Un garibaldino in convento, Un colpo di pistola e Zazà: disimpegno e ambiguità (1942-43)
“Quando ho proposto di fare Un colpo di pistola, immediatamente Riccardo Gualino, che era il padrone della Lux Film, ha
accettato. Gualino era una grossa personalità, una persona straordinaria, una specie di rapace, un condor ....Volevano della gente nuova e avevano molta fiducia in me.....” (R. Castellani)
Dopo la bella riuscita di Teresa Venerdì (1941; vedi), Vittorio De Sica delude con il quarto lungometraggio, Un garibaldino al convento
(marzo 1942; 90 min) nel quale scompaiono quasi tutte le qualità dell’opera precedente, sostituite da un mestiere ordinario che approda ad un prodotto piuttosto goffo. Partendo da un soggetto di Renato Angiolillo, il regista sviluppa la sceneggiatura aiutato da Margherita Maglione, Alfo Franci e Giuseppe Zucca: nel 1860, in un rispettabile convento nel quale si fanno una piccola guerra la borghese Caterinetta (Carla del Poggio) e l’aristocratica Mariella (Maria Mercader), trova rifugio un garibaldino ferito (Leonardo Cortese), tra l’altro nobile e segreto fidanzato della seconda. Il fuggiasco viene scoperto quasi immediatamente dalle suore le quali chiamano le milizie borboniche mentre le due giovani aiutano il fuggiasco, riescono ad avvisare Nino Bixio (Vittorio De Sica) che giunge in soccorso a e lo mette in salvo in un epilogo assai confuso e mal orchestrato (l’arrivo del manipolo di garibaldini genera la scomparsa, come per incanto, dello squadrone borbonico). Nella prima parte De Sica si abbandona ai toni abituali della commedia leggera senza ritrovare l’incanto di Teresa Venerdì.
Le numerose macchiette sono inerti, le scaramucce tra la famiglia borghese e quella nobile (essenzialmente tra le due ragazze) sono generiche e ripetitive, il ritmo narrativo è blando mentre l’interprete maschile adotta toni
inutilmente seriosi. Il brillante attore De Sica si è confinato in un piccolo ruolo secondario e ciò contribuisce alla modesta riuscita della pellicola. Nella seconda parte il passaggio ai toni del poema epico-patriottico
stride con l’insieme e si risolve in alcune sequenze di combattimenti in cui traspare soprattutto l’indecisione registica tra commedia giocosa e vero dramma. In riferimento alle coordinate della politica culturale fascista
De Sica ribadisce la prevalente antipatia per le classi nobiliari (lo sciocco governatore borbonico, l’altezzosa famiglia di Mariella) mentre conferma la totale umana sintonia con il mondo popolare qui rappresentato
dall’inserviente Tiepolo (Fausto Guerzoni), generoso cospiratore che segretamente muove l’intera vicenda. Peraltro nella trovata degli uccellini che intonano l’inno di Mameli (canto garibaldino e repubblicano che diverrà l’inno
dell’Italia postbellica) si può forse scorgere un timido accenno di critica al regime in senso antimonarchico all’interno di una pellicola il cui attivismo bellico ed il cui patriottismo interclassista appaiono compiutamente
allineati alle esigenze del fascismo in guerra. Ben altrimenti distaccata ed indolente appariva la cifra umana che permeava l’ “inattuale” Teresa Venerdì.
Renato Castellani nasce nel 1913 a Varigotti (Finale Ligure). Fino al 1925 vive con la famiglia in Argentina, poi a Genova e a Milano dove frequenta il Politecnico. Dopo alcune importanti esperienze all'EIAR
il giovane Castellani finisce, come ufficiale del genio, in Etiopia durante il conflitto (1935-6) dove conosce Camerini e frequenta il set de Il grande appello, film di propaganda sulla guerra in corso e sulla nascita
dell'Impero. Tornato a Milano si laurea in architettura e nel 1938 parte per Roma con la ferma intenzione di divenire un cineasta. Introdotto da Mario Soldati inizia a lavorare come sceneggiatore (scrive per Genina, Blasetti e
Camerini) ed esordisce alla regia con Un colpo di pistola (agosto 1942; 88 min), pellicola romantica e letteraria tratta dall’omonimo testo (Vystrel) di Puskin (il primo dei cinque Racconti di Belkin,
1831). Il lavoro viene presentato alla mostra veneziana in contemporanea con il celebrato affresco antisovietico Noi vivi di Alessandrini (1942; vedi) nei confronti del quale la pellicola di Castellani si pone in netta antitesi.
La vicenda del complicato legame di amicizia e di competizione che lega Andrea (Fosco Giachetti) e Sergio (Antonio Centa), due ufficiali dell’esercito zarista, innamorati della stessa donna, Mascia (Assia Noris), è il
pretesto per mostrare una realtà russa completamente calata nell’ambiente dell’aristocrazia tra imponenti palazzi, balli sontuosi e corse a cavallo. La pellicola, non a caso prodotta dalla “dissidente” Lux Film, sembra voler
rammentare in modo provocatorio a un Italia impegnata sul fronte russo con le armate hitleriane che quell’immenso paese, ora degradato nelle mani del dittatore comunista Stalin, è stato un tempo una realtà magnifica, in nulla
inferiore a quella coeva europea. Così laddove l’oscuro universo di Kira e della poliziesca GPU (in Noi vivi) sembrava lanciare un grido d’aiuto verso superiori civiltà occidentali, il film ispirato a Puskin ricorda
implicitamente che quella cultura è antica e rispettabile quanto le altre. Sviluppando fino all’estremo il discorso sotteso alla narrazione di Castellani, per la verità condotta secondo moduli assai convenzionali e poco
meritevoli di profonde analisi, si giunge a riflettere sulla gratuita, “imperialista” aggressione italotedesca nei confronti di un paese dotato di antiche tradizioni e come tale non riducibile all’immagine che la propaganda
nazista, in modo opportunistico, si ostinava a diffondere ovvero quella di un popolo slavo inferiore e subumano, come tale meritevole di essere ridotto ad appendice coloniale della Germania. Insomma l’operazione
Puskin-Castellani-Lux genera il dubbio nell’Italia fascista e si risolve, all’opposto di quella “garibaldina” desichiana, in un’implicita presa di distanza dalla politica bellica orientale dell’Asse. L’irritata accoglienza
critica di Giuseppe De Santis conferma in modo inconsapevole quando detto sopra. Scrive il futuro autore di Caccia tragica: “Che il pubblico non si lasci ingannare: quelle colonne d’avorio, quei candidi e composti
candelabri altri non sono che la stessa ingigantita proiezione dei bianchi telefoni, tanto a lungo commiserati nel clima borghese del nostro cinema, l’ozio formalistico, intellettuale, pittorico del quale Un colpo di pistola rappresenta certo il documento più schiacciante”. In queste accuse, l’allora schierato De Santis, nemico di un cinema astratto ed accademico, rileva, senza rendersene conto, l’antifascismo implicito nell’operazione: l’Italia borghese e tranquilla dei telefoni bianchi si pone in perfetta continuità con l’universo aristocratico russo; in tal modo si genera un sentimento di simpatia verso l’universo slavo e disconosce la necessità dell’aggressione italotedesca in atto. D’altronde Castellani figurava tra gli sceneggiatori del dittico blasettiano “d’opposizione” ovvero La corona di ferro (un altro film targato Lux) e La cena delle beffe (1941-42; vedi).
In definitiva la scelta stessa di trasporre in immagini un racconto di Puskin suonava come un atto provocatorio. Si ricordi al riguardo l’ “esemplare” condotta staliniana in ambito culturale: nel 1938 esce Aleksandr Nevskij di Ejzenstein, lavoro di netta propaganda antitedesca volta a sensibilizzare le masse russe intorno all’incombente pericolo nazista; negli anni del criminale patto nazisovietico (1939-41) il film viene fatto sparire dalla circolazione mentre nei teatri d’opera russi ritornarono in voga Valchiria e Sigfrido;
esplosa l’immane operazione Barbarossa le partiture wagneriane tornano rapidamente a prendere polvere negli archivi statali e nelle sale conematografiche ricompare la pellicola di Ejzenstein. La seconda collaborazione
Castellani-Lux si muove nel solco della prima. Si tratta di Zazà, fedele trascrizione filmica della omonima commedia (1898) di Pierre Berton e Charles Simon, gia' messa in musica dall’operista Ruggero Leoncavallo (Zazà, 1900) e in immagini da George Cukor (Zazà, 1938).
Il film italiano, girato nel 1943 (visto di censura del maggio1943; 94 min.), uscira' solamente nel marzo 1944. Dopo aver “civettato” con la cultura russa, è ora la volta di quella francoamericana, completando in tal modo il
segreto tributo alle culture in guerra contro il fascismo. Appare evidente che Castellani non si ispira al lavoro melodrammatico di Leoncavallo (nonostante la discreta colonna sonora del futuro operista Nino Rota) bensì,
aiutato per la sceneggiatura da Alberto Moravia (a causa delle leggi razziali non accreditato in quanto ebreo), prende a modello l’elegante cinematografia francese, dando prova di un’evidente maturazione tecnico-espressiva
rispetto alla più deludente prova ispirata a Puskin. I due punti di forza della pellicola sono la magnifica fotografia, morbida e ricca di chiaroscuri che avvolge il dramma amoroso, circondandolo di un’atmosfera
crepuscolare, a tratti barocca e sternbenghiana, e l’ottima prova di Isa Miranda (nel 1939 doveva essere l’interprete della Zazà hollywoodiana di Cukor; un incidente e forse la poca dimestichezza con la lingua inglese avevano
causato la sua sostituzione con Claudette Colbert), attrice misurata e convincente nei panni dell’eroina destinata alla sconfitta amorosa. La vicenda rielabora il consueto triangolo sentimentale che pone l’ingegnere Dufresne
(l’impacciato Antonio Centa) al bivio, incerto tra le tranquille gioie di una situazione familiare (il protagonista vive a Parigi in una lussuosa dimora ed ha una bella bambina, Totò) e l’avventura passionale con Zazà, una
donna che vive nell’ambiguo mondo dello spettacolo e della rivista. Siamo insomma dalle parti della Carmen di Bizet (1875). Le due realtà trovano perfetta raffigurazione nelle antitetiche abitazioni di Zazà e della famiglia Dufresne: la prima oscura, caotica e vitale, la seconda ariosa, piena di luce e di armonioso ordine; l’una dinamica, l’altra statica. La vicenda tuttavia non si sviluppa in tragedia: la cantante, preso atto della situazione dell’innamorato, con estremo dolore si pone in disparte e lo invita a tornare alla sua vita convenzionale, soprattutto per il bene di Totò.
Senza essere un capolavoro, il film di Castellani ripercorre con buon ritmo, belle inquadrature, perfette figure di contorno e intenso calore passionale, la storia inventata da Berton e Simon. La proposta di un testo
letterario francese, appena realizzato a Hollywood (dove era giunto alla terza versione dopo le edizioni del 1915 e del 1923, nell’epoca del muto), è però, nell’Italia stremata del 1943, una nuova, sottile provocazione
antimussoliniana contenuta in una pellicola calligrafica ed estraniata dal doloroso contesto nazionale. Il precipitare degli eventi nell’estate 1943 congela il lavoro che uscirà solo l’anno seguente, passando pressoché
inosservato.
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