesa; d’altronde un’atmosfera dispotica e profondamente ingiusta permea sia i palazzi apostolici (dove il traditore viene pagato con grosse cifre per i suoi misfatti), sia l’aula del tribunale in cui si giudica, dove le autorità pontificie - acquisito il fatto che Pietro è un cospiratore - decidono di inchiodarlo a una colpa che non ha commesso (il parricidio) attraverso false e artefatte testimonianze. Le autorità del papato insomma non sembrano avere il dovuto rispetto per la verità dei fatti e per la dignità delle persone.
Insomma l’esaltazione della nascita dello stato liberale italiano è il fatto centrale di una pellicola comunque ben girata, sia nell’ambientazione romana, sia nel disegno dei numerosi, differenti caratteri popolari e
aristocratici. Non mancano le figure antigaribaldine di un certo spessore: c’è l’austero padre del protagonista - futura vittima - ricorda al figlio che da cinque generazioni la loro famiglia serve il pontefice e definisce
malviventi sia Mazzini, sia Garibaldi; c’è inoltre il simpatico, “profetico” don Peppe, amico e confidente dei Forcella, il quale appare poco impressionato dalla prossima invasione di Roma: tra i colonnati di San Pietro ricorda
che quelle colonne sono solide, ne hanno viste di tutti i colori e dunque digeriranno anche i Savoia. La storia più recente - quella succesiva al 1989 - conferma infatti che il Papato resiste a oltranza e anzi si rafforza
mentre le ideologie giacobine e marxiste sembrano destinate a scomparire, non prima aver creato gravi (e spesso permanenti, si pensi alla perdurante povertà di ampi settori sociali negli stati dell’Europa ex comunista) danni
alle comunità sociali in cui hanno attecchito. Brignone si mantiene fedele al dramma storico di impostazione liberale anche nel successivo, mediocre Il conte Sant’Elmo
(marzo 1951, 95 min.), basato su un soggetto di Ettore Margadonna, sceneggiato da Aldo De Benedetti, Nino Novarese e dallo stesso regista. Del pregevole Santo disonore rimane solamente l’impostazione ideologica, peraltro anch’essa ridotta a vaghi avccenni, storicamente poco definiti. Manca il ben costruito intreccio poliziesco, mancano caratteri definiti e avvincenti (gli interpreti recitano tutti in maniera svogliata e approssimativa) e l’usurata trama amorosa (come sempre - dai tempi di Romeo
e Giulietta - l’eroe si innamora di una fanciulla della fazione opposta) sembra essere l’unico elemento di interesse degli autori. A ciò va aggiunto che la pellicola è in larga parte un rifacimento de I pirati di Capri (Scotese - Ulmer, 1949; vedi), la qual cosa rende il tutto ancor più stucchevole.
A Napoli il conte di Sant’Elmo (Massimo Serato che nel film di Scotese rivestiva i panni del capo della polizia) è un aristocratico nemico della propria classe sociale. Opportunamente mascherato si muove a proprio agio tra
i carbonari che cospirano contro Ferdinando II di Borbone (al potere nel periodo 1830-59). In apertura, insieme alla sua banda di finti ladri, blocca una diligenza e alleggerisce di denaro e documenti tutti i ricchi passeggeri,
diretti a Napoli (ne I pirati di Capri si iniziava con un assalto a una nave inglese, che trasportava armi da consegnare all’esercito borbonico). Nella capitale invece il conte si muove come un aristocratico stimato e irreprensibile ed è perfino amico del barone Cassano, capo della polizia (Tino Buazzelli). Presto la vicenda politica viene posta in secondo piano per approfondire il “melodramma” amoroso che lega il conte a Laura (Anna Maria Ferrero), figlia del barone. Scoperto per un caso fortuito il doppio gioco dell’aristocatico, questi viene arrestato, processato e condannato a morte, ma riesce a evadere e a ricongiungersi nel finale con l’amata, sotto l’occhio compiacente del padre di quest’ultima.
I toni più netti del già modesto film di Scotese - in cui l’elemento più interessante era costituito dall’interpretazione di Serato del perfido e inflessibile capo della polizia borbonica - ora si stemperano. Buazzelli non
fa paura a nessuno (anzi finisce con l’aiutare i carbonari per amore della figlia), rivolte e rivoluzioni sono solo concepite ma non poste in atto e inoltre il ritmo si allenta ulteriormente con l’inserimento di alcuni
siparietti vocali affidati a una cantante lirica (interpretata dal soprano Nelly Corradi) che riveste un ruolo importante nell’intreccio sentimentale. Quest’ultimo fattore ci ricorda, una volta di più, l’ancora stretta
dipendenza del cinema italiano del dopoguerra dalla tradizione lirica, soprattutto nell’ambito del dramma sentimentale ambientato su un fondale storico destinato a fornire la speciale “tinta” del racconto. La pellicola passa
giustamente inosservata, ottiene un successo commerciale appena discreto e si colloca tra gli ultimi esempi di un genere avventuroso il quale - in voga dagli inizi degli anni quaranta - è destinato a venire progressivamente
sostituito da quel genere storico - mitologico in cui le scorribande di Attila si alterneranno alle fatiche di Ercole.
Agli inizi del nuovo decennio il regista cagliaritano Mario Sequi firma l’insolito e ingiustamente dimenticato Incantesimo tragico
(ottobre 1951; 90 min.), fiaba demoniaca su soggetto e sceneggiatura di Luigi Bonelli di notevoli ambizioni, nella quale si possono leggere inquietanti allegorie che riguardano la nascita dell’Italia e il perenne conflitto tra Tradizione e Modernità.
Nei dintorni di Siena nel 1865 la giovane e inquieta Oliva (la diva messicana Maria Felix, specializzata in ruoli di seduttrice) accetta di sposare Pietro (Rossano Brazzi), primogenito di una solida famiglia di agricoltori
dalle tradizioni secolari. Lo fa giusto per contraddire la madre (Ada Dondini) che invece le assegnava un fidanzato anziano e ricco. In realtà Oliva disprezza la quotidianità dei rurali e ambisce a una vita cittadina, immersa
nel lusso, nei viaggi e nei piaceri più futili. Il giorno delle nozze il capofamiglia Bastiano (Charles Vanel), sorpreso da una tempesta, si addentra in un misterioso rudere e ritrova un tesoro maledetto - perso da secoli -
derivante dai saccheggi dei crociati in Terra Santa. L’orafo senese Golia (Giulio Donnini), sorta di oscuro nibelungo che vive chiuso in un angusto negozio simile a una grotta, in qualche modo gli aveva predetto quel
ritrovamento. Da questo momento la vicenda del tesoro, in parte modellata su quella del Ring wagneriano (anello potente e maledetto, cagione di mille sventure), diviene centrale, portando il caos nella tranquilla famiglia
di ricchi contadini: in particolare la sensuale Oliva si impossessa rapidamente di un trittico di gioielli (due orecchini e un pendaglio) che le donano un potere sinistro. Ella seduce il cognato Berto (Massimo Serato) con cui
progetta di fuggire e accende il desiderio perfino del suocero, sul letto della sua stanza (nella quale il crocifisso appeso è sbilenco). Oliva poi si reca alla funzione religiosa indossando i gioielli maledetti, li mostra con
fare provocatorio e con evidente disprezzo per i restanti fedeli, in una sequenza di forte impatto scenico: così l’anticristo - dopo avere sovvertito l’ordine familiare - si materializza con arroganza nella casa di Dio, suo
principale nemico. Nel finale ella, sorta di demonio incarnato, attende Berto in una chiesa diroccata (i simboli ormai si sprecano), il quale, nel tentativo di rubare il tesoro a Bastiano, viene ucciso a fucilate. La rovina si
abbatte inesorabile sulla casa, in una sorta di crepuscolo del cattolicesimo e delle sue istituzioni. La donna, mentre attende Berto, ha inoltre una visione terribile: ella stessa, trasformata in divinità di luce, appare
sull’altare della chiesa diroccata, accompagnata dalle note tumultose dell’incipit della Polacca op 44 di Chopin. Giunti all’epilogo catartico della funesta vicenda gli autori però si ritraggono impauriti (forse anche per evitare problemi con la censura) e virano verso un risibile finale moralistico: Oliva si redime, si pente nelle ultime immagini e una imprecisata, radiosa pace torna a governare le cose.
Il film, girato con convinzione e buona tecnica, si avvale di paesaggi ombrosi, fotografia fortemente contrastata, movimenti di macchina sinuosi e inquieti nonché di inquadrature dal taglio insolito, enfatizzanti i quadri
d’insieme (spesso ritratti dal basso). Su tutto poi di stende la cupa colonna sonora del dotto musicologo Roman Vlad, organizzata per wagneriani Leitmotive e di evidente matrice operistica. Dentro a queste coordinate
stilistiche vive il personaggio chiave di Oliva il quale, affidato alla scultorea e teatrale Maria Felix, spesso eccessiva e artificiosa nella propria recitazione, riveste un carattere di forte alterità proprio in virtù dei
tratti somatici messicani dell’attrice, totalmente “incoerenti” con quelli degli altri attori. Insomma il suo moderato “esotismo” - unito alla evidente carica erotica e alla recitazione sovraccarica, memore del cinema muto -
costituiscono il polo centrale della maledizione demoniaca, la luce interna all’opera, luce che avvampa e tutto distrugge. Tale luce rimanda poi a un’altra “luce”: quella del massonismo modernista e della stessa Lux
torinese che distribuisce (non a caso) la pellicola. La collocazione nella Toscana del 1865 (allorché Firenze diviene capitale del nuovo regno d’Italia) è fondamentale per capire l’allegoria sottile: nell’Italia appena nata -
grazie soprattutto al lavoro della Massoneria e delle società segrete - dalle ceneri degli stati cattolici, tutto sta per mutare. Una nuova “luce” compare, moderna e sensuale, generata dall’antro dell’orafo Golia (il quale, a
una guardia piemontese che lo ammonisce, risponde in modo amichevole: “ora siamo tutti fratelli” riferendosi sia al nuovo stato, sia alla fratellanza delle logge), la quale vuole rimodellare il mondo antico e statico delle
credenze contadine, cattoliche e conservatrici e pretende di sovvertirle esaltando l’avidità, il desiderio erotico, il disordine familiare. Così la messicana diviene lo strumento del nuovo corso: ella desidera viaggiare, vedere
città nuove e gente elegante e lo desidera senza motivare tutto ciò; è un mero, narcisistico capriccio femminile, perseguito con diabolica determinazione e rafforzato dal potere maligno del tesoro. Quest’ultimo poi deriva
dalle violenze dei crociati in Terra Santa (nuova stoccata anticattolica) e porta dentro di sè un istinto di rivalsa nei confronti dell’universo cristiano. Nella nuova, “illuminata” Italia dei piemontesi Savoia, quel potere
può finalmente sprigionarsi e agire. Sequi e compagni non osano però giungere alle estreme conseguenze e terminano su ambigue e incomprensibili (date tutte le premesse) ritrattazioni da parte della protagonista, peraltro
troncate rapidamente da una goffa voce fuori campo, il cui ottimistico raccontare è insensato. La storia, in sostanza, non possiede una vera conclusione. Gli autori, dopo avere ritratto con evidente simpatia le gesta della
protagonista, appaiono nello scioglimento come impauriti di fronte a una materia tanto scottante e si ritraggono; pensano forse di essersi spinti già troppo oltre. E’ significativo che un’opera tanto originale e insolita
nel panorama italiano, salutata peraltro da un discreto successo di pubblico, non venga neppure citata dagli studiosi del cinema italiano che si sono occupati degli anni quaranta e cinquanta. Forse anche loro si sono trovati in
imbarazzo in questo ennesimo capitolo della perpetua guerra di Torino contro Roma.
Maria Felix è in quei mesi protagonista di un secondo, importante film italiano, Messalina
(dicembre 1951; 105 min.) di Carmine Gallone, salutato questa volta da un enorme successo. Il lavoro, una coproduzione italofrancese basata su un soggetto ispirato a Tacito (redatto dal regista), è il primo esempio postbellico di cinema completamente ambientato nella Roma pagana. A differenza di Fabiola (Blasetti,
1949; vedi), l’altro isolato esempio di cinema “romano”, tutto incentrato sull’esaltazione del nascente Cristianesimo e volto quindi a sminuire la civiltà dei Cesari, il testo di Gallone, regista conservatore nonché regista del
celebre, mussoliniano Scipione l’Africano (1937), non appare intimidito dalla tematica imperiale e non lesina le scene di massa con il popolo che acclama l’imperatore con il saluto romano (poi fascista). Sei anni dopo la fine della tragedia bellica, i ricordi del recente regime imperiale sembrano definitivamente superati e annichiliti. D’altro canto un breve episodio “cristiano”, posto doverosamente nel finale (la ballerina Delia Scala entra volontariamente nell’arena e miracolosamente ferma i leoni) è del tutto secondario nell’economia del film e certo non convince le autorità cattoliche che dichiarano la pellicola “sconsigliabile”.
Nella Roma del 44-48 D. C. l’imperatore Claudio è succube della perfida Messalina (Maria Felix) la quale ordisce una complicata trama per riuscere a deporlo e a far dichiarare imperatore il suo amante Caio Silio (George
Marchal). Giunge fino a imbastire una specie di rito nuziale con l’amante, con il quale cerca di detronizzare Claudio. Tira però troppo la corda e finisce ammazzata. La vicenda segue abbastanza fedelmente quanto testimoniato
dallo storico Tacito negli Annali, libro undicesimo (scritti intorno al 110 D. C.). Il fim, girato con indubbia capacità e senso dello spettacolo, innervato da belle musiche operistice di Renzo Rossellini il quale, in
numerosi passi, si ispira apertamente al suggestivo esotismo delle danze cerimoniali di Aida (Verdi, 1871), dipinge una Roma pagana senza infingimenti, con orge autentiche, dissolutezze compiaciute, omosessualità conclamate e un’arena nella quale i leoni sbranano chi capita e i gladiatori si massacrano per il piacere delle folle, il tutto evitando l’atteggiamento moralistico dei cattolici. La crudeltà e il cinismo dominano questa ricostruzione che possiede una certa forza di persuasione: essa venne salutata da un enorme successo che rese Messalina l’opera
capostipite di un fluviale genere cinematografico destinato a protrarsi fino alla metà degli anni sessanta (quando verrà sostituito dal western all’italiana). Maria Felix interpreta per la seconda volta il ruolo di donna
perversa e sessualmente disinibita e lo fa, questa volta, in modo assai più convincente, meglio diretta da Gallone e meglio valorizzata dall’ambientazione solenne e arcaizzante, più idonea ad assorbire la sua espressività
statuaria e intensa. Al suo fianco un gigionesco Mimo Benassi riveste i panni di Claudio. Al progressismo esoterico della favola di Sequi si contrappone quindi l’elogio conservatore e nazionalista della Roma imperiale.
Laicismo di sinistra e di destra concordano su una cosa: l’antipatia per la mentalità cristiana. In entrambi i casi la bellezza conturbante di Maria Felix risulta funzionale all’edonismo sensuale che accomuna le due correnti di
pensiero.
La carriera non esaltante di Goffredo Alessandrini termina col pessimo Camicie rosse
(agosto 1952; 99 min.) nel quale, sulla base di una sceneggiatura firmata da Enzo Biagi, Renzo Renzi, Sandro Bolchi e altri, si rievoca la disperata fuga della colonna garibaldina dalla repubblica romana fino alle valli di Comacchio (2 luglio - 4 agosto 1849).
Gli autori - del tutto dimentichi del fatto che Garibaldi era semplicemente un avventuriero al servizio della Massoneria angloamericana (affiliato dal 1844; in seguito - dal 1864 - ricoprirà la carica di Gran Maestro della
Massoneria italiana) la quale combatteva una propria guerra per aggiudicarsi il controllo della penisola a scapito in primo luogo del Papato, nonché degli odiati Asburgo e a seguire della Francia - ne tracciano invece il
consueto ritratto agiografico di un patriota democratico-rivoluzionario, disposto a tutto pur di cacciare lo straniero dall’Italia. Peccato che, nella fattispecie della repubblica romana, lo “straniero” sia l’italianissimo
Papato ovvero quel regno millenario della “seconda” Roma il quale valorizzava (allora come oggi) e rendeva autorevole il popolo italiano nel mondo, esprimendone tratti caratteriali tipici. Dunque il profugo di Montevideo - il
quale ha passato larga parte della propria esistenza nell’America del sud - pretende di conoscere le esigenze degli Italiani meglio di quanto non le conoscano loro stessi. Interpretando con perfetta aderenza la tipologia del
giacobino intento a creare “il mondo nuovo” entro fiumi di sangue, egli dunque funge da braccio armato del filoinglese Mazzini, sorta di dittatore unico della “famosa” repubblica nata dai disordini causati dal vile
accoltellamento del capo del governo Pellegrino Rossi (ottobre 1848) ad opera di Ciceruacchio e dei suoi accoliti. Nella penosa fuga di quell’estate - inseguito da Francesi e Austriaci - il generale e il suo piccolo
esercito (circa 4700 persona alla partenza) si muove con astuzia tra Umbria, Toscana e Romagna ma viene ovunque percepito come una mina vagante. Dove arriva confisca viveri per la sua gente, spogliando le popolazioni locali le
quali lo temono e quando possono gli impediscono l’accesso alla città (come accade ad Arezzo il 22 luglio). Quando è in difficoltà il condottiero non esita a sequestrare frati (come si sa li definiva “scarafaggi”) e a condurli
con sé in marce a tappe forzate nelle foreste e a saccheggiare conventi (“per i preti, ladri in nome di Dio, ci vuole il martello”: questa una delle sagaci enunciazioni dell’ “eroe”). Ovviamente minoranze democratiche, unite in
piccole società segrete, lo aiutano nel percorso, ma si tratta di manipoli poco rappresentativi in rapporto alla totalità delle popolazioni. A San Marino entra di forza (30 luglio) dopo che le autorità gli hanno negato il
transito e ancora a Cesenatico, di notte (1 agosto), obbliga decine di rassegnati marinai ad armare le barche e a condurlo verso Venezia, sebbene il mare sia in tempesta. Tutte queste verità storiche sono totalmente assenti
nel polpettone fumettistico approntato da Alessandrini e soci, polpettone di fronte al quale il vecchio Giarabub (1942; vedi), opera di schietta propaganda fascista del regista, figura come un mezzo capolavoro. Il film
falsifica con sfrontata determinazione tutti gli eventi. Di quanto sopra detto non compare nulla: Garibaldi (Raf Vallone) è solo l’eroe; Ciceruacchio (Carlo Ninchi) un brav’uomo fedelissimo alla causa che fugge con l’amato
figlio, la brasiliana Anna Maria de Jesus detta Anita (Anna Magnani) un’eroina sofferente, pronta a tutto sacrificare all’unità d’Italia (sebbene italiana non sia), i Francesi del generale Oudinot sono pressoché assenti (il
film è coprodotto dalla Francia e ci si guarda bene dallo spiegare il ruolo “reazionario” dell’esercito dei cari “cugini”, volto a combattere Garibaldi e a ristabilire in cattedra Pio IX, per il semplice fatto di ostacolare le
ambizioni angloamericane in Italia; si evita qualunque riflessione su questi Francesi - i nipotini di Robespierre e Napoleone, un tempo ferventi repubblicani, nonché residenti in uno stato retto da una costituzione liberale -
volti a reprimere le repubbliche fondate da altri) mentre il ruolo dei supercattivi viene affidato ai soliti austrotedeschi, il che è perfetto considerati i fatti recenti. Insomma si tratta di una combriccola di gente
pittoresca che sembra uscita più da un western hollywoodiano, tra accampamenti notturni e imboscate nei “canyon”, piuttosto che da un film italiano che pretende di rievocare pagine di storia nazionale. Inoltre ovunque le
popolazioni appaiono sostanzialmente felici di accogliere Garibaldi, il che significa rovesciare la realtà storica, mentre di frati sequestrati, di livore anticlericale, di soldati giustiziati sul posto dal generale (per
combattere il crescente disfattismo) e di monasteri saccheggiati non c’è neppure l’ombra. Il film poi, iniziato da un regista emblematico del fascismo e terminato (Alessandrini lascia per motivi oscuri) da un giovane
Franceco Rosi, futuro simbolo del cinema italiano di ispirazione comunista, mostra l’efficace confluenza di laicismo di destra e sinistra, di nazionalismo liberale e massonismo anticlericale, perfino di fascismo e marxismo in
quanto ideologie giacobine, accomunate dal desiderio di annientare (o almeno sottomettere) la Roma cattolica. Per tutti costoro Garibaldi è un simbolo positivo. D’altronde il fascismo non aveva mai perso occasione per
idolatrare “l’eroe dei due mondi” mentre le Brigate comuniste della Resistenza - le più accanite nemiche dei fascisti - si chiameranno proprio garibaldine così come Garibaldi sarà il simbolo del Fronte popolare per le elezioni
dell’aprile 1948. Inutile aggiungere che la recitazione di tutti è retorica e inadeguata (in particolare quella della Magnani, inadatta ai grandi ruoli storici), i dialoghi sono libreschi (“là dove siamo noi, là c’è Roma”
afferma l’eroe in fuga) e che la colonna sonora di Enzo Masetti, tra reminiscenze wagneriane (il tema di Siegfried) e rielaborazioni dell’inno di Mameli, contribuisce non poco all’atmosfera di goffa solennità della pellicola.
Una curiosità. Nel maggio 1949 le Poste italiane - il cui ministero è in quel momento guidato dal democristiano Angelo Raffaele Jervolino (succeduto però al socialista Ludovico D’Aragona) - festeggiano la repubblica romana
con un’emissione filatelica per certi versi inattesa. Sebbene le elezioni del 18 aprile abbiano sancito la vittoria netta delle forze moderate a guida cattolica (De Gasperi governa dall’inizio del 1946), le minoritarie
componenti laiche presenti nella maggioranza (PRI, PLI e PSLI) posseggono propri spazi di manovra come dimostra quel francobollo. Nell’Italia cattolica di Pio XII e della DC trionfante c’è sufficiente spazio politico per
rinnovare il ricordo dell’anticlericale repubblica di Mazzini e Garibaldi.
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