Un maledetto imbroglio: un "pasticcio" deludente (1959)
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è il romanzo più noto di Carlo Emilio Gadda: edito in parte (cinque puntate corrispondenti sostanzialmente ai primi sei dei dieci capitoli di cui si compone il testo completo) sulla rivista <Letteratura> nel 1946, viene pubblicato nella versione definitiva presso Garzanti nel 1957. Lo scrittore inizia un avvincente intreccio giallo che poi diluisce e disperde in una infinità di digressioni fino a dimenticarsi dei personaggi iniziali e del mistero della rapina nello stabile di via Merulana e della morte di Liliana Balducci, concludendo con un finale aperto nel quale si limita ad alludere alla probabile colpevole del delitto, senza spiegare compiutamente i moventi dei singoli personaggi. Gadda sembra troppo interessato alle sue bizzarre e spesso imcomprensibili invenzioni linguistiche, calate in un macchinoso periodare che rende tutt'altro che piacevole la lettura del suo celebrato (con qualche esagerazione) testo ambientato a Roma nella primavera del 1927, per preoccuparsi di dare una conclusione adeguata ai molti eventi posti in essere, insinuando nel lettore un sospetto di incompiutezza. L'autore dedica molto spazio alla descrizione della società italiana che sta avviandosi agli entusiasmi fascisti del decennio successivo: un sarcasmo astioso percorre queste pagine il cui radicale antifascismo sembra voler addossare al nascente regime perfino l'ossessione per la maternità della vittima posta in parallelo con la propaganda del regime per la crescita demografica ("Il numero è potenza", Mussolini). D'altro lato quel perdersi in divagazioni e descrizioni degli ambienti popolari e perfino sottoproletari ambisce in fondo a spostare le colpe e le responsabilità dai singoli individui al contesto sociale, secondo i più canonici e opinabili dogmi del materialismo storico.
Pietro Germi, aiutato da Ennio Ce Concini e da Alfredo Giannetti nella stesura della sceneggiatura, trascrive molto liberamente il discusso romanzo: Un maledetto imbroglio (111 min; non a caso il titolo viene
modificato) esce nell'ottobre 1959 riportando un grande successo. Il cineasta genovese, uno degli autori più antiintellettuali del cinema italiano e più insofferenti di fronte alle "avanguardie" artistiche, non poteva
che trasformare totalmente la tela di Gadda in una sceneggiatura tradizionale, un poliziesco attento innanzitutto al plot e ai suoi protagonisti, privo di interesse per gli affreschi sociali; scompare infatti l'ambientazione
fascista (e con essa la ricerca delle "colpe" di un contesto politico-sociale) per una più semplice collocazione delle vicende nella Roma contemporanea. Scompare anche il carattere divagatorio del testo gaddiano per
una costruzione stringente e relativamente efficace, degna di un cultore del poliziesco della prima ora qual’era il cineasta genovese (Il testimone [1945], Gioventù perduta [1947] ecc.). Il disegno dei personaggi però diviene più schematico e banale: molte delle figure umanamente complesse di Gadda quali il cugino Valdarena, il marito della vittima e la vicina di casa vedova Menegazzi (eliminata e sostituita con un "pittoresco" gay) si trasformano in artificiosi esemplari dell'avidità e della grettezza di una classe media descritta con una vena polemica sorprendente nel generalmente equilibrato regista (particolarmente rozza risulta la stereotipata figura dell'omosessuale). Solo il burbero commissario Ingravallo e paradossalmente l'ingenua (ma anche in una certa misura complice del delitto) Assuntina risplendono allora di profonda umanità in un simile desolato panorama. Di fronte a questa grossolana schematizzazione, la quale prelude a stilemi e figure della commedia all'italiana del decennio successivo, si rimpiangono perfino le prolisse divagazione di Gadda.
La pellicola si snoda veloce, organizzando i molti, forse troppi avvenimenti, intorno alla figura del commissario Ingravallo (Pietro Germi) il cui atteggiamento aspro e moralistico appare spesso
costruito e poco spontaneo, anche a causa della recitazione sovraccarica e schizofrenica (un continuo trapassare da violente collere ad atteggiamenti melliflui e accomodanti) dell'attore-regista. Privo di sezioni interne, il
racconto accumula fatti, atteggiamenti e colpi di scena che si intersecano l'un l'altro, avendo gli uffici della squadra mobile quale centro ideale. Più volte infatti tutto si riduce a interminabili sequele di interrogatori e
dialoghi in interni i quali, con la loro scarsa incisività, sembrano anticipare i futuri, mediocri sceneggiati polizieschi televisivi. Né il registro della commedia, inserito all'interno del turpe catalogo di misfatti, risulta
godibile, limitandosi da un lato alla illustrazione di una serie di penose inefficienze di un risibile personale di pubblica sicurezza, dall'altro a un mosaico di dozzinali caricature del sottobosco di piccoli malfattori e di
goffi omosessuali. Né gli esiti sarcastici ed esilaranti di Divorzio all'italiana (1961) e di Signore e signori (1966) sono intuibili in questa galleria di
imbarazzanti freddure. Piuttosto che a una felice fusione di dramma poliziesco e commedia, assistiamo all'intrusione di un inopportuno macchiettismo (esemplare in tal senso la sequenza nella taverna a Marino, con i suoi
popolani da cartolina) entro il quadro di un dramma plumbeo, nobilitato soprattutto dalla bella colonna sonora di Carlo Rustichelli. Dunque è il tormentato imbroglio quello che mantiene desta l'attenzione e che in definitiva
incanta nell'exploit della magnifica sequenza conclusiva, un momento alto, purtroppo isolato, nel quale l'amore del cineasta per gli umili e per i semplici trova finalmente un adeguato lirismo: Assuntina (Claudia Cardinale)
porta scritta nella corrucciata mimica la complicità della colpa con l'amato sposo e sciagurato assassino Diomede (Nino castelnuovo), il quale pure, nonostante il suo delitto, gode di qualche simpatia a causa del suo essere un
"miserabile". In questa sintonia con il popolo consiste l'unico punto di contatto tra la complicata prosa gaddiana e la sbrigativa realizzazione di Germi. La giovane serva dei Banducci (incomprensibile la modifica
degli sceneggiatori di Balducci in Banducci: la spesso citata assonanza di Banducci con banditi appare una spiegazione alquanto sciocca) rappresenta l'unico elemento di incorrotta purezza nella galleria di squallide figure di
cui gli sceneggiatori hanno popolato il film e come tale risalta nella sequenza finale; così la solare e popolaresca canzone "Sinnò me moro" (cantata da Alida Chelli) funziona come leitmotiv della ragazza,
esaltandone la funzione di unico polo positivo (anticipando un altro isolato e indimenticabile momento di radiosa purezza, la figura "angelica" de La dolce vita, posta anch'essa nel momento conclusivo del
capolavoro felliniano) mentre l'oscuro e insinuante tema orchestrale che si inerpica verso l'alto, generato da una monotona serie di accordi, è la migliore pittura della grettezza dei Valdarena e dei Remo Banducci: in fondo le
cose migliori vengono dette proprio dalla musica e dal suo abbinarsi allo scenario di una Roma piovosa e grigia. Al contrario lo sviluppo fattuale, in genere assai lodato, manifesta un dubbio gusto e una ricerca
dell'effetto facile e inverosimile: il ladro Diomede, nei ritagli di tempo, soddisfa a pagamento turiste "stagionate"; Valdarena, l'affascinante e vacuo cugino della vittima, si è trasformato in un perfido
ricattatore; il corrucciato marito in un seduttore di giovinette; il punto più basso lo si tocca con la perquisizione nella casa ove è nascosta la sedicenne Virginia, amante di Remo, la quale viene trovata addirittura a letto
con Valdarena: il tentativo di descrivere una società corrotta ("E' come in campagna quando smuovi un sasso e sotto ci trovi i vermi" afferma disgustato Ingravallo, ma la battuta è infelice e greve) appare dunque
forzato e sfiora qui il ridicolo. Soprattutto stupisce il fatto che Germi e i suoi due sceneggiatori abbiano eliminato l'elemento più originale della trama di Gadda: l'ossessivo desiderio di maternità della vittima, il suo
vampiresco strumentalizzare giovani e misere serve, indirizzandole verso una maternità "su commissione" (ad opera del bel Giuliano [Massimo nel film] Valdarena), probabile motivo ultimo della sua sanguinosa morte.
Questo agghiacciante e realistico tema dell'oro (lo scrittore aveva in precedenza steso una propria sceneggiatura intitolandola appunto Il palazzo degli ori) che compra e crea ogni cosa, perfino un figlio altrimenti
impossibile, tematica tipicamente antiborghese (di una borghesia che, oltretutto, si è "data" al fascismo) occupa il centro della tela gaddiana e viene inspiegabilemnte cassato dal regista che gli preferisce la
sopracitata galleria di dozzinali nefandezze. Ciò che rimane nella memoria in questa pellicola poco meditata che fa rimpiangere le sottigliezze del Testimone (1946) dell'esordiente Germi, è soprattutto la sequenza
conclusiva di stampo meramente meolodrammatico: l'amarezza del commissario costretto a privare Assuntina incinta del marito; il complesso flashback con il raptus omicida del terrorizzato Diomede; la corsa finale di Assuntina in
mezzo alla polvere, inseguendo inutilmente le auto della polizia che le stanno portando via il marito, immagini queste ultime che riportano alla memoria la celebre e altrettando drammatica corsa della Magnani in Roma città aperta.
Come spesso accade il cinema italiano trova i suoi momenti più ispirati in un suggestivo impasto di suoni e gesti estremi che discende direttamente dalla gloriosa tradizione del teatro lirico.
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