Margherita da Cortona, Vent'anni e Il caimano del Piave

Margherita da Cortona, Vent’anni, Cuori sul mare, Il caimano del Piave e Canzone di primavera: resistendo alla “luci” della modernità (1950-51)

                “Se i quattrini devono servire per togliersi i figli di torno preferisco restare una poveraccio come         sono.
                Che vuoi che ci sia di più bello che potersi spupazzare un marmocchietto, tirartelo su come ti pare
                Iris in Vent’anni

Mario Bonnard, uno dei più rilevanti e dei meno studiati autori degli anni quaranta, esordisce nel nuovo decennio con la pregevole Margherita da Cortona (febbraio, 1950; 110 min.), biografia sostanzialmente fedele della santa (1247-97) che visse tra Laviano, Montepulciano e Cortona, sceneggiata dal regista con Cesare Ludovici, Nino Scolaro ed Edoardo Lulli.
La giovanissima Margherita (un’ottima Maria Frau) vive con il padre, un onesto allevatore di pecore, e la matrigna Lucia (Isa Pola) che la maltratta in quanto vede in lei una temibile rivale. Infatti il vigoroso amante di quest’ultima (un energico mario Pisu) sembra preferire la ragazza e la corteggia inutilmente. Intanto il nobile Arsenio Dal Monte (Galeazzo Benti) se ne innamora e la porta a vivere con sè, a Montepulciano. La coppia dà scandalo: il giovane non può sposarla poiché ella non appartiene alla sua classe sociale; il padre di lui lo caccia di casa, il padre di lei la disconosce. Intorno alla coppia cresce il generale malcontento che sfocia nell’omicidio di Arsenio ad opera dell’amante di Lucia, commissionato da un nobile nemico di Arsenio. A quel punto Margherita, cacciata da tutti e quasi linciata dai popolani, ha una visione mistica, si converte a una vita di misericordia e di penitenza, aiuta gli ammalati (intanto è scoppiata la peste) e viene infine accolta nell’ordine dei francescani. Verrà santificata da Benedetto XIII nel 1728.
Pellicola di grande eleganza visiva, segnata da magnifiche immagini che ricordano l’austera autonomia visiva del cinema muto e commentata da un’ottima colonna sonora di matrice operistica composta da Giulio Bonnard (fratello di Mario), Margherita da Cortona si inserisce in quella minoritaria corrente del cinema conservatore che cerca di raccontare un’Italia cattolica e tradizionale nella quale amore di Dio significa amore per il prossimo in un universo di razionale concordia e di rifiuto delle passioni più basse e meschine. E’ l’Italia di Cielo sulla palude (Genina, 1949), Fabiola (Blasetti, 1949) come pure del recente, bellissimo La città dolente di Bonnard (1949) o di Vent’anni (Bianchi, 1950), tutte opere che, sebbene svalutate o snobbate dalla critica progressista, testimoniano ancora, a distanza di numerosi decenni, l’opzione possibile per una differente concezione del reale.
La sfortunata Margherita cede onestamente all’amore di Arsenio, tuttavia la sua condotta irregolare genera scandalo e disordine (le numerose morti che si succedono ne sono logica conseguenza; tra l’altro la vera Magherita ebbe anche un figlio dall’amante, evento eliminato dalla narrazione filmica) e, sebbene essa possa venire scusata su basi essenzialmente emotive e sentimentali (potrebbe divenire adirittura esemplare ed “eroica” nella concezione astrattamente ugualitaria del reale), nel racconto di Bonnard e soci rimane un fatto equivoco e foriero di inutili sofferenze. Non ci si abbandona dunque al consueto, sciocco sentimentalismo che tutto giustifica, bensì si esaminano i fatti nella loro completezza, fatti che sfociano nella catarsi mistica con cui Margherita comprende i suoi errori e si pente, offrendo la propria esistenza a Dio e agli altri, divenendo insomma un modello di nobile altruismo.
La grandezza della giovane viene sottolineata da immagini di accesa bellezza nelle quali il suo sereno volto è sempre illuminato da una luce radiosa e ottimistica. Intorno a lei inquadrature di grande compostezza, ispirate alla pittura sacra come pure alle composizioni visive del migliore cinema muto, generano un’opera di severa bellezza.
Nella parte finale - intrisa di misticismo - compare anche il santuario neogotico, costruito a Cortona nella seconda metà dell’Ottocento, in memoria della santa, nel quale si trovano i suoi resti terreni. Sebbene si tratti di un evidente anacronismo, l’immagine che ritrae in lontananza, in un campo lungo, la donna al cospetto della severa facciata della chiesa offre un momento di intensa suggestione.

Giorgio Bianchi si affaccia al nuovo decennio con Vent’anni (aprile 1950; 95 min.), un pregevole film, di cui firma la sceneggiatura con Cesare Zavattini e altri, nel quale avviene una curiosa commistione. Il soggetto di Aldo De Benedetti risale a Il signore desidera?, una pellicola del 1933 girata da Gennaro Righelli e interpretata da Vittorio De Sica, mentre i personaggi vengono ripresi dal recente, mediocre Sotto il sole di Roma (Castellani, 1948; vedi); infine la vicenda ricalca quella del modesto Cronaca nera (Bianchi, 1947; vedi) in quanto anche ora si racconta la vicenda di un malvivente redento dall’amore. Inoltre Vent’anni partecipa dell’atmosfera post “neorealista” in quanto utilizza attori non professionisti (gli stessi del film di Castellani il quale intendeva proprio nserirsi nella corrente cinematografica inaugurata da Rossellini, De Santis e De Sica) ed evita dunque le banali imitazioni del noir americano e francese che avevano affossato Cronaca nera. Da questo complicato intreccio di riferimenti nasce tuttavia un film completamente autonomo il quale offre allo spettatore una coraggiosa favola nella quale i valori della Tradizione prevalgono largamente sulle tentazioni moderniste e sul giustificazionismo marxista.
Ciro (Oscar Blando) e Geppo (Francesco Golisano) sono ancora due piccoli truffatori che però ora meditano il colpo in grande stile. Ciro ha messo gli occhi sulla cassaforte dei grandi magazzini e per infiltrarsi nell’ambiente fa la corte a Iris (Liliana Mancini), una bella commessa cattolica e virtuosa. Il ragazzo entra nelle simpatie di un burbero vigilante (Checco Durante), dotato di pizzetto alla Balbo, il quale fa di tutto per aiutare i due giovani: ne caldeggia il fidanzamento, fa assumere il giovane come facchino e infine lo promuove ad autista. Insomma il mondo dei borgatari senza morale, pronti a fregare tutto e tutti pur di guadagnare qualche sommetta e di tirare a campare senza lavorare (in tal senso diverranno gli “eroi” dell’universo pasoliniano), si scontra con quello della Tradizione più rigida: una guardia formatasi sotto il fascismo, la brillante nonna di Iris che si giadagna da vivere ricamando preziosi abiti per la chiesa e Iris decisa a creare un’onesta famiglia che possa renderla madre felice, in grado cioé di lasciare il posto di commessa per potere seguire personalmente l’educazione dei propri figli. In tal senso si esprime anche la paterna guardia confidando a Ciro che il posto di commessa non è cosa per Iris (“troppo lavoro per quattro soldi”).
L’immagine che esce vincente da questo reticolo di riferimenti culturali è dunque quello della donna innanzitutto madre e sposa, la quale lavora per necessità ma che, entrando in una dimensione più alta per il tramite del matrimonio, si risolve a lasciare quella forma di implicita schiavitù costituita dal lavoro salariato. L’elogio che la protagonista tesse del “lavoro” di madre è quanto di più sensato e oggi - in un’epoca in cui i figli vengono felicemente scaricati in ogni tipo di istituzioni aliena (scuola e doposcuola, attività pseudoculturali e sportive, oratori) approntate all’uopo da un sistema vorace, ansioso di mantenere le donne nel circuito produttivo - totalmente inattuale. In tal senso il film - evidentemente debitore di una visione sociale tipica degli anni del fascismo alleato del cattolicesimo - finisce col riproporre in modo coraggiosamente anacronistico personaggi e valori egemoni nel 1933 (il soggetto originale di Aldo De Benedetti) nel contesto del nascente consumismo postbellico. Mentre viene affacciandosi con forza l’idea pseudofemminsita della donna che lavora (o meglio asservita alle esigenze del grande capitale), Bianchi ripropone la tesi antica e “liberatoria” della donna esclusivamente dedita alle cose domestiche. Non a caso il film è ambientato tra le luci fatue di una grande magazzino pieno di merci, luci che all’inizio della narrazione ipnotizzano Ciro, facendogli desiderare quei mazzi di banconote che osserva transitare dai singoli stand verso la cassaforte centrale.
Al mondo delle “luci” impalpabili e vanesie si contrappone quello delle “anime benedette” continuamente invocate dalla simpatica e devotissima nonna di Iris: ogni disgrazia viene accolta da quest’ultima come passeggera in quanto le suddette anime provvederanno rapidamente a risolvere ogni ostacolo che tende a frapporsi all’unione dei fidanzati. Così lentamente Ciro, da finto fidanzato e rapinatore in pectore si trasforma in vero innamorato che addirittura si reca con convinzione a processioni religiose in compagnia di Iris e della immancabile nonna. Quando infine la situazione sembra precipitare (la vittima di un furto riconosce Ciro e sembra deciso a volerlo denunciare ai carabinieri) e il ragazzo soggiace nuovamente alla tentazione del male, le famose “anime benedette” lo aiutano: anziché rubare, sventa un furto, ottiene lodi e ricompense dai dirigenti del grande magazzino e viene perdonato dalla vittima del furto.
Girato con ottimo senso del ritmo in esterni reali (a Roma), Vent’anni rimanda alla poetica neorealista capovolgendola nei suoi valori fondanti. I riferimenti tra l’altro sono tutti espliciti: i protagonisti, affidati ad attori presi dalla strada, derivano dalla desolata pellicola di Castellani ai quali si affianca perfino Lamberto Maggiorani (il noto protagonista di Ladri di biciclette; 1948) in un ruolo secondario. Esplicite sono poi le citazioni dal celebre film di De Sica sia nelle sequenze in cui i personaggi, non fidandosi a lasciare la bicicletta in strada, se la trascinano al collo fin dentro gli appartamenti, sia nel brevissimo episodio di un ladro inseguito da una folla urlante (evidente ispirato al finale di Ladri di biciclette). Tutto ciò però non approda alla consueta narrazione pessimista e antisistema, volta a generare insoddisfazione e desiderio di cambiamento (ovvero volta a spostare il voto politico degli spettatori verso sinistra). Al contrario Giorgio Bianchi cerca di dimostrare che la Provvidenza aiuta coloro che - abbandonate le inutili lagne e gli atteggiamenti disfattisti - si mettono per la retta via. Non diventeranno ricchi (ma quella della ricchezza è in fondo una paranoia da fanatici, siano essi onesti industriali o abili rapinatori) ma troveranno un armonico equilibrio che donerà loro la possibilità di un’esistenza felice. Nel fondale la tradizione cattolica, vissuta con un pizzico di ironia (la nonna prova il solenne copricapo di un vescovo, intessuto di oro, allo scalcagnato Geppo), costituisce l’utile bastione di difesa nei confronti di un accecante produttivismo in ascesa.
False “luci” sono in agguato anche nel più modesto Cuori sul mare (novembre 1950; 95 min.) nel quale Bianchi, svolgendo un soggetto di Nicola Morabito e Golfiero Colonna (sceneggiato tra gli altri da Oreste Biancoli, autore del propagandistico Piccolo alpino, 1940) guarda nuovamente indietro e riprende il cinema cameratesco - soprattutto quello di De Robertis - tipico dei primi anni quaranta. In particolare la vicenda appare ricalcata su quella del mediocre I tre aquilotti (1942) di Mattoli, il quale partiva nientemeno che da un soggetto di Vittorio Mussolini. In entrambi i film si parla di una scuola militare (areonautica allora, navale oggi), dello spirito di corpo che vi aleggia, di tre amici due dei quali in lite per questioni amorose, il terzo invece angustiato da insicurezze personali.
All’Accademia navale di Livorno tre allievi - amici quasi inseparabili - sono tormentati dal dubbio. Massimo (Marcello Mastroianni) non sente la vocazione in quanto impostagli soprattutto dal ricco padre; Paolo (Jacques Sernas), figlio di un importante, integerrimo ammiraglio (Gualtiero Tumiati) ora a riposo (si intuisce a causa dell’epurazione postfascista), si perde dietro a una stellina del cinema (l’americana Doris Dowling, reduce da Riso amaro) per la quale sta quasi per mandare a monte tutto (carriera e fidanzamento con la più affidabile Fioretta alias Milly Vitale); Leone (Paolo Panelli) più semplicemente soffre di vertigini e teme di non riuscire a superare le prove più difficili del corso. Su tutti veglia il paterno nostromo Norus (un ottimo Charles Vanel). Inutile dire che dopo agitate peripezie - alquanto inverosimili e tutt’altro che coinvolgenti - tutto si aggiusta nello zuccheroso e retorico finale. I valori della Tradizione insomma trionfano (come nel precedente Vent’anni) ma, questa volta, seguendo un tracciato artificioso e meccanico. Le fatue attrazioni del mondo dello spettacolo e perfino del mito americano (impersonato dalla Dowling) alla fine non fanno presa e i valori della vita militare, dell’abnegazione, del lavoro duro e costante e della famiglia vengono elogiati - un po’ come accadeva nei film dell’epoca fascista - ma il contesto poco credibile annulla la consistenza dell’opera. Peccato poiché nei primi anni cinquanta, film con questa impostazione ideale tendono ormai a scarseggiare. Né appare casuale che Cuori sul mare sia stato prodotto dalla statale Cines, controllata da settori politici di area governativa. 
Rimane indubbiamente valida tutta la parte “documentaristica”, quella cioé in cui si descrive la vita quotidiana delle reclute, il loro addestramento in mare su piccole e grandi imbarcazioni. Come nel cinema di De Robertis, in fondo è questa dimensione corale l’unica a risultare realmente interessante e vitale anche a distanza di oltre mezzo secolo. Per il resto tutto scorre prevedibile. Anche lo stile visivo è piuttosto impersonale mentre la colonna sonora di Enzo Masetti, memore della scrittura operistica, offre un contrappunto vivace e saltellante alle immagini. In ogni caso il film ottiene un discreto successo commerciale la qual cosa spinge gli autori a proseguire il proprio discorso ideale.
Così il successivo Il caimano del Piave (marzo 1951; 95 min.) accentua le tematiche patriottiche secondo uno schema narrativo che in parte ricalca Il piccolo alpino (Biancoli, 1940). Possiamo quindi considerare innanzitutto Oreste Biancoli (uno dei tre autori del soggetto e della sceneggiatura) quale ideatore della romanzesca vicenda mentre va ricordato che per entrambi i film Giorgio Bianchi si limita a firmare la regia (ovvero a creare le immagini entro un percorso stabilito da altri).
A San Donà di Piave (una trentina di chilometri a est di Venezia) tra il 1914 e il 1918 Lucilla Torrebruna (ancora Milly Vitale) è il perno di una complicata storia, dapprima solo sentimentale, poi bellica e nel finale perfino spionistica. La ragazza benestante, figlia di un austero colonnello (Gino Cervi), si innamora di Franco (Frank Latimore), un compagno di scuola di origini modeste e per di più residente nell’austriaca Trieste. La giovane - parente stretta della Iris di Vent’anni e della Fioretta di Cuori sul mare - interpreta lo stereotipo della ragazza semplice e volitiva, affezionata all’umile mondo contadino (rappresentato dalla commovente figura del contadino zoppo Ciampin alias Francesco Golisano), insensibile a titoli e ricchezze (snobba un ricco spasimante, figlio di un senatore) e attenta al valore umano delle persone: insomma Lucilla perpetua, nel cinema dei primi anni cinquanta, i modelli etici del cinema di un decennio prima.
Scoppia la guerra. Il colonnello si ritrova tra i sottoposti Franco, fuggito da Trieste per combattere tra le file italiane (così come il “piccolo alpino” era fuggito da casa per unirsi agli alpini, nelle trincee del Veneto in guerra). Tra i due si stabilisce un virile sodalizio e - dopo il trauma di Caporetto - la coppia opera per i servizi segreti militari: l’uno si traveste da contadino e si infiltra tra le file nemiche per raccogliere informazioni; l’altro, abile nuotatore, di notte varca il Piave (spartiacque tra i due eserciti), raggiunge il colonnello, prende in consegna gli importanti documenti e torna alla base.
La villa dei Torrebruna intanto è stata requisita dagli Austriaci ed è diventata quartier generale del nemico. La seconda moglie del colonnello, l’odiosa Hélène (Ludmilla Dudarova), ha accolto il nemico a braccia aperte, rivelando di essere nient’altro che una spia. L’intreccio si fa allora serrato e ricco di colpi di scena, tanto intriganti quanto inverosimili: il colonnello viene ucciso nella villa; la figlia prosegue il lavoro del padre ma, scoperta, sta per essere fucilata, quando un manipolo di arditi, guidati da Franco, varca il fiume e giunge appena in tempo per salvarla. E’ iniziata l’ultima fase della guerra italiana, fase vittoriosa che termina a Vittorio Veneto.
La pellicola di Bianchi - Biancoli inizia come un affresco della società contadina sul Piave per poi spingersi verso il melodramma puro (la colonna sonora di Enzo Masetti si muove - nuovamente - nell’ambito del sinfonismo mascagnano): i caratteri, per quanto monocordi, mettono in scena l’appassionante conflitto tra la brutalità dei modi austriaci e la disperata lotta dei “resistenti”, dopo la disfatta di Caporetto. In tal senso il film costituisce un’operazione politica fortemente polemica nei confronti delle coeve ideologie egemoni, nate nel solco della Resistenza e del neorealismo. Senza alzare la voce, senza fare esplicite allusioni, gli autori raccontano un’altra storia rispetto a quelle inerenti al recente conflitto e soprattutto a quelle riguardanti la Resistenza, tanto esaltata da Rossellini, Visconti e De Santis. Non a caso Biancoli (ma ci sono anche Fulvio Palmieri e Fabrizio Sarazani) decide di ambientare la propria vicenda nel lontano 1915-18 (cosa che gli viene puntualmente rimproverata dalla critica cinematografica dell’epoca, che - oltre a stroncare il film - didatticamente gli ricorda che vi sono esempi di eroismo più recenti da rievocare) proprio per poter raccontare una storia che è puramente militare e spionistica e nella quale gli italiani finiti sotto il giogo del nemico (dopo Caporetto gli Austriaci hanno sfondato le linee, sono entrati in Veneto e si sono attestati sulla sponda sinistra del Piave) “si limitano” - a rischio della propria vita - a raccogliere informazioni utili per l’esercito italiano che si prepara alla controffensiva, al di là del fiume. Quei “resistenti” insomma non mettono bombe agli angoli delle strade - col rischio di ammazzare civili inermi e di innescare feroci decimazioni a danno di innocenti - bensì combattono singolarmente per aiutare, come possono, lo sforzo bellico il quale rimane (come dovrebbe sempre essere) rigidamente affidato agli eserciti.
Il Caimano del Piave insomma polemizza garbatamente (per chi ha voglia di intendere) e infatti solleva l’infastidita reazione di larga parte della critica militante la quale snobba il film (tuttora pressoché invisibile). D’altronde anche il bellicoso finale risulta (per alcuni) piuttosto indigesto: il reparto guidato da Franco (appunto i Caimani de Piave) è un reparto di Arditi e - come tutti sanno - gli Arditi confluiranno massicciamente nelle avventure fiumane di D’Annunzio e poi nella rivoluzione fascista dell’ottobre 1922. Vederli sopraggiungere quali salvatori della patria, alla maniera hollywoodiana di un “settimo cavalleggeri”, deve avere provocato un profondo fastidio nei settori “neorealisti” della cinematografia italiana dell’epoca.
Inoltre la pellicola, nel rievocare il sanguinoso cammino che ha portato alla acquisizione di Trento e Trieste, possiede anche riferimenti di stretta attualità che oggi risultano poco evidenti per coloro che non ricordano il travagliato contesto storico dei primi anni cinquanta: il fim insomma intendeva anche ricordare l’ambigua situazione che sta vivendo il capoluogo friulano, non ancora restituito all’amministrazione italiana e sul quale accampava pretese il confinante regime di Tito (la restituzione si avrà solo nel 1954 con l’accordo di Roma, poi reso definitivo dal trattato di Osimo del 1975). Dunque, a suo modo, Il caimano del Piave porta un proprio contributo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica italiana, contributo anche sostanzioso considerando il grande successo popolare del film di Bianchi.
In ogni caso non per forza bisogna condividere l’ottica interventista del film: va ricordato infatti che la scelta del maggio 1915, fu il frutto di abili alchimie politiche, che la maggioranza degli Italiani era allora neutralista e che c’erano altre opzioni possibili oltre a quella delle armi. Dall’ottica odierna (per quello che vale un discorso a posteriori) - nel contesto dell’Europa unita - quei milioni di morti “spesi” per annettere le regioni di Trento e Trieste (con in più l’Alto Adige assai poco italiano e in seguito fonte di un legittimo irredentismo rovesciato e di numerosi episodi terroristici a partire dalla metà degli anni cinquanta) appaiono un terrificante spreco di umanità.
Al di là delle complesse discussioni storiche, Il caimano del Piave è una pellicola che - nel suo insieme (come le due precedenti di Bianchi, testé commentate) - abbraccia la visione tradizionale del mondo: l’amore per la propria terra, il proprio lavoro e la propria identità nazionale, l’ambizione al matrimonio quale momento di realizzazione totale in quanto finalizzato alla procreazione e il rifiuto per ogni forma di basso edonismo costituiscono l’orizzonte ideale di tutti i personaggi positivi che gravitano intorno a Lucilla. Sul Piave le fatue luci appaiono solo in lontananza - nelle vesti della subdola Hélène - e vengono stigmatizzate con veemenza: quella donna, in quanto spia asburgica, è l’emblema stesso della falsità e della rovina materiale e morale; il colonnello, che le ha ceduto, è infatti destinato a morire.
La mancata valorizzazione (potremmo anzi parlare di sua totale rimozione) di questa pellicola da parte degli storici del cinema è tanto più grave in quanto Il caimano del Piave fu un grande successo popolare nel 1951, successo assai comprensibile poiché il film riusciva a sviluppare differenti tematiche - sentimentali, belliche e spionistiche - legandole le une alle altre con grande abilità in un intreccio che correva serrato e travolgente verso il liberatorio finale nel quale, coraggiosamente, le lacrime si univano ai gioiosi suoni delle campane: la terribile morte di Ciampin (ucciso dagli Austriaci), dopo quella del colonnello, viene rivelata proprio nelle ultime immagini ai disperati genitori del giovane cosicché i festeggiamenti conclusivi si legano a momenti di struggente dolore, in una miscela di verità che fa perdonare alcune svolte narrative troppo fumettistiche. La vittoria è stata conseguita, ma a caro prezzo.

L’infatuazione per un mondo dello spettacolo egemonizzato dai capitali e dalle maestranze americani, già presente in Cuori sul mare, diviene centrale in Canzone di primavera. In entrambi i casi gli effetti prospettati appaiono devastanti.
Mario Costa, nato a Roma nel 1904, lavora nel mondo del cinema fin dagli anni trenta ricoprendo differenti mansioni. Esordisce come regista nel 1943 e nella seconda metà del decennio gira soprattutto film operistici. Canzone di primavera (marzo 1951, 90 min.) si ricollega alle precedenti pellicole musicali nella misura in cui pone al centro della narrazione Mario, uno squattrinato compositore (Leonardo Cortese) in cerca di fortuna, fidanzato con Rosetta (un’ottima Delia Scala) la nipote di un oste (Checco Durante) il quale però medita di darla in sposa a un ricco imprenditore. Le creazioni del protagonista sembrano non avere mercato e questi, timoroso di perdere la fidanzata e di venire sfrattato dalla padrona di casa, corteggia Evi, una diva (Tamara Lees) del cinema giunta dall’America. Il gioco riesce fin troppo bene: ne diventa l’amante, ottiene contratti per colonne sonore, entra nel “gran mondo” e si appresta a partire per Hollywood mentre la disperata Rosetta si consuma fino a tentare il suicidio. Nel finale il dramma si stempera ad arte: l’attrice si rivela una volgare avventuriera e il giovane corre al capezzale della fidanzata.
La traccia narrativa (la sceneggiatura è del regista coadiuvato da Fulvio Palmieri - lo stesso del Caimano - e Paolo Salviucci), ricalcata sugli schemi del melodramma, sembra destinare la pellicola a un pubblico sentimentale e in cerca di facili emozioni, pubblico che peraltro saluta calorosamente il film. Una sguardo più attento però fa scoprire una serie di importanti tematiche trattate in modo tutt’altro che superficiale.
Innanzitutto c’è un compositore che non trova lavoro; ha studiato in Conservatorio e si ostina a comporre in modo relativamente “serio”, senza venire preso in considerazione. Costa sembra così intuire e indicare con precisione la fine della grande tradizione italiana del melodramma e della musica. In numerosi dialoghi si ricorda che l’Italia dovrebbe essere il paese della musica (lo è stato per secoli, esempio ineguagliato di seducente creatività sonora) e che invece ora l’avere studiato contrappunto e il sapere comporre è un mestiere diventato di colpo inutile. Solo intrecciando un’ambigua relazione amorosa con una diva americana Mario può farsi valere e venire accolto nel novero degli artisti, sebbene da altre informazioni capiamo che il protagonista è un musicista di talento (alcuni produttori fingono disinteresse, si impossessano dei suoi lavori e li fanno storpiare da mestieranti per non pagarglieli). Ecco dunque una prima importante intuizione (poi, purtroppo, confermata dagli eventi): il dopoguerra - ossia l’inizio dell’invasione culturale americana - segna la fine della tradizione musicale italiana.
Non può essere casuale inoltre il fatto che l’amante sia una diva della canzone americana. Giunta dagli Usa, portata da un simpatico amico (un bravissimo Aroldo Tieri) a visitare Roma (occasione per sequenze “turistiche” ma anche per ricordare l’antica tradizione italiana e la sua difficile compatibilità con la mentalità sempliciotta e arraffona degli americani), ella seduce con modi diretti e quasi autoritari Mario il quale soccombe all’esuberanza della donna. Nel convenzionale dramma che segue, vi sono implicite riflessioni di grande significato: la diva porta con sè la modernità americana, l’edonismo di chi vuole tutto vedere, consumare e possedere laddove Rosetta costituisce la fanciulla votata a un futuro di certezze familiari (si ripetono insomma caratteri e situazioni di Cuori sul mare). In numerosi dialoghi appare evidente che il matrimonio significa per quest’ultima finalmente il potersi dedicare in modo esclusivo alla famiglia (ora lavora in una sartoria) e per questo viene invidiata dalle amiche (esattamente l’opposto della prevalente figura femminile odierna). Rosetta rappresenta dunque la Tradizione e l’esatto contrario della mentalità modernista (esemplificata nella diva) in cui la donna si consuma nel lavoro, non possiede una vera famiglia e vive di gioie effimere. Lo spiega meglio di tutti la padrona di casa di Mario, una briosa ex attrice di rivista che racconta con malinconia il fatto di avere sprecato il suo tempo sui palcoscenici e di essere ora una donna sola, senza figli e con un libro di ritagli dei bei tempi passati che prima o poi butterà nel fuoco. La “predica”, rivolta a Mario, non sortisce però alcun effetto.
Il regista dunque illustra con acume, attraverso una ricca polifonia di voci, il passaggio dalla tradizione alla modernità, guardando a quest’ultima con sospetto e con irritazione. Come nell’ultima stagione del cinema fascista, egli permea il racconto di una vena di sarcasmo antiborghese (peraltro evidente anche nel recente Domenica d’agosto, Emmer, 1950) e dipinge tutto l’universo della diva, nella quale è stato fagocitato il semplice Mario, con esplicita antipatia. Quest’ultimo “si salva” in extremis (dopo che Claudio Villa ha intonato la canzone del titolo, composta dal protagonista e premiata a un importante concorso popolare) per merito del gesto radicale di Rosetta.
Anche l’atteggiamento “antiromantico” dello zio della ragazza, deciso a farla sposare con un ragazzo benestante, si muove nell’alveo delle antiche usanze volte a garantire un futuro sicuro alle giovani mogli e future madri e la figura è dipinta con piena comprensione da parte dell’autore, grazie soprattutto a un incisivo “duetto” durante il quale l’uomo spiega con sincerità le sue preoccupazioni a Rosetta.
Canzone di primavera contiene dunque elementi di interesse che travalicano il semplice canovaccio; né è casuale che a tratti sembra di intravedere, in questa pellicola ingiustamente dimenticata, alcuni personaggi e alcune situazioni del capolavoro felliniano di un decennio dopo: la diva americana, la visita ai monumenti e ai nightclub di Roma, l’universo fatuo del cinema, il protagonista che lascia la fidanzata “tradizionalista” per la straniera di successo, il tentativo di suicidio. Il film di Costa (certamente noto a Fellini o ai suoi collaboratori) ritrae dunque “la dolve vita” al suo nascere e lo fa da un’ottica allo stesso tempo meno compiacente e meno poetica.