47 morto che parla,  Totò terzo uomo e Guardie e ladri

Totò cerca moglie, Figaro qua...Figaro là, Le sei mogli di Barbablù, 47 morto che parla, Totòtarzan, Totò sceicco, Totò terzo uomo, Sette ore di guai, Guardie e ladri e Bellezze in bicicletta: l’apogeo commerciale di Antonio de Curtis (1950-51)

                    “Dietro al ladro e al poliziotto c’è una   società che si difende dai ladri per       mezzo dei poliziotti; ma gli uni e gli      altri, almeno in questo film, senza una  vera vocazione per il loro mestiere”
                    C. Alvaro su Guardie e ladri (1952)

Dopo il fortunato esito di Totò le Mokò, Carlo Ludovico Bragaglia si dedica nel 1950 alla direzione del comico napoletano giunto alla propria stagione più eclatante. E’ scoppiata una vera e propria Totòmania e la semplice partecipazione dell’attore a una pelllicola è garanzia di immediato successo. Sono dunque addirittura sei i film incentrati sulla verve dell’esuberante attore a uscire nelle sale nel 1950 (cui si aggiunge la partecipazione a Napoli milionaria di De filippo), di cui quattro firmati da Bragaglia.
Nel periodo 1950-51 qualcosa va cambiando nel personaggio di Totò. La carica eversiva e anarcoide, sottolineata a proposito delle riuscite pellicole del 1948-49 (Fifa e arena, Totò le Mokò, Totò cerca casa, L’imperatore di Capri; vedi) si annacqua parecchio: niente più attacchi nei confronti delle ipocrisie ideologiche di democristiani e socialcomunisti, elogio ora più timido della libera ricerca di soddisfazioni erotiche, donne assai più vestite (il Centro Cattolico ammette tutte e quattro le pellicole di Bragaglia; esclude invece le due dirette da Mattoli), vicende totalmente scollegate dalle coeve problematiche sociali. E’ dunque un Totò al quale hanno tagliato le unghie per benino: forse è solo una coincidenza, forse i vorticosi ritmi di lavoro non consentono le graffianti trovate che valorizzavano le pellicole precedenti; in ogni caso il comico in parte delude. Rimangono all’attivo soprattutto gli indimenticabili giochi di parole, le selvagge distorsioni dei significanti e dei significati.
Il primo film dell’anno, Totò cerca moglie (marzo 1950; 76 min.) appare un clone che, fin dal titolo, rieccheggia il fortunatissimo Totò cerca casa (film prodotto da Ponti il quale, irritato, tenta addirittura di inibire per vie legali l’uso di quel titolo a Bragaglia), senza possederne il brio e la vivacità creativa. Come in quel caso si tratta di un film a episodi, centrato su una vena umoristica totalmente surreale e fumettistica. I quattro sceneggiatori (Age, Scarpelli, Metz e Continenza) allineano una serie di scenette autonome, collegate da una cornice pretestuosa (quella indicata nel titolo): il pittore (Aroldo Tieri) e lo scultore (Totò), la famiglia miope, dal dentista, all’ambasciata e la zia australiana. Solo una di esse appare completamente riuscita nel segno dello spettacolo di rivista: Totò si finge mezzo cieco per mettersi allo stesso livello di una ridicola famiglia di mezzi orbi. Le trovate comiche, basate sullo scambio degli oggetti (salsicce diventano sigari; bottiglie di liquori vengono scambiate con boccette di inchiostro ecc) si inanellano allora a ritmi vorticosi secondo un’attenta messinscena in cui ogni personaggio gioca un ruolo importante, in un entusiasmante crescendo. Uno stile di totale inverosimiglianza caratterizza invece lo scontro tra Totò dapprima dentista nei confronti di un malcapitato paziente, poi a sua volta paziente di un iracondo dentista secondo moduli già perfettamente sperimentati nelle pellicole dell’anno precedente e ora riproposti senza grande convinzione. Più graffiante risulta la trovata di Totò che, nascosto sotto un tavolo, azzoppa i partecipanti a un sontuoso ballo all’ambasciata di Papillonia mentre lo scontro finale a colpi di boomerang tra il comico e un’inarrestabile valanga di nemici è poco interessante. Subito dopo il mattatore fugge inseguito da un piccolo nugolo di pretendenti in abito da sposa, in una sequenza chiaramente “copiata” dal celebre finale di Seven Chances (Le sette probabilità, 1925) di Buster Keaton. Nell’epilogo Bragaglia inventa una elegante chiusa metafilmica: il protagonista e la sua definitiva fidanzata entrano in un cinema in cui proiettano proprio Totò cerca moglie e si gustano il finale insieme agli spettatori. Come a dire: abbiamo scherzato oltre il lecito, abbiamo stravolto le regole della verosimiglianza filmica, miscelandole con quelle del fumetto, della comica dell’epoca del muto e con il nonsense della rivista, ma lo sapevamo ed eravamo coscienti di potere contare su un pubblico disposto ad aderire al particolare, ibrido stile del nostro cinema.
Gli spettatori accorrono numerosi anche questa volta ma si accorgono che l’attore comincia a ripetersi: gli incassi sono circa la metà di quelli ottenuti dal modello Totò cerca casa.
Bragaglia dunque corre ai ripari e nelle tre successive pellicole, uscite a distanza di un mese, inquadra il comico entro sceneggiature più robuste e strutturate, mettendogli al fianco attori di un certo rilievo. Si comincia con Figaro qua...Figaro là (ottobre 1950, 85 min.), bizzarra e disastrosa riformulazione del celebre Barbiere (1816) di Rossini (dalla commedia francese di Beaumarchais) di cui si utilizzano numerosi temi musicali. La pratica del film-opera è assai diffusa in questi anni e costituisce il canto del cigno del melodramma: mentre tale genere musicale declina in modo definitivo, il cinema ne ripropone versioni in pellicola che sfruttano l’ampia popolarità che ancora posseggono numerosi capolavori di Verdi e Puccini. Lo specialista fu Carmine Gallone che tra il 1946 e il 1950 firma Avanti a lui tremava tutta Roma (ossia Tosca), Rigoletto, La signora delle camelie (ovvero Traviata), Addio Mimì (ossia La Bohéme), La forza del destino e Il Trovatore (su queste pellicole, semplice teatro lirico filmato, non ci si sofferma in questa storia del cinema italiano). Il film di Bragaglia, sceneggiato dal quartetto Age, Scarpelli, Metz e Marchesi, si inserisce in questo filone sebbene del Barbiere si limiti a riprendere solo lo spunto iniziale: Totò, barbiere a Siviglia, cerca di facilitare le nozze tra Rosina (Isa Barzizza) e il conte d’Almaviva (Gianni Agus); nella nuova versione però la ragazza è promessa al comandante delle guardie imperiali (Renato Rascel) e i protagonisti tentano allora di rapirla; falliti tali stratagemmi le nozze vanno in porto durante una solenne recita teatrale, sotto gli occhi di tutti, allorché Rosina si sostituisce a Totò (travestito da donna) e si sposa col conte sul palcoscenico, davanti a un vero notaio.
Con l’eccezione del vivace e incisivo finale in cui Totò recita ora vestito da Pulcinella, ora da “promessa sposa”, risolvendo la situazione degli amorosi con un abile scambio di persona, per il resto la pellicola si trascina in modo fiacco e noioso all’interno di una storia priva del minimo interesse, realizzata con trovate sceniche dilettantesche (oggi inguardabili) e assai poco vivacizzata dal protagonista “imprigionato” in un ruolo troppo definito per il suo estro. Al suo fianco Renato Rascel, veterano della rivista ma ai suoi primi tentativi cinematografici, è goffo e artificioso nella sua macchietta di perenne imbranato. Ciononostante il pubblico accorre in massa e sancisce il successo della squinternata pellicola.
La stessa filosofia anima il successivo Le sei mogli di Barbablù (novembre 1950; 87 min.) nel quale un numero imprecisato di sceneggiatori (le firme ufficiali sono solo due nomi inventati) rielabora la nota vicenda del serial killer. Totò, in fuga da un’orrenda moglie, si sostituisce al detective Nick Parter (Carlo Ninchi), e si trova a fare da esca insieme a una giornalista d’assalto (Isa Barzizza); il mostro (Tino Buazzelli), clonato dalla figura Jekyll-Hyde, arriva puntuale e muore, dopo rocambolesche corse, cadendo in una vasca di acido solforico. La pellicola, sconclusionata e poco divertente come il Figaro, mostra di nuovo un Totò esaurito e prigioniero di una trama tanto rigida quanto sciocca; né la presenza del bravo Carlo Ninchi e di un efficace Buazzelli (alle sue prime apparizioni) riescono a sollevare il destino del lavoro.
Nel film tuttavia c’è almeno una sequenza memorabile: entrato nell’antro del mostro, Totò giunge in una sorta di seducente altare dedicato alla femminilità: le sei precedenti vittime di Barbablù, di una bellezza statuaria (valorizzata dagli scarsi indumenti), appaiono immobilizzate dietro a insolite vetrine, su un palcoscenico semicircolare. Con un’inconsapevole ed elegante intuizione visiva gli autori evidenziano uno dei principali, “segreti” obiettivi dell’arte filmica, ovvero quello di valorizzare il corpo femminile, esibirlo e per il suo tramite esaltare la donna, donandole un nuovo ruolo sociale, più disinvolto e libertario. Il cinema è anche l’arte dell’erotismo, capace di influire gradualmente sui costumi sociali, creando una nuovo tipo di figura femminile, emancipata quanto meno nella sua capacità di sfruttare le potenzialità insite nella propria sessualità. Si noti che le riviste di critica filmica del periodo (in particolare “Cinema”) mettono in copertina sempre donne poco vestite e proseguono con tale esposizione anche all’interno del fascicolo. Così accanto a indigesti interventi didattico-ideologici (si tratta come sempre di pubblicazioni interne all’universo della sinistra) si possono soprattutto ammirare bellezze del periodo (questa parte visiva è in fondo ciò che è rimasto “vivo” in quelle modeste pubblicazioni) a conferma del fatto che anche i noiosi redattori filomarxisti dell’epoca (Aristarco in testa) consideravano la “liberazione” della donna e la sua tanto auspicata parificazione in stretta relazione con la possibilità di mostrarla seminuda e di farne un oggetto di commercio. Erano cioé in totale malafede poiché parlavano di parità reale e pubblicavano donne nude, cedendo dunque ai più ovvi stereotipi della donna quale oggetto di venerazione per la sua sola e semplice bellezza fisica. Poiché in definitiva questo è accaduto nei decenni a venire: la presunta libertà femminile è stato solo il cavallo di Troia attraverso il quale giungere a un commercio libero e totale dell’erotismo ossia di una merce potentissima, capace di garantire enormi profitti ai padroni dei media (cinema, televisioni e altro). Il laicismo degli anni sessanta fu in questo unanime: sia a sinistra, sia a destra, sull’Espresso e sul Borghese, campeggiavano innanzitutto donne poco vestite. Va da sé che al contrario in ambito politico ossia in quello del Potere reale, la donna non occupava e non occupa a tutt’oggi alcuna posizione significativa. La grande truffa ideologica ha prodotto esiti magnifici per le casse delle Corporation dedite ai media e ha sconvolto in modo definitivo gli istituti tradizionali del matrimonio e della procreazione, rendendoli obsoleti. Le conseguenze di tale rivoluzione antropologica sono difficili da immaginare; si vedrà.
Tornando al Barbablù le sei magnifiche “statue” femminili (una di esse è Sofia Lazzaro, poi Loren), mostrano dunque per un attimo uno degli aspetti essenziali del fatto cinematografico: la contemplazione estatica del corpo femminile, la sua divinizzazione neopagana e la sua auspicata liberazione dai ceppi della morale nella direzione di un più completo sfruttamento di questo bene materiale dalle inesauribili potenzialità. La donna, ridotta a splendida effigie, è oggetto di culto dei cineasti e dei critici, è una “dea” dotata di “magici” poteri capaci di distruggere, nel tempo, la rigida, patriarcale e cattolica società italiana degli anni cinquanta.
L’ultima collaborazione tra Bragaglia e Totò, 47 morto che parla (dicembre 1950; 87 min.), passa attraverso una serie di fonti “nobili” quali la commedia omonima di Ettore Petrolini e Silvano d’Arborio (1918) e il celebre L’avaro (1668) di Molière, miscelati con spunti ripresi da Cinque settimane in pallone (1863) di Jules Verne, fonti rielaborate dal quartetto di sceneggiatori Age, Scarpelli, Metz e Marchesi. Ne fuoriesce una pellicola di buona fattura (la migliore delle quattro) in cui la maschera del comico è nuovamente costretta entro un preciso carattere, quello dello spilorcissimo barone Antonio Peletti alle prese con un paese e un figlio che reclamano, a ragione, forti somme da lui nascoste in una cassetta. Egli inoltre, come l’Arpagone di Molière, mira alle grazie della giovane Rosetta (Adriana Benetti), fidanzata di suo figlio. La vicenda, ambientata nel 1903, viene abilmente sviluppata in una serie di macabri scherzi nei quali si fa credere al malcapitato di essere morto e lo si costringe per tale via a svelare il nascondiglio del proprio tesoro. Nel finale, Peletti, ormai conscio della burla e disperato, insegue il suo tesoro su una mongolfiera.
Rispetto al Totò anarchico, trasgressivo e dominatore assoluto delle pellicole precedenti, qui l’attore deve fare i conti con un personaggio più monocorde (reso tuttavia in maniera superba), perfino antipatico e con un copione rigidamente teatrale in cui però lo sfondo, da scenario pretestoso del divo, si tramuta in fondale ricco di elementi di interesse. Tra le cose memorabili i duetti “sadici” col cameriere (Carlo Croccolo), la scenetta della piccola truffa al macellaio (Gildo Bocci) durante il laborioso acquisto di una fettina di carne e la magnifica scena madre del “fantasma” Totò che rientra a casa propria, guidato dall’ “angelo-guida” (Silvana Pampanini), e la trova invasa da tutti i suoi nemici i quali gozzovigliano a sue spese, fingendo di piangerne la scomparsa. Inutile dire che la pellicola riporta un enorme successo.
Va ricordato inoltre che la censura intervenne proprio in questa pellicola per tagliare un paio di situazioni giudicate troppo irriverenti: quella in cui Totò piange sulla propria tomba e quella in cui commenta alacremente una battuta sul vino Lacryma Christi (“quello è sangue mio...”). Si tratta comunque di aspetti secondari poiché nell’insieme la pellicola appare complessivamente innocua.

In quei mesi Totò torna a collaborare con Mario Mattoli, dopo la bella riuscita di Fifa e arena (1948) e i meno entusiasmanti Totò al giro d’Italia (1948) e I pompieri di Viggiù (1949). Affidando al solito quartetto di sceneggiatori (Age, Scarpelli, Marchesi e Metz) il compito di imbastire le cornici narrativi, il comico imposta una piccola trilogia basata sulla caricatura di grandi successi del cinema straniero presi a modello per garantire una minimo di coesione narrativa ai siparietti umoristici. Nascono così Totò sceicco (novembre 1950; 90 min.), ispirato sia a Il figlio dello sceicco (1926) ultima pellicola di Rodolfo Valentino, sia ad Atlantide (Gregg Tallas, 1948), Totòtarzan (dicembre 1950; 85 min.) connesso alla popolare serie hollywoodiana degli anni trenta e quaranta e Totò terzo uomo (settembre 1951; 95 min.), nel quale il regista si limita a riprendere il titolo e il celebre tema musicale del fortunato film The Third Man (1949) di Carol Reed. Gli esiti sono complessivamente modesti sebbene qua e là l’estro del comico, nuovamente libero di ritrovare una propria vena anarcoide nei primi due capitoli, lascia il segno. Inoltre Mattoli torna a valorizzare la vena erotica di Antonio de Curtis, circondandolo con una lieve schiera di donnine poco vestite (cosa che garantisce ai film la qualifica cattolica di “escluso” ai primi due e di “sconsigliabile”, al terzo, giudizi che non impediscono ai film di divenire notevoli successi di cassetta), tra le quali si fa ancora notare l’esordiente Sofia Loren.
In Totò sceicco le scombinate avventure nel deserto e nella città incantata di Atlantide sono guazzabugli inguardabili nonché colmi di freddure e si fatica a comprendere come potessero divertire anche il più ingenuo degli spettatori. D’altro lato la cornice ambientata in una residenza aristocratica, con Totò maggiordomo altezzoso, Aroldo Tieri nobilastro innamorato e la signora madre (una eccellente Ada Dondini) angustiata dalle avventure amorose del figlio, perso dietro a una canzonettista (Laura Gore), offre momenti di sicuro divertimento. In essa il comico trova il modo di infilare alcune gag perfette come quella della “robusta” signora che sfascia continuamente le poltrone in cui si siede mentre l’imperturbabile maggiordomo chiama con un corno “da taschino” una gru “da camera”, idonea a riportare il donnone in posizione eretta. Si tratta però di episodi isolati in una sequenza di battute e situazioni, tutte già ampiamente sfruttate dal celebre protagonista.
Meglio vanno le cose in Totòtarzan poiché la vena surreale ed eversiva del comico può qui sfogarsi senza remore, dato il carattere “selvaggio” del protagonista. Riportato a forza tra i civili Totò pensa solo ad amoreggiare con tutte le donne che incontra, distrugge una camera d’albergo aiutato dal fidato amico gorilla, manda in frantumi lo studio di un procuratore generale dopo avergli denudato la moglie colpevole di indossare una pelliccia di leopardo, rischia di venire fatto a pezzi da alcuni crimnali in una segheria e dirotta un treno nel finale. L’approccio irriverente posto in atto in quasi ogni situazione genera alcune situazioni sicuramente esilaranti: Totò, vestito in modo civile, si atteggia però da animale, maltratta le sue vittime quando meno se lo aspettano, chiama a raccolta stuoli di donnine disponibili, invaghite dalla sua diversità (le tototarzaniste, eredi delle seguagi del torero Nicolete di Fifa e arena) e perseguitate da vecchie bigotte che strepitano di satanismo (il passo deve avere irritato non poco i censori cattolici) e, dopo essersi salvato dai maneggi di chi lo voleva morto, ritorna nella giungla. Inoltre Mattoli inserisce un divertente intermezzo militare nel quale Totò riprende l’umano e italianissimo elogio della vigliaccheria, già centrale in Fifa e arena. Durante una serie di esercitazioni tra i paracadutisti il comico si rifiuta con tutte le sue forze di buttarsi dall’aereo, affermando di avere troppa paura e anzi vantandosene di fronte a chi continu a recitargli la litania dei valori dell’etica militare e dello spirito di corpo. Tale episodio si situa ai limiti dello sberleffo nei confronti delle forze armate e non deve essere stato troppo gradito in quegli ambienti. In definitiva la sfrontatezza del comico torna a porre in primo piano le necessità primarie della natura umana (il cibo, il soddisfacimento sessuale e, sopra a tutto, l’istinto di autoconservazione) finendo con lo scoprire il carattere strumentale e illusorio dei valori creati dalla civiltà e dal Potere.
Il successivo Totò terzo uomo esce quasi un anno dopo e costituisce il documento di una nuova stagione dell’arte di Totò. Esaurite le risorse comiche quale “solista”, il comico pensa che sia venuto il momento di inquadrare le proprie interpretazioni entro strutture narrative che coinvolgano maggiormente lo spettatore. Ciò è già avvenuto in parte con 47 morto che parla e ora tale vena viene approfondita con questa farsa di impostazione realistica nella quale il protagonista interpreta ben tre ruoli (si tratta di tre gemelli) ovvero Pietro, sindaco austero e conservatore di una cittadina di mare (il film è stato girato a Formia, vicino Latina), Paolo, don giovanni incallito e affarista, nemico acerrimo del primo dal quale attende invano una certa somma in cambio di un terreno sul quale si deve edificare un nuovo penitenziario e infine Totò, un truffatore appena uscito di galera. Quest’ultimo, la cui esistenza è ignota agli altri due, prende il posto ora dell’uno, ora dell’altro nel tentativo di impossessarsi dell’ingente gruzzolo di denaro di cui sopra; come prevedibile crea equivoci a non finire in una matassa che si ingarbuglia sempre più fino al suo scioglimento in tribunale, scioglimento che solo l’apparizione del misterioso terzo gemello può appianare. Il taglio realistico viene approfondito inoltre dalla fotografia “sporca”, quasi documentaristica di Tonino Delli Colli e dalla presenza di esterni reali “credibili”, dopo quelli polverosi e artefatti della maggior parte delle precedenti pellicole centrate intorno all’attore napoletano.
Totò è attore egregio nell’impersonare i due caratteri antitetici di Pietro e Paolo e poi, in un eccesso di virtuosismo, nel dar vita, con il terzo gemello, alla caricatura dei suoi stessi personaggi. La pellicola è realmente ben costruita e finalmente la comicità nasce non solo dalle battute e dai gesti ma anche dalle situazioni create dal quartetto di sceneggiatori cha agisce sulla base di un soggetto di Mario Pelosi. Nel sindaco l’attore fa rivivere tutta la sua nostalgia per “altri tempi”, sia mediante citazioni monarchiche e fasciste, sia attraverso il clima familiare rigido in cui le donne (madre - Bice Valori e figlia - Fulvia Mammi) sono obbligate a tacere sempre e la più giovane è costretta a sottostare ai desideri paterni nella scelta del fidanzato (cosa che verrà ovviamente debellata dall’inserimento del sosia truffaldino). In Paolo invece Totò può dar vita al consueto personaggio di eterno innamorato del sesso femminile, alla perenne ricerca di avventure gratificanti (tradisce regolarmente la moglie - Elli Parvo, ma rischia grosso quando un marito geloso, Carlo Campanini, cerca di fargli la pelle; in realtà quest’ultimo finisce col prendersela con l’innocente terzo gemello). Il truffatore, vero motore della storia, è invece una figura timorosa e bonaria, guidata nelle sue impersonificazioni dal perfido Aroldo Tieri, vero e unico ideatore del piano criminoso.
Nell’opera compaiono le prime timide critiche alla nuova classe politico-amministrativa in quanto Paolo tenta apertamente di corrompere il fratello inviandogli, per interposta persona, un milione di lire. Nel moralistico finale tale gesto viene condannato, ma intanto si pongono le basi di quel cinema di intelligente e smaliziata denuncia sociale che diverrà caratteristico, di lì a qualche anno, della cosiddetta commedia all’italiana. Il punto di vista è fin d’ora indulgente: le ruberie furbastre fanno parte dello scettico costume nazionale e rientrano nella categoria del comico e del cinico (conta soprattutto farla franca) più che in quella del severo giudizio politico-morale (questa visione rimarrà fondamentalmente egemone fino al tetro biennio di Mani Pulite, grandiosa, ipocrita e “sinistra” farsa, tipicamente italiana, necessaria per attuare un drastico ricambio nei vertici politici della nazione). D’altronde il rigido sindaco monarchico, il quale ovviamente avrebbe rifiutato con sdegno l’offerta, è in fondo il personaggio antipatico e disumano mentre il gemello impostore, il quale invece accetta (senza peraltro capire molto dell’offerta di denaro), è figura umanissima e ben comprensibile da tutti come pure il Paolo corruttore il quale poi, convincendo il sindaco ad acquistargli la terra, fa contenta l’intera popolazione che finalmente potrà contare su un lavoro certo (la costruzione del penitenziario). Insomma ungere le ruote fa bene e Pietro appare, a tutti gli effetti, un relitto del passato. La psicologia italiana, sciolta dalle rigide e ottuse pastoie fasciste, può manifestarsi ora senza timore.

Gli sceneggiatori e autori di riviste Vittorio Metz e Marcello Marchesi, entrambi romani, autori di oltre un centinaio di copioni tra il 1939 e il 1969, tentano la strada delle regia e firmano nel biennio 1951-52 sei pellicole che rimangono però il frutto di un’esperienza isolata nel tempo. Tra esse figura un brillante lavoro con Totò, Sette ore di guai (ottobre 1951; 85 min.) nel quale il duo, aiutato nel lavoro di regia da Marino Girolami e nella sceneggiatura da Age e Scarpelli, rielabora il testo teatrale ‘Na criatura sperduta (1899) di Eduardo Scarpetta. Vi si racconta del sarto romano Antonio De Pasquale (Totò) il quale, poche ore prima del battesimo, si trova a dare la caccia a suo figlio, smarrito da una distratta domestica. Dapprima lo sostituisce con la neonata di alcuni scombinati vicini intellettuali, poi, male informato, lo insegue fino a Marino e crede di recuperarlo (in realtà rapisce la neonata dei soliti vicini, trasferitisi momentaneamente nel paesino sui colli romani). Scoppia lo scandalo e mezzo paese, invocando la pena di morte, dà la caccia al “rapitore” di pargoli il quale riesce in qualche modo a raggiungere la chiesa romana dove scopre che nel frattempo suo figlio è stato battezzato.
La briosa vicenda, sebbene si strutturi nella consueta galleria di episodi staccati, mostra una sufficiente unitarietà. Come per Totò terzo uomo, il tasso di realismo è abbastanza alto sebbene si tratti comunque di una farsa con momenti decisamente “sgangherati”. Così la grande quantità di scene in esterni (tra Roma e Marino) conferisce quella minima dose di verosimiglianza idonea ad appassionare lo spettatore alle traversie dell’imbranato protagonista. Totò inoltre, ripreso ora “in campo aperto”, sgambetta e si agita come le macchiette delle comiche mute hollywoodiane (evidenti i riferimenti a Charlot, già presenti nelle pellicole interpretate dal comico un decenno prima), viene inseguito da una turba inferocita (come in numerosi finali di Keaton, autore già “copiato” in Totò cerca moglie) mentre durante un surreale sketch casalingo in cui il comico deve fingersi imbianchino insieme a un amico (Eduardo Passarelli), per evitare le ire di un gelosissimo padrone di casa, il duo sembra ricalcare le movenze di Stan Laurel e Oliver Hardy. Insomma se non tutto appare di prima mano, tanto più che il quadro d’insieme appare ispirato al recente Prima comunione (Blasetti, 1950; al perduto vestito per la prima comunione si sostituisce lo smarrito neonato; vedi), ciononostante l’esito complessivo è brillante e quasi senza cadute di tono.
Numerose le pagine da ricordare: una madre fannullona (Clelia Matania, moglie di Totò) che, a letto da diciotto giorni, non distingue il proprio figlio da quello dei vicini (evidente la sottile misoginia che prende di mira un certo pressappochismo femminile, rafforzata dalla sequenza in cui la domestica dimentica il neonato per motivi futili); lo spumeggiante ritratto di una furba mantenuta (Isa Barzizza) che si barcamena tra il ricco, vecchio e irascibile protettore e il giovane innamorato; l’assurda famiglia di intellettuali (tra essi Carlo Campanini e una spaesata Giulietta Masina) che risultano talmente bislacchi (sul modello della famiglia Sycamore di You Can’t Take It With You, F. Capra, 1938) da irritare perfino l’ex anarcoide Totò il quale finisce per impersonare, in loro presenza, il principio d’ordine (!!). Infine l’acrobatico episodio del palazzo in costruzione in cui un paio di muratori si vede recapitare nel cesto del pranzo un neonato (“non siamo mica cannibali” affermano) e Totò deve fare miracoli sui cornicioni, inseguito da due fanatici, sicuri di avere finalmente acchiappato il misterioso rapitore di neonati. La pellcola insomma offre molti spunti di divertimento e segna un ulteriore passo avanti del comico verso caratterizzazioni più realistiche. Ciononostante il pubblico saluta in modo poco caloroso questa fatica di Antonio De Curtis.

Al contrario un clamoroso successo arride a Guardie e ladri (dicembre 1951; 101 min.), pellicola che sancisce il definitivo passaggio di Totò da “marionetta” surreale a personaggio realistico, anzi in questo caso “neorealistico”. Il duo Steno-Monicelli, già autore di Totò cerca casa (1949; vedi) torna a dirigere il comico napoletano affiancandogli (per la prima volta) l’altro grande divo della rivista e del cinematografo, il romano Aldo Fabrizi. Questa volta però le intenzioni sono “serie” e “solenni” poiché, finanziati da Ponti e De Laurentis, la troupe prende spunto da un soggetto di Piero Tellini (autore di numerose opere neorealiste) esteso in sceneggiatura da firme importanti quali quelle di Brancati, Flaiano, Maccari, Fabrizi stesso, nonché Steno e Monicelli. Si giunge così al film del definitivo assorbimento di Totò nell’universo “neorealistico”, non solo festeggiato dal pubblico ma anche lodato dalla critica e premiato a Cannes 1952 per la migliore sceneggiatura. E’ inoltre il primo fim di Totò a venire distribuito in tutta Europa e in Sud America e a ottenere un convinto successo internazionale.
La storia è semplicissima: Totò è un pataccaro di buon cuore, con una famiglia numerosa sulle spalle; dopo avere imbrogliato ai Fori romani il solito americano credulone, viene da questi riconosciuto a una cerimonia di pacchi dono per i poveri e inseguito dalla guardia Fabrizi. Arrestato dopo un lungo inseguimento riesce a fuggire con un trucco. Il superiore di Fabrizi, aizzato dai propri superiori, a loro volta seccati dalle proteste dell’influente americano, decide di applicare l’articolo 387 (procurata evasione per “colpa del custode”) del codice penale, costringendo la guardia a riportare l’evaso entro tre mesi o a finire sotto processo. Inizia così la lunga caccia che porta a un esito inatteso: le due famiglie (della guardia e del ladro) fraternizzano e alla fine Totò accetta di farsi arrestare per togliere dai guai Fabrizi.
Il pregevole film, lodato però oltre i propri meriti, offre una prima parte fiacca e indecisa e prende il volo poi nella seconda quando i due attori, finalmente entrati pienamente nella parte, si abbandonano al registro patetico in un contesto di mesta e degradata quotidianità. Gli episodi iniziali di Totò imbroglione e della troppo lunga corsa alla periferia di Roma ripropongono un comico sbiadito e indeciso tra il registro consueto, surreale e chaplinesco, e quello del ladro seriamente impensierito dalle minacce della guardia. Va notato che la pellicola segna nel cinema italiano l’inizio di un atteggiamento apertamente ostile nei confronti dell’ “amico americano”: il personaggio del potente filantropo statunitense che regala pacchi ai bambini ma perseguita in modo carognesco sia Totò, sia il modesto poliziotto Fabrizi, suscita una netta antipatia e va inscritto in quella guerra fredda ormai avviata (dopo la guerra di Corea) che vede in Italia il cinema d’autore nettamente schierato (per i prossimi decenni) con i sovietici e i loro amici socialcomunisti. Gli americani in Italia divengono quindi, solo da ora, un bersaglio scontato e poco sincero dato che nel cinema dell’immediato dopoguerra erano invece quasi sempre dipinti in maniera elogiativa. Non si tratta per la cultura di sinistra (entro la quale si inscrive questo film come tutto lo sforzo cosiddetto “neorealista”) di sentimenti nazionali e tantomeno patriottici, di salvaguardia della nostra culutra da quella invadente e sciocca d’oltreoceano; si tratta semplicemente di mettere in cattiva luce il nemico dell’URSS.
Solo a partire dalla umiliazione di Fabrizi, incriminato dopo “trent’anni di onesto servizio”, la vicenda prende decisamente la strada del dramma, aiutata in tal senso dalle magistrali luci contrastate e buie del direttore della fotografia Mario Bava. Le intense interpretazioni dei due protagonisti (aiutati da un cast eccezionale tra attori di vaglia come Ave Ninchi ed Ernesto Almirante e nuove promesse come il giovanissimo Carlo Delle Piane, Aldo Giuffré e Rossana Podestà) conferiscono notevole spessore, a tratti perfino poetico, a questa seconda parte in cui le due famiglie, ignare della sofferta caccia all’uomo in corso “dietro le quinte”, intrecciano rapporti sempre più stretti mentre il ladro sfugge ancora un paio di volte agli agguati un po’ maldestri della guardia. Nella conclusione il grande faccia a faccia nel pianerottolo della abitazione di Totò ha quasi le cadenze di un duello western e avrebbe potuto essere una grande pagina cinematografica se non fosse stata rovinata dai soliti falsi eccessi patetici della poetica neorealista. Le continue lamentele del povero ladro con famiglia, che “lavora duramente” per non far mancare loro nulla, suonano artefatte e un po’ ridicole, nel tentativo sempre più spinto di equiparare i due, l’uomo di legge e l’uomo ai margini della legge, come di vittime di un sistema ingiusto che crea diseguaglianze e pone la maggior parte degli individui in uno stato di disagio e infelicità. Gli scenari periferici e miserabili, scelti con cura dagli autori, cercano di confondere ulteriormente le acque per portare avanti la propria equazione intorno a un universo capitalistico crudele e sperequativo. La grande prova di Fabrizi e Totò viene così sprecata in dialoghi inattendibili e situazioni paradossali: nessuno ha più il coraggio delle proprie azioni; il ladro non rivendica più la propria scelta come semplice, anarchico e individuale rifiuto del sistema del lavoro (come in definitiva è) mentre il poliziotto finisce col sentirsi simile al ricercato in quanto messo alle strette dal proprio sistema giudiziario in una situazione estrema e artificiosa. Il sistema è dunque il colpevole, si legge tra le righe, e la felicità può avverarsi nelle cose terrene solo cambiandolo. Questo l’implicito insegnamento politico della faziosa pellicola.
Non è dunque un caso, né appare sorprendente che l’ufficio di censura si sia ampiamente interessato a questo lavoro (del quale si poteva intuire a priori il clamoroso successo): porre sullo stesso piano un difensore della legge e un furfante appariva un’operazione provocatoria che conteneva una logica giustificazionista nei confronti della filosofia di vita del truffatore; insomma una pellicola diseducativa nella quale si attentava alla rispettabilità della polizia (quella degli odiati “celerini di Scelba”). Inutilmente Monicelli parla con astio di Ufficio censura e Ministero dello Spettacolo quali dirette continuazioni del Minculpop fascista, lamentando insomma una mancata epurazione come se invece tra le maestranze del cinema fosse cambiato qualcosa tra il prima e il dopo Mussolini. Il problema non è certo la presenza di ex fascisti in alcuni uffici; al contrario Steno, Monicelli e company dovrebbero essere meno modesti, lasciar da parte l’abituale vittimismo tipico della cultura di sinistra e affermare che in effetti hanno creato situazioni e personaggi ai limiti del verosimile (il ladro buono di cui si ha cura di non mostrare mai le malefatte, a parte l’innocuo episodio iniziale; la guardia umiliata e gettata nella più totale costernazione tramite l’uso punitivo di un articolo del codice penale largamente inapplicato) adatti a dipingere una realtà profondamente desolata e in qualche modo carica di impliciti sentimenti di rivolta. Questo tipo di narrazione poco sincera, tipica del cosiddetto “neorealismo”, è ovvia fonte di preoccupazione delle autorità le quali vigilano su un mondo difficile in cui l’ordine democristiano va mantenuto a ogni costo in quanto non esiste un’alternativa politica credibile, essendo l’intera opposizione finanziata da una potenza straniera e nemica.

L’eccezionale fama raggiunta da Totò sfocia addirittura in una pellicola dedicata alla sua incontenibile celebrità. Si tratta di Bellezze in bicicletta (febbraio 1951; 99 min.) di Carlo Campogalliani su soggetto e sceneggiatura del regista coadiuvato da Metz, Marchesi e Amendola, nel quale si racconta di Silvana Pampanini e Delia Scala (recitano coi loro nomi), due ambiziose ragazze decise a raggiungere Milano per unirsi alla compagnia di ballo di Totò. Il film, salutato da un enorme successo (al punto che l’anno successivo Campogalliani girerà Bellezze in motoscooter), è organizzato nella consueta giustapposizione di episodi staccati e autonomi e offre una prima parte realmente brillante cui segue una seconda fiacca e deludente. Accanto a Delia troviamo un perfetto Aroldo Tieri nella tipica parte del fidanzato maltrattato e volitivo il quale insegue le ragazze, perseguitandole senza pietà per convincerle a lasciar perdere il palcoscenico e ad accontentarsi di una tranquilla vita domestica. Il conflitto tra arcaismo e modernità rivive nel continuo scontro tra la coppia di ragazze, inebriate dall’idea del denaro e del successo e il giovane che possiede ambizioni più modeste e solide. Se una vena misogina attraversa (come si è visto) numerose pellicole di Totò del periodo, in questo caso invece la simpatia di Campogalliani è tutta per le ragazze, per l’universo dello spettacolo, per un tipo di donna decisa ed emancipata e non è un caso che la pellicola vada poi ad arenarsi nella seconda parte nella trovata pubblicitaria della corsa femminile in bicicletta Bologna-Milano in cui il pubblico potrà soprattutto godersi la visione delle gambe delle concorrenti (come nel teatro di rivista) mentre i promotori (la ditta Darelli, costruttrice di biciclette) sarà sicura di vendere e incassare molto. Il connubio corpo femminile - vendita delle merci, sebbene ai suoi albori, appare ben individuato e le ragazze sembrano sicure di volere utilizzare le proprie grazie in quella direzione reificante, certe di trovare per quella via una nuova e sicura affermazione di sé (generata ovviamente dall’indipendenza economica che si porta appresso).
La pellicola appare quindi un elogio della modernità al femminile, tanto più che i personaggi maschili sono uno più sgraziato dell’altro. A parte il testardo ma in fondo debole Aroldo Tieri, la galleria è lunga e rischia infatti di essere monocorde. Se eccezionali sono le prestazioni di Dino Valdi (l’imitatore di Totò) e di Carlo Scroccolo (il soldato pasticcione), decisamente insopportabile è il “ragazzone” Renato Rascel che, nel ruolo del figlio di un meccanico, rompe tutto ciò che gli capita per le mani e modesto appare anche il contributo di Peppino De Filippo nel ruolo di un ladro vagabondo in un episodio che ricicla stancamente quello dell’abitazione “stregata”, già utilizzato in Totò cerca casa (1949).
Incisiva è invece la rievocazione dell’atmosfera dei piccoli teatri di provincia nell’episodio del furbo impresario (Carlo Ninchi) che cerca di spacciare per Totò un suo bravo imitatore: il pubblico popolano, dapprima ingannato dalla perfezione dell’imitazione (Valdi faceva spesso la controfigura di De Curtis), quando viene avvisato da uno spettatore smaliziato e borghese si solleva indispettito (soprattutto dal fatto di essere stato raggirato, poiché il numero era sinceramente piaciuto) e distrugge tutto. C’è nella costruzione dell’episodio un tono di scanzonata e anche crudele satira nei confronti dell’ingenuità provinciale e popolaresca che colpisce nel segno. Ancora la figura dello smarrito popolano è al centro del numero più irresistibile del film, quello di Pinozzo, il soldatino scemo interpretato magistralmente da Croccolo, circuito dalla coppia di abili protagoniste, infreddolite e in cerca di un rifugio per la notte. Anche in questo caso il maschio soccombe rapidamente: le due fanciulle si intrufolano in caserma, mischiate ai soldati e in qualche modo difese dallo squinternato Pinozzo.
L’omaggio a Totò in una certa misura rovescia le carte in tavola e tradisce lo spirito del comico napoletano. Il mattatore è quasi sempre sicuro di sé al centro della scena, circondato da donnine poco vestite e piuttosto disponibili, attento all’aspetto erotico e distratto (quando non sprezzante) sul versante sentimentale. Campogalliani invece dipinge donne testarde e volitive, decise nel volere usare in modo strumentale il proprio fascino, circondate da omini confusionari e perfino da industriali indulgenti e remissivi (Renato Valente, il fidanzato di Silvana, proprietario della Darelli).