Luna di miele, Violette nei capelli, Se io fossi onesto, Non ti pago!, Casanova farebbe così, Fuga a due voci, La vita è bella, La fidanzata di mio padre, Tutta una vita in ventiquattr’ore, Dove andiamo
signora?, Il ponte sull’infinito, Acque di primavera, In due si soffre meglio, Canal Grande, Non mi muovo!, Silenzio: si gira!, Senza una donna, Apparizione e Il fiore sotto gli occhi: modernità e tradizione (1941-43)
“Nascono nel periodo 1930-38 cinque tra le più importanti riviste femminili, che continueranno nel dopoguerra (Rakam, Annabella,
Eva, Gioia, Grazia) e alcune delle quali esistono ancora oggi. In tali riviste si riscontra la compresenza degli elementi reazionari e di quelli progressisti nella politica fascista verso le donne”
Luisa Passerini, Donne, consumo e cultura di massa (1992)
Nel suo quinto film, Luna di miele
(nov 1941; 95 min.) Giacomo Gentilomo racconta una storiella (sceneggiata con Mino Caudana ed altri) alquanto prevedibile nella quale, tuttavia, si affacciano riflessioni e idee tutt’altro che scontate. Mario (Aldo
Fiorello), giovanotto ricco, viziato e nullafacente, sposa la sartina Nicoletta (Assia Noris). Lo zio (Luigi Cimara) taglia loro i viveri e la donna decide di cercare un impiego, contro il parere del marito. Diventa rapidamente
disegnatrice in una casa di mode, ma per ottenre il posto deve dichiararsi nubile ed accettare la corte del padrone e di altri. Mario, geloso, si fa assumere come ragazzo degli ascensori (anche lui deve dichiararsi scapolo per
riuscirvi... ) e controlla la consorte. Accanto a questa coppia “nobile” si svolge la vicenda di una coppia di modesti impiegati (Carlo Campanini e Clelia Matania) che fanno da contrapputo alla narrazione principale per i quali
la scelta della donna-lavoratrice non è oggetto di contrasti. Il finale è aperto: la coppia protagonista, dopo vari litigi, ritrova la pace ma non viene chiarito se la donna proseguirà a lavorare... La pellicola, tutta in
interni, è di evidente taglio teatrale e ripropone il classico quartetto del melodramma settecentesco (coppia nobile e coppia buffa) così come la musica di Gervasio sottolinea con un linguaggio tipico dell’opera romantica i
principali passaggi narrativi. Al di là di questa ennesima riprova della continuità tra racconto in musica e racconto per immagini, l’interesse del soggetto è però tutto nella riflessione intorno al ruolo femminile. La
Tradizione, rappresentata dallo zio ricco e dal nipole nullafacente, la vorrebbe a casa, “angelo del focolare”, dedita al benessere del marito e alla cura dei figlioli (che arriveranno per forza... ), mentre i personaggi della
piccola borghesia (la sartina e la coppia di amici impiegati) difendono a spada tratta una presunta libertà femminile ovvero la necessità di avere un impiego e di ottenerlo anche a costo di una serie di menzogne (lo spacciarsi
per nubili... ). Appare chiaro che gli autori, in linea con la più recente politica culturale fascista (quella del periodo bellico), sono per questa seconda ipotesi e guardano col consueto disprezzo alle classi agiate che
vivono di rendita e sono ferme ai valori della tradizione ottocentesca. In tal senso si riconferma il carattere socialisteggiante della visione mussoliniana (il duce fu socialista per vent’anni prima di “inventare” il
fascismo... ) e dà voce alla corrente più modernista che anima la politica culturare del periodo. La svolta a favore del lavoro femminile è tanto più necessaria, visto che l’Italia è entrata in una guerra che si prospetta lunga
e difficile e durante la quale sarà fondamentale il contributo di tutti. Luna di miele, sotto l’aspetto di una commedia inoffensiva (peraltro piuttosto vivace, piacevole e girata con un buon senso del ritmo) manifesta una nuova apertura nei confronti della modernità e dell’emancipazione femminile, tesi, fino a quel momento, abbastanza minoritaria nel cinema fascista e presente soprattutto nelle produzioni della torinese e “illuminata” Lux film.
Dopo Forza bruta e Il prigioniero di Santa Cruz (1941), Carlo Ludovico Bragaglia prosegue la propria collaborazione con la Lux Film in Violette nei capelli
(gennaio 1942; 85 min), innocua e stucchevole commediola tratta dal romanzo omonimo di Luciana Peverelli (sceneggiato dall’autore con Raffaello Matarazzo ed altri) intorno alle vicende amorose di tre giovani (due sorelle ed un’amica). Come nelle pellicole dell’anno precedente, il regista cerca di caratterizzare il racconto inquadrandolo in una cornice speciale scelta questa volta nel vivace universo teatrale (il balletto musicale e la prosa) all’interno del quale si consuma l’accesa passione di due delle protagoniste.
Se le vicende sentimentali non meritano commenti, seguendo stancamente noti stereotipi, risaltano invece i ritratti femminile decisamente insoliti per l’epoca. Carina (Lilia Salvi, interprete goffa e dilettantesca) e Oliva
(Irasema Dilian) sono anzitutto sedotte dal fascino del palcoscenico e antepongono ogni altro aspetto a quella passione. La narrazione, calata in una sorta di Italia senza tempo (gli eventi si snodano lungo un paio di anni e
manca qualunque accenno a vicende sociali, politiche e soprattutto belliche), delinea, in modo implicitamente polemico nei confronti del pensiero dminante, un tipo di donna disinteressata alla famiglia ed ai figli, insomma al
“sacro focolare” di fascista memoria, per offrire di contro una figura femminile emancipata ed alla ricerca della realizzazione di sé nell’ambito artistico. Non può che destare meraviglia il percorso umano di Oliva la quale non
esita ad abbandonare la propria figlia neonata all’amica per inseguire la propria carriera di ballerina senza che tale scelta provochi alcuna nota critica o presa di distacco da parte di regista e sceneggiatori. La meraviglia
tuttavia tende a scemare allorché si rammenta il fatto che la pellicola è una produzione della sottilmente antifascista Lux Film. Il mese successivo esce un’altra pellicola del prolifico Bragaglia, Se io fossi onesto
(febbraio 1942; min.), una scoppiettante e quasi surreale commedia degli equivoci (ispirata alla screwball comedy americana) sostenuta dall’ottima interpretazione di Vittorio De Sica nel ruolo di un integerrimo ingegnere minerario in difficoltà economiche e Paolo Stoppa nella parte di un odioso aristocratico, truffatore e fannullone. Quando per quest’ultimo giunge l’ora della galera (per assegni a vuoto e falsificazione della firma) egli riesce a convincere il malcapitato ingegnere a sostituirlo (si tratta di soli tre mesi) in cambio di un cospicuo compenso. Ne consegue una catena di malintesi e mascheramenti che termina solo con le ultime immagini (e, per il confuso direttore del carcere interpretato dallo stesso Bragaglia, neppure con quelle). Il lavoro, sceneggiato da De Sica, Piero Tellini e dal regista sulla base di un soggetto della ungherese Karolyne Aszlanyi, offre un elegante momento di evasione nel quale l’unico elemento interessante in ambito di politica culturale consiste nella conferma della antipatia fascista per le classi nobiliari, descritte questa volta oltre che come inutili e dedite ad una vacua filantropia (la figura della anziana baronessa), addirittura come truffaldine; al contrario la figura pratica ed attiva dell’ingegnere costituisce l’ennesimo esempio dell’ideale patriottico del regime, incarnato nell’individuo borghese semplice anche l’oggettivo stato di malessere economico causato dalle ristrettezze del contingente periodo bellico). E’ ovviamente lui il prescelto della figlia del barone (Maria Mercader), ulteriore conferma del fatto che questa nobiltà, per rinnovarsi e mettersi al passo coi tempi, deve mischiarsi con il popolo.
Pochi giorni prima, durante un colloquio con i federali della penisola, Mussolini parlando delle suddette classi privilegiate, ciniche e afasciste, rincarava la dose asserendo: “il Partito deve assolutamente liberarsi di
questa vile zavorra che dimostra di non avere coscienza dei suoi doveri. L’atteggiamento di questi signori dal punto di vista dei suoi riflessi è infinitamente più nocivo di tutta la propaganda antifascista, di tutte le diverse
radio del mondo intero. Saranno mille, duemila, tremila, cosa importa? Questo non significa un bel nulla. Sono degli elementi dissolvitori” (gennaio 1942). Nel dicembre 1940 al teatro Quirino di Roma esordisce con successo
la commedia di Eduardo De Filippo Non ti pago!
Meno di due anni dopo Bragaglia ne propone una valida versione cinematografica (ottobre 1942; 72 min.) ovviamente affidata a Eduardo e Peppino De Filippo. La vicenda è nota: don Ferdinando Quagliolo (Eduardo), gestore di un banco-lotto, è ossessionato dalla sfacciata fortuna del suo dipendente Procopio Bertolini (Peppino); allorché quest’ultimo vince un’enorme somma con una quaterna la tensione arriva al culmine, anche perché i numeri sono stati comunicati (in sogno) “per errore” a Procopio dal defunto padre di don Ferdinando il quale ora pretende di avere per sè la somma in questione. Dopo numerose peripezie, comprensive di una mortale maledizione scagliata dal padrone del banco-lotto nei confronti del suo impiegato, tutto si aggiusta: diventeranno suocero e genero e i soldi resteranno in famiglia.
In un’epoca cupa quale l’autunno 1940 Eduardo propone questa commedia dalle apparenze ilari la quale è invece percorsa da un’astiosa cattiveria improntata al sentimento dell’invidia e prigioniera dell’adorazione per la
“roba”. Nell’aspra conflittualità che si scatena tra i due personaggi si percepisce l’evoluzione della società italiana verso orizzonti miserevoli, ormai dura realtà nel momento dell’uscita della pellicola. L’ossessione per il
gioco quale fonte di possibili, faraoniche e “liberatorie” ricchezze e la lotta senza quartiere per il denaro indicano il precipitare della convivenza civile entro i meandri di una povertà che acuisce lo scontro tra gli
individui. Intorno ai due protagonisti il “coro” della folla parteggia regolarmente per il più forte. All’inizio esso prende le parti del fortunato Bertolini; quando però le fortune di questi vacillano a causa della citata
maledizione allora la folla si ritrova tutta d’accordo con le ragioni di don Ferdinando. La descrizione di questa massa informe e influenzabile, pronta a salire sul carro del vincitore, è un ulteriore, simbolico segno della
sfiducia degli autori (De Filippo-Bragaglia) nei confronti del popolo italico privo di idee certe e sballottato dagli eventi. Insomma Non ti pago! è innanzitutto un classico testo del teatro napoletano; tuttavia tra le righe si possono leggere inquietudini e paure, tensioni e asprezze tipiche del periodo bellico.
Uno spirito opposto a quello di Violette nei capelli anima la successiva commedia filmata da Bragaglia, ancora sostenuta dalla collaborazione dei fratelli Eduardo e Peppino de Filippo, a conferma del fatto che l’autore, certamente un narratore sensibile, non possiede una propria delineata poetica e una precisa visione delle problematiche sociali. Il piacevole
Casanova farebbe così (dicembre 1942; 62 min), trascrizione in immagini della omonima commedia di Peppino de Filippo ed Armando Curcio (sceneggiata da Bragaglia), ripiega su una storia assai più tradizionale (rispetto a Violette nei capelli)
nella quale proprio la concezione della donna maritata, sottomessa, chiusa in casa e priva di ogni ambizione esterna alla dimensione familiare, risulta il fulcro della narrazione. La vicenda è poca cosa: don Agostino (Peppino
de Filippo), un bellimbusto di paese, scommette con gli amici al bar (tra i quali un giovanissimo Alberto Sordi) che riuscirà a passare una notte solo in casa della bella Maria Grazia (Clelia Matania), moglie del terribile don
Ferdinando (Eduardo de Filippo bravo ma inadeguato al ruolo sostenuto a teatro da un omone manesco, ben altrimenti minaccioso). Le manovre del “seduttore” tuttavia sono goffe, la vittima, cui è stato ordinato con un pretesto di
andare a Napoli, capisce la macchinazione e la rovescia ai danni dell’autore il quale finisce col divenire oggetto di generale derisione. La commedia teatrale rievoca le convenzioni della vita in un borgo meridionale e
pertanto dipinge una tipologia femminile in tutto dipendente da quella dell’uomo, nelle grandi come nelle piccole questioni. Così don Ferdinando afferma che sua moglie deve stare in casa e quando se la trova al bar (Maria
Grazia andava cercandolo) si inquieta, la rimprova e si affretta a ricondurla tra le mura domestiche, quelle stesse che verranno di lì a poco prese d’assalto da don Agostino. Tale “arcaica” distinzione di ruoli appare peraltro
pienamente introiettata da Maria Grazia; così nei dettagli minuti appare evidente l’indiscusso asservimento della donna: in partenza per il viaggio notturno a Napoli don Ferdinando riceve infatti i capi d’abbigliamento in
perfetto ordine da una moglie zelante e gioiosamente dedita al proprio marito. Inutile dire che Casanova farebbe così non è una produzione della “progressista” Lux Film bensì un lavoro di routine della Cines.
Qualche mese dopo esce Fuga a due voci
(febbraio 1943; 90 min.), un’operina graziosa nella quale il regista Bragaglia, autore anche di soggetto e sceneggiatura, si scatena in numerosi giochi metafilmici, decisamente innovativi e sorprendenti. Di per sè la storiella, spogliata di ogni accessorio, è quanto di più banale: un celebre baritono (Gino Bechi) e una capricciosa fanciulla (Irasema Dilian) perdono entrambi il treno e sono costretti a passare insieme la serata in un paesino di provincia. Senza documenti e senza soldi non vengono accettati negli alberghi; decidono di chiedere la carità: Bechi canta, la giovane sorride e il gruzzolo è presto ragranellato; ma in mezzo ci sono anche soldi falsi. Così finiscono in galera dove vengono raggiunti dai preoccupato padre della ragazza, “scortato” da ben due spasimanti (Carlo Campanini e Aroldo Tieri) della figlia. Il baritono e la ragazza riescono tuttavia a scappare dalla prigione e, dopo altre peripezie, si scoprono innamorati.
Questo usurato traliccio viene messo in scena in modo ingegnoso ovvero come un lungo flashback destinato a trasformarsi in un film: Bechi, all’inizio della pellicola in viaggio verso un set cinematografico, vi giunge
inseguito dalla polizia (dopo la fuga dalla galera) e racconta a ritroso tutta la storiella per offrirla al produttore (Paolo Stoppa) - un fanfarone senza idee - quale soggetto del film da farsi. Pertanto il racconto in
immagini è una sorta di film nel film che, in linea di massima, rispetta gli stereotipi della commedia canterina, così come anche il produttore andava delineando nelle sequenze iniziali del film. Il gioco di specchi giunge al
proprio apice nel finale, allorché il cast, riunito in una saletta, assiste alle ultime immagini del film realizzato, nel quale la ragazza sposa il suo insopportabile e gelosissimo fidanzato ufficiale (un bravissimo Aroldo
Tieri) e Bechi ne soffre: l’attrice allora si alza dalla sua poltrona in platea e fa irruzione nel film per consolare il cantante e rovesciare quindi il finale; la seguono Tieri e altri i quali però non riescono a “entrare” nel
film poché la scritta “Fine”, a caratteri cubitali, si erge davanti a loro come un muro impenetrabile. Bragaglia dunque realizza uno scontato film sentimental - musicale (solo per citare qualche brano: Bechi intona la
celebre aria di Figaro dal Barbiere rossiniano; in seguito i due fuggiaschi cantano il popolare duetto d’amore che conclude il primo atto della Lucia di Donizetti) solo per prendersi il gusto di smontarlo dall’interno e di farne oggetto di sarcastica ironia. I tempi stanno cambiando, la guerra ha minato irrimediabilmente la fiducia nel fascismo e quindi, finalmente, ci si possono togliere alcuni sassolini dalle scarpe. L’incipit è ambientato su un treno che viaggia in ritardo e sul quale si aggira un ladro. Dunque i treni non arrivano più in perfetto orario e i cineasti possono anche mostrare l’esistenza di ladruncoli pronti a tutto, pur di impossessarsi di una valigia e di un portafoglio; il quadro filmico si fa più realistico, animato e imprevedibile: deve esserlo per offrire alla popolazione, provata dalla tragedia bellica, motivi inattesi e più audaci del consueto, capaci di far momentaneamente dimenticare le miserie del presente (è in fondo la stessa politica culturale che porta all’inserimento di numerosi nudi femminili nei film del periodo 1941-43); allo stesso tempo però Bragaglia ne approfitta per porre in essere una evidente critica ad alcuni contenuti smaccatamente falsi della propaganda del regime.
Intanto nel salotto del volgare produttore, un manipolo di scalcagnati cinematografari non sa come imbastire la storiella canora; sceneggiatori indolenti ascoltano alla radio arie della più autorevole tradizione lirica
italiana malamente “stravaccati” su un divano, infondendo agli spettatori una sensazione di scherno e di cinismo nei confronti dell’Arte nazionale (da sempre valorizzata con solennità dal regime). Sempre questi non sanno
distinguere l’atteso famoso baritono dal ladro che ne ha preso il posto e tentano di far recitare quest’ultimo. Poi finalmente la vicenda parte (in flashback) e diventa una piccola commedia buffa nella quale gli animati motivi
orchestrali (memori della vivace ouverture delle Nozze di Figaro di Mozart) spingono la storiella verso i già citati esiti parossistici e quasi surreali. Film e opera buffa nuovamente si incontrano e pervengono a risultati estremamente gradevoli in questo fondamentale momento storico nel quale il racconto filmico assorbe lo spirito del melodramma giocoso e lo supera verso nuovi orizzonti.
Durante l’avventurosa serata al paesino la coppia viene maltrattata dagli abitanti locali i quali, in cieca e cinica ottemperanza delle regole, non concedono loro alcun alloggio. E’ un ulteriore momento di verità filmica,
con buona pace di tutti i valori della solidarietà nazionale e della collaborazione corporativa. Non resta che chiedere la carità in una sequenza che diverrà il segreto modello di quella, assai più famosa, del desichiano Umberto D (1952): la ragazza, con cagnolino al seguito, allunga la mano ai passanti ma subito se ne vergogna...
Alla fine comunque, un piccolo gruzzolo è stato messo insieme e si va a cena. Però tra il denaro si nasconde una banconota falsa, nuovo segno sgarbato nei confronti delle indicazioni fasciste che vietavano nei film ogni
riferimento a pratiche criminose e destabilizzanti come quelle dei falsari. Chiusi in galera la coppia viene raggiunta dal padre della giovane il quale, qualificatosi come famoso industriale, ottiene dall’accomodante
commissario che la figlia (ma non il cantante) possa immediatamente uscire dal carcere. Ecco dunque un altro sberleffo alla concezione orgogliosa del fascismo: la giustizia, anziché retta ed efficiente, nonché realmente
egualitaria, è nelle mani di individui pronti a compiacere il potente di turno. La ragazza però si impunta e finiscono tutti in cella a discutere sul da farsi. Poi la coppia scappa di soppiatto e si giunge al finale ovvero
all’inizio della narrazione in flashback. Bragaglia rovescia dunque numerose regole formali e di sostanza. Il film è ridotto a una serie di siparietti privati di ogni credibilità dal contesto narrativo (il film nel film) e,
nello tempo stesso, in questo parapiglia anarcoide, una serie di figure e situazioni vietate si introducono con il garbo del sorriso ad indicare una realtà extrafilmica impoverita, corrotta e confusa, tra ladri, treni in
ritardo, albergatori meschini, falsari e commissari consenzienti. Il colpo di genio del magnifico finale - gli attori che dalla platea entrano materialmente nel film in proiezione, per riviverlo e modificarlo, dando allo
spettatore il colpo di grazia - verrà replicato quattro decenni dopo dal Woody Allen de La rosa purpurea del Cairo (1985) il quale, quasi certamente a conoscenza di questo rarissimo e introvabile film di Bragaglia, farà di quella trovata conclusiva, l’inizio e l’elemento fondante della sua gentile e malinconica pellicola incentrata sulle peripezie di un’intensa Mia Farrow. Il cinema dunque è solo una messa in scena, un fuoco d’artificio, una finzione prodotta da commedianti da strapazzo: Bragaglia lo racconta come nessuno aveva saputo fare finora in Italia e mentre costruisce il suo stravagante filmetto, vi inserisce ogni possibile veleno antifascista, in vista della prossima, ormai inevitabile caduta del regime.
Al contrario nel mediocre La vita è bella
(maggio 1943; 76 min.; soggetto, sceneggiatura e regia sono di Bragaglia), commedia canterina degli equivoci impostata su un paio di coppie e qualche comprimario (l’onnipresente, bravissimo Carlo Campanini nel ruolo di uno spasimante maltrattato), l’unico elemento di curiosità è costituito dalla presenza delle due protagoniste femminili (una Magnani particolarmente antipatica nel consueto ruolo della donna fatale e Maria Mercader) in pantaloni, fatto assai raro nella cinematografia del regime; ovviamente si tratta di caratteri piuttosto volitivi, emancipati e “maschili” (la Mercader amministra con piglio deciso la propria tenuta agricola e assume lo “smarrito” aristocratico stabilendo così un netto rovesciamento dei ruoli tradizionali uomo-donna) e come prevedibile il film è targato Lux. Per tali ritratti dunque il lavoro si apparenta al recente Violette nei capelli.
La vicenda ruota intorno a un conte squattrinato e vagabondo (Alberto Rabagliati) che, in preda alla fame, si introduce nella casa di due sorelle e si fa passare per il segreto ammiratore dell’una (Anna Magnani); alla fine
invece sposa l’altra (Maria Mercader). Il tutto condito da una serie di melense canzoncine che interrompono e rallentano la già fragile e scontata narrazione. Alcuni mesi dopo, in un’Italia alquanto mutata, Bragaglia firma
un’altra pellicola (questa volta soggetto e sceneggiatura sono del regista) in cui si avvale della superba partecipazione di Edoardo De Filippo, Il fidanzato di mia moglie
(novembre 1943; 86 min.). Si tratta di una brillante commedia degli equivoci animata da un’ottima verve che sfocia nell’esplosivo finale che trova l’ottetto dei protagonisti (due coppie di fidanzati ed i genitori delle fanciulle) radunate intorno ad uno scatenato De Filippo che scioglie tutti i malintesi attraverso un monologo da antologia. Il piccolo giallo riguardante le erronee registrazioni dell’anagrafe, che danno per sposati due giovani tra loro sconosciuti, si scopre essere una feroce, pirandelliana vendetta dell’impiegato Edoardo il quale, vistosi ingiustamente cacciato dal proprio impiego dal solito raccomandato, si prende la gustosa soddisfazione di alterare a piacimento una vasta quantità di dati anagrafici con esiti surreali ed esilaranti. Ovviamente ogni cosa tornerà rapidamente al suo posto e l’impiegato riotterrà il proprio posto di lavoro.
L’orchestrazione della commedia è abile, gli incastri ci sono tutti e sono spesso gustosi, il ritmo è serrato e vicino a quello della screwball comedy americana (alcuni interni del palazzo di Giulio Marini, uno dei fidanzati, citano apertamente il gusto hollywoodiano) mentre la visione del matrimonio ricalca quella tradizionale della commedia precedente, con le donne prudentemente sottomesse all’esuberanza un po’ sciocca delle figure maschili. Al contrario il lavoro offre qualche novità nell’ambito della critica sociale poiché il disordine messo in atto dal folle impiegato è sostanzialmente un gesto di protesta contro una società ingiusta, in cui allignano corruzione e favoritismi. In tal senso Bragaglia sembra accorgersi dei tempi nuovi: il fascismo è caduto (e peraltro è subito “resuscitato”) e sembra venuto il momento di azzardare qualche timida denuncia sociale nei contronti di una casta, quella dei burocrati statali, che costituiva la spina dorsale del regime.
Nello stesso mese esce anche un altro film del regista romano, Tutta la vita in ventiquattr’ore
(novembre 1943; 78 min.), su soggetto e sceneggiatura di Aldo De Benedetti e Amleto Faiola, nel quale invece, accantonati i toni giocosi e le caute critiche sociali, si torna ad un denso melodramma che racconta, con indiscussa abilità e buon gusto, un classico itinerari di redenzione il cui percorso è quello tipico del cinema fascista ovvero un percorso spaziale e morale che prende le mosse dalla corrotta metropoli per giungere al candore rigenerante dei piccoli borghi contadini. Il film di Bragaglia è pertanto una delle ultime “favole” ruralizzanti segnate dalla popolare visione mussoliniana e rispettosa, come i recenti Casanova e Il fidanzato,
della tradizionale visione della donna come madre amorosa e moglie devota innanzitutto. Il racconto si organizza intorno ad un ammirevole duetto virile: un malfattore in fuga (Andrea Checchi) che si crede un assassino ed un
commissario in vacanza (Carlo Ninchi) il quale, raccolta la confessione del primo, si trova nella necessità di scortarlo presso la stazione dei carainieri più vicina, non prima però di avere incontrato la cerchia familiare del
giovane nel paesino natio (i genitori, una fidanzata abbandonata incinta ed ora ragazza madre). La presa di coscienza del giovane sradicato è progressiva e culmina in un matrimonio riparatore, nella riappacificazione con la
famiglia e nella scoperta (ormai scontata) che il presunto omicidio di cui il protagonista temeva di essersi macchiato durante un alterco per questioni di denaro perso al gioco, si era risolto in una lieve graffiatura non
denunciata dalla vittima. La scrittura di Bragaglia è attenta e partecipe, sobria e capace di evitare inutili enfasi, aiutata dalla perfetta recitazione di Cecchi e Ninchi, con particolare riferimento alla mimica ed alla
gestualità essenziali, rassegnate ed al tempo stesso ricche di umanità del commissario. Intorno a loro si muove una fitta schiera di simpatici personaggi (il medico condotto, il sacerdote) che delineano una comunità paesana
semplice e positiva, capace di affrontare senza cedimenti le difficoltà e la fatica del vivere. La pellicola del Bragaglia è insomma una delle ultime rasserenanti fiabe che ritrae un’Italia dedita alle piccole cose, permeata da
un equilibrato, egemone senso della famiglia e dal generoso sforzo di rendersi utili alla comunità. Di lì a poco le macerie della guerra spazzeranno via questa visione armoniosa e idilliaca.
Il contrasto tra modernità e tradizione tocca di sfuggita anche la mediocre farsa Dove andiamo signora? (gen 1942; 80 min.) di Gian Maria Cominetti in cui il nobile decaduto Rudi (Claudio Gora) vive,
in incognito, facendo l’autista di altri nobili mentre la sera reindossa i propri abiti aristocratici e cerca di sedurre qualche giovane di buona casata. All’occorrenza scambia i ruoli con il proprio servitore e, come nel Don Giovanni mozartiano, interpreta la parte del servo lasciando all’amico quella del nobile. Durante una di queste scorribande l’uomo corteggia la bella Alice (Carola Hohn) e poi si ritrova, di mattina, a doverle fare da autista. Pur tra cento dispetti e malintesi Rudi non desiste e, alla fine, riesce a sposarla.
La pellicola, una coproduzione italo-tedesca, è poco divertente nel suo allineare tutti gli stereotipi del genere. Verbosa e teatrale va per le lunghe senza aggiungere alcuna annotazione di rilievo a questo usurato genere
filmico. Anche la consueta critica alle classi nobiliari passa in secondo piano poichè, praticamente, tutti i personaggi della monocorde vicenda appartengono a quel mondo mentre mancano le abituali figure piccolo borghesi di
schietti lavoratori a fare da contrasto.
Di modernità e tradizione si parla anche nel superficiale Il ponte sull’infinito
(ott. 1942; 70 min.), unica regia firmata da Andrea Doria (su sceneggiatura propria). Il conflitto è quello tra Giorgio, un anziano compositore (Guglielmo Sinaz) che ha appena ultimato una grande sinfonia (quella del titolo) e Renato, un giovane musicista spregiudicato (Antonio Centa) il quale, fidanzato con Elena, la figlia (Bianca Doria) del suddetto compositore, riesce a venire in possesso in modo casuale di questa partitura dopo che l’autore è morto in un incendio (nel quale si pensa siano andati bruciati tutti i suoi lavori). Abbandonata Elena, l’uomo inizia una folgorante carriera proprio grazie a quella composizione che egli si è attribuito. Nonostante la situazione sia alquanto scabrosa, Renato non trova di meglio che andare ad eseguire l’opera in questione anche nella città di Giorgio e con l’orchestra in cui suona la sua ex fidanzata (che quella composizione conosce a memoria). Nella frettolosa e assurda conclusione la giustizia dei fatti verrà ristabilita...
Melodramma eccessivo e artificioso, pià adatto al teatro lirico che al realismo filmico, Il ponte sull’infinito si muove lungo il contrasto insistente di due caratteri: il giovane direttore d’orchestra, moderno e incapace di creare una musica di valore e l’anziano artista legato alla composizione tradizionale (pucciniana o mascagnana), che immediatamente riconosce la pochezza del giovane rivale. In mezzo la monotona disperazione di Elena che ha perso il padre, la sua musica e il fidanzato (fuggito altrove per inseguire una carriera di concertista). L’argomento avebbe potuto essere interessante e attuale se il regista avesse attribuito in maniera chiara al giovane quella tipologia musicale (nel solco di Casella o di Strawinskij o addirittura di Berg) che era contestata in quegli anni dall’ala tradizionalista della musica italiana (Mascagni, Respighi e Pizzetti); purtroppo nulla di tutto ciò emerge: l’unico accenno del giovane compositore al pianoforte appare indistinguibile dalla musica dell’anziano, se non per una vena melodica più superficiale e generica. Anche il presunto capolavoro del titolo viene liquidato con le poche battute iniziali, senza alcun approfondimento sulla sua reale natura. Insomma l’argomento è solo sulla carta e nei verbosi dialoghi che annoiano lo spettatore lungo il peraltro breve sviluppo del racconto. La conclusione è poi talmente inverosimile (perchè mai andare ad eseguire il capolavoro rubato davanti alla figlia dell’autore... ) da distruggere la potenziale carica dello scioglimento.
Nell’artificioso Acque di primavera
(nov. 1942; 80 min.), Nunzio Malasomma ripropone il consueto scontro tra modernità e tradizione che in questo caso contrappone futili esigenze femminili a solide realtà maschili. Durante la festa nuziale, l’integerrimo
marito e dottore Francesco (Gino Cervi) viene convocato d’urgenza dal suocero in ospedale, per un’operazione urgente. L’incredibile coppia, dedita eroicamente al lavoro anche nel giorno della cerimonia nuziale che li vede
protagonisti, scatena un’esagerata reazione da parte della neomoglie Ilse (Mariella Lotti) la quale li abbandona entrambi per darsi ad un’esistenza vacanziera e “inutile”. Di contro Francesco - il nome non è certo casuale - si
isola in un paesino di montagna dove, fondata una propria clinica, si dedica anima e corpo ai ragazzini della zona. Dopo mesi si ritrova davanti l’ex moglie, ferita in un incidente di sci, accompagnata da un cinico faccendiere
zurighese (una figura totalmente negativa che, pertanto, non poteva essere di origine italiana... ) che, dopo averla ingravidata, la abbandona. Francesco e Ilse si riappacificano e la donna lo lascia libero dall’inesistente
vincolo matrimoniale; Francesco si precipita a sposare la collega Anna (Vanna Vanni), come lui religiosamente dedita al proprio lavoro. L’intreccio narrativo altamente melodrammatico, alleggerito dalla consueta brillante
coppia secondaria (incentrata su Paolo Stoppa, medico aiutante), in osservanza delle regole del teatro lirico e non, si sviluppa in modo prevedibile e faticoso, avendo a che fare con personaggi e gesti del tutto inverosimili.
La pellicola, tuttavia, si salva grazie alla bravura di tutti gli interpreti che riescono a conferire una qualche verità a queste figurine della propaganda fascista e ai contributi musicali che fasciano il racconto in
un’atmosfera tipica di un melodramma verista. La sceneggiatura ribadisce l’ammirazione del regime per figure piccoloborghesi dotate di una vocazione sociale senza limiti, pronti a sacrificare la propria vita privata alla
missione insita nel loro ruolo sociale, per il benessere della comunità e dello stato, uno stato la cui popolazione, dopo due anni di sciagurato conflitto bellico, è profondamente provata e sembra attendere con ansia un
qualunque esito finale che possa porre termine alle sofferenze quotidiane. Al di là delle esigenze contingenti (il disperato appello alla fedeltà a un regime giunto al capolinea) il cinema di questi anni ripete la propria
convinta adesione allo stile di pensiero della Tradizione (di cui il fascismo è solo l’ultima incarnazione, peraltro ampiamente “contaminata” da aspetti derivanti dalla cultura socialcomunista di cui Mussolini fu autorevole
esponente per circa un ventennio) che ripropone l’assoluta centralità dell’uomo e del suo lavoro (che gli permette di identificarsi nell’opera dello stato) mentre la figura femminile è positiva solo nella misura in cui sa
essere fedele e ubbidiente al compagno scelto come marito e all’istituto della famiglia. Non a caso Ilse, commesso il grave errore iniziale, va incontro ad una serie di inenarrabili sciagure le quali le apriranno finalmente gli
occhi, pur lasciandola comunque isolata. Francesco la perdona ma non si fa carico dei suoi errori, la abbandona al suo destino e corre a sposare la donna giusta ovvero Anna che, per tutto il racconto, è rimasta in posizione di
umile attesa di un suo cenno d’amore.
Un differente conflitto che contrappone usanze antiche e novità tecnologiche si ritrova nell’unico, modesto lingometraggoo di Andrea Di Robilant, Canal Grande (apr. 1943; 85 min.). Ambientato nella
Venezia del 1881 il racconto rievoca il momento in cui nella città lagunare vennero inseriti i vaporetti, destinati, in breve tempo, a soppiantare i gondolieri nel “traffico urbano”. Il film, il cui unico merito è quello di
averci regalato alcuni squarci della magnifica città venera, mette in scena in modo alquanto stereotipato la protesta dei gondolieri che lamentano la loro futura rovina a causa di questo innovativo mezzo di trasporto; la
vicenda si arricchisce del conflitto generazionale tra un padre - capo della corporaizione dei gondolieri, e un figlio che, disinteressato alla questione, amoreggia con una sofisticata aristocratica francese, abbandona il
proprio lavoro di gondoliere e diviene addiritura pilota di vaporetti. Al culmine del conflitto familiare tuttavia il giovane si redime, abbandona l’amante, vince la regata storica in qualità di gondoliere e sposa la fidanzata
veneziana (Maria Denis). La pellicola appare in dissonanza con la politica culturale del regime. Se appare scontata la propaganza antifrancese e antiaristocratica affidata alla figura della fatua amante del protagonista,
tutto il resto suona insolito nella politica culturale di un regime che ha, da sempre, esaltato le novità tecnologiche (è pur sempre stato affiancato dall’impetuoso futurismo) affidate a una piccola borghesia operosa che
guardava con sufficienza al lassismo antiquato delle classi nobiliare e latifondiste. Questa difesa delle gondole appare pertanto incomprensibile, tanto più che durante l’intera pellicola vediamo su tali imbarcazioni solo
turisti ricchi, aristocratici e sfaccendati mentre sui nuovi vaporetti vediamo salire quella gente comune che costituisce il sostegno primario del regime mussoliniano e che si muove per necessità e non per capriccio.
Peraltro tutti i conflitti messi in scena dal racconto - tra gondolieri e difensori del vaporetti, tra padri e figli, tra fidanzate oneste e avventuriere capricciose - vengono trattati senza il minimo estro, in un contesto di
figurine in cui il macchiettismo cancella ogni veridicità. Poco dopo Nunzio Malasomma firma In due si soffre meglio
(apr. 1943; 90 min.), pellicola sceneggiata con Mino Caudana ed altri, in cui mette in scena la consueta commedia degli equivoci basata su due coppie di innamorati. L’indaffaratissimo industriale Roberto (Carlo Ninchi) corteggia la capicciosa Giuliana Barduzzi (Marisa Vernati), mentre la sorella di quest’ultima, Lucia Barduzzi (la cantante lirica Dedi Montano), è innamorata di Mario (Carlo Campanini), il precedente fidanzato di Giuliana. Dopo tanti malintesi tutto si aggiusterà e ci saranno nozze doppie.
Il film, girato con vivacità, ben interpretato e ricco di dialoghi brillanti, tiene desta l’attenzione anche perchè inserisce una serie di curiose e insolite divagazioni. Il cinema italiano nel 1942-43 appare in difficoltà
nel trovare argomenti relativi alla vita quotidiana in un contesto lacerato dalle sofferenze connesse al protrarsi del conflitto mondiale. Pertanto spesso soggettisti e sceneggiatori calano i loro protagonisti nel mondo
astratto e variopinto dello spettacolo (si vedano, al riguardo, Apparizione, Fuga a due voci e Silenzio: si gira), così da isolarli maggiormente dall’universo reale. In questo caso viene esaminato il mondo del
doppiaggio e del canto: Carlo è un bravo doppiatore - lo vediamo all’opera mentre lavora ad una comica di Stanlio e Ollio - mentre Lucia, dopo essere passata per l’esperienza del doppiaggio, esordirà con successo nel mondo
della lirica: il film termina con il suo trionfo nei panni di Madama Butterfly (1904). La scelta del personaggio pucciniano non solo allude alla lunga (anche se non dolorosa) attesa di Lucia nei confronti del “distratto” Mario, ma soprattutto rimanda alla situazione di un’Italia amica del Giappone e vittima dei “discendenti” del crudele tenente Pinkerton.
In due si soffre meglio ripropone poi i consueti stereotipi della propaganda fascista: Roberto è un integerrimo e laborioso italiano che, sebbene ricchissimo, lavora dieci ore al giorno e può dedicare alla fidanzata solo ritagli di tempo; Giuliana invece è la consueta “donna inutile”, dedita a feste e soprattutto al gioco (tanto biasimato dal regime in quegli anni), all’interno di una cerchia di individui di cui si intuisce il lassismo, la poca serietà e soprattutto lo scarso fervore fascista. Anche la madre (Giuditta Rissone) delle due sorelle replica questo sciagurato modello e ha instaurato in casa una sorta di dannoso matriarcato che ha portato la famiglia ad una situazione di stallo. Solo quando il marito (Carlo Micheluzzi), finalmente, reagisce riprendendo con forza il proprio ruolo di capofamiglia (ovvero quando si passa da un regime modernista-matriarcale ad uno conservatore-patriarcale), impedendo a moglie e figlia (quella “inutile”) di aprire bocca, le cose prenderanno la piega giusta. Mario è invece il consueto piccolo borghese sensato, attivo e generoso ovvero rappresenta il tipo umano che costituisce l’asse portante dell’intero cinema fascista. Sull’altro versante Giuliana viene “redenta” dall’amore di Roberto: diventerà una moglie serivizievole ed abbondonerà certamente le sale da gioco, le amicizie dannose e gli alberghi di lusso.
La pellicola, tra le più politicamente allineate del periodo nell’invocare atteggiamenti leali e fattivi e nel disprezzare l’alta borghesia nullafacente, contiene anche uno sgradevole (breve) episodio antisemita allorché il
capofamiglia, indispettito da un compratore tirchio che gli sta svuotando la casa per pochi soldi (la famiglia Barduzzi è finita in rovina... ), allude alla sua probabile identità di usuraio ebreo. Le leggi razziali hanno già
cinque anni e la pesante propaganda presente su tutti gli organi di stampa rende assai diffusi questi stereotipi; così capita di ritrovarli nel popolare spettacolo cinematografico, anche se solo in episodi marginali (siamo
lontanissimi dai film di propaganda nazisti come Süss l’ebreo, Harlan 1940, film peraltro regolarmente proiettati nelle sale italiane dell’epoca). Nel film vi è poi un altro riferimento storico importante che allude,
con un certo coraggio, alla difficile situazione politca italiana. La ricca famiglia Barduzzi, dedita al commercio internazionale, finisce in completa rovina, da un giorno all’altro, a causa del congelamento dei beni italiani
posto in essere dal governo brasiliano, in conseguenza dell’entrata in guerra (31 agosto 1942) al fianco della potenza statunitense. Il conflitto mondiale, sempre più lungo e usurante, porta con sé svantaggi di ogni genere,
spesso imprevedibili e l’entusiasmo del ricco industriale Roberto, sempre intento a comunicare imprecisati ordini commerciali alle filiali di Monaco di Baviera, cerca di riequilibrare la situazione di improvvisa povertà in cui
sono finiti i Barduzzi. In due si soffre meglio utilizza le consuete schermaglie amorose per rimettere in scena, per l’ennesima volta, il conflitto tra Modernità e Tradizione all’interno del drammatico contesto di un’Italia a un passo dal tracollo.
Dopo il dittico con Bragaglia (Non ti pago! - Casanova), la coppia Eduardo - Peppino De Filippo ci riprova con il più modesto Non mi muovo!
(agosto 1943; 75 min.), in cui - diretti da Giorgio Simonelli, portano sullo schermo un altro testo del teatro napoletano ovvero A pigione e si stanze c’o balcone ‘O quatto ‘e maggio (1907) di Diego Petriccione. La modesta storiella ritrae l’eterna furbizia degli svogliati don Carlo Mezzetti e Pasqualino i quali - allergici al lavoro - si installano in appartamenti altrui con metodi abusivi e vi restano, dando fondo a tutte le loro capacità nello sfruttare le naturali lungaggini insite nei meccanismi giudiziari di sfratto. Il testo appare di per sé stiracchiato e poco significativo; tuttavia l’averlo riproposto ora - nell’Italia degli sfollati e della fame - offre motivi di riflessione sociale abilmente “nascosti” tra le pieghe della narrazione. Come già in Non ti pago!,
la realtà napoletana che viene dipinta, allude a una realtà governata da una aspra lotta per la sopravvivenza e intrisa di disperazione: senza un soldo il quartetto di personaggi (ci sono anche la moglie di Pasqualino e
Annuccia, la figlia di Mezzetti) pranza dividendo in quattro una salsiccia e accantona ogni forma di dignità per ottenere favori e denari; nel finale la giovane (Vanna Vanni) accetta di buon grado la corte un po’ sfacciata del
nuovo padrone di casa (Mino Dori) per convolare verso un matrimonio risolutore. L’impianto teatrale non viene mitigato e gioca sfavorevolmente, inchiodando i personaggi in verbose discussioni (moderatamente divertenti, più
spesso francamente ripetitive e noiose) in interni mentre - come spesso sui palcoscenici - gli accadimenti languono.; né le poche, timide allusioni alla contemporaneità riescono e rendere interessante l’accademica pellicola.
Carlo Campogalliani, dopo aver girato l’inopportuno, propagandistico Treno crociato (aprile 1943; vedi), ripiega saggiamente su una commediola di poche pretese con Silenzio: si gira!
(ottobre 1943; 95 min.) con la quale imita con successo l’insolito Fuga a due voci di Bragaglia (febbraio 1943). Questo seconda pellicola di argomento metafilmico, basata su un soggetto di Tomaso Smith e Guido Brignone, sceneggiato tra gli altri da Cesare Zavattini, si colloca direttamente sul set di uno dei tanti film sentimental - canori e, come nel caso precedente, il ruolo principale è affidato a un celebre tenore, Massimo Giuliani (Beniamino Gigli). Questi si comporta con insopportabile alterigia dentro e fuori dal set e prende parte al filmetto solo per potere sedurre la giovane debuttante Eva Sanzio (Mariella Lotti), da lui imposta al regista. Quando però la situazione volge al peggio (la furbetta, ottenuta la parte, gli preferisce l’attor giovane Andrea Corsi, interpretato da Rossano Brazzi), il tenore per far dispetto alla ragazza (è la sua grande occasione), abbandona il set, certo che l’intera produzione dovrà essere interrotta. Il suo segretario (Carlo Campanini) però trova un sosia, un ladro gioviale e popolaresco, che viene spacciato per Giuliani. Con grande stupore della troupe, il secondo Giuliani è cordiale con tutti, ha perso ogni vanità, scherza e gioca a carte, tratta la divetta come una cara figliola e fa la corte invece a sua zia. Ovviamente il vero Giuliani, in vacanza, si accorge di tutto e piomba come una furia sul set, creando una serie di divertenti equivoci. Tutto si conclude per il meglio.
Campogalliani, aiutato da un ottimo Gigli - perfetto nel doppio ruolo del cantante tronfio e del cafone di buon cuore - firma una commedia segnata da un ritmo incalzante e da trovate piacevoli, con alcuni momenti
addirittura esilaranti. L’ambientazione, interna all’universo cinematografico, si risolve in poca cosa: certamente il regista si diverte a mostrare gli attori al lavoro e i trucchi del mestiere (la sequenza in auto, girata col
trasparente per produrre la sensazione del movimento) e arriva a inserire dialoghi quali: “non siamo mica nella scena di un film” (Brazzi alla fidanzata); ma presto si dimentica della tematica metafilmica, viene assorbito
dall’antica trovata del sosia pasticcione (derivante da una secolare tradizione teatrale) e finisce per annullare ogni differenza tra film nel film e vicende dei protagonisti. Rapidamente le zuccherose situazioni interne alla
pellicola in lavorazione si rispecchiano in quelle che impegnano il tenore, il ladruncolo, l’attor giovane, la debuttante e tutti gli altri protagonisti. L’interno e l’esterno, la finzione in atto e gli artefici della finzione
finiscono col confondersi poiché il cinema non può produrre altro che innocente intrattenimento (tanto più nell’estate del 1943), amorose triangolazioni destinate a distrarre l’attenzione degli italiani per poco più di un’ora.
Ogni distanziazione del film nel film - ogni possibile riflessione intorno alle differenze tra vita e racconto, verità e finzione, tempo reale e durata filmica, centrali soprattutto nel futuro cinema di Wim Wenders -
dilegua, anche se rimane quel simpatico tocco sarcastico, tutto romanesco, nel descrivere un mondo di furbi teatranti che, in definitiva, crede assai poco in ciò che va creando. Rispetto alle coraggiose e imprevedibili
invenzioni presenti nella pellicola di Bragaglia, in Silenzio: si gira! le sorprese “narrative” sono poche; e se anche ora il film termina con la troupe al completo che guarda il finale del film prodotto (evidente ricalco del finale di Fuga a due voci),
ora nessuna “stravaganza” ha luogo, la distinzione tra i due campi resta solida e la scontata felicità che anima il balletto sullo schermo (sulle note della canzone Cinema di Cesare Bixio, vero Leitmotiv del film), si rispecchia nelle vicende sentimentali, tutte positivamente concluse, dei personaggi seduti nelle poltrone della saletta. Semmai ciò che colpisce in questa conclusione è la sua modernità filomaericana: vi si celebra l’illusione del “cinema”, della fama associata alla felicità, e per farlo si mostrano ragazze poco vestite; in particolare una donna in bikini, in posa statuaria (un po’ come le future Bondgirl), ne è il centro ideale, segreta allusione a quelle libertà sessuali che il cinema si farà carico di propagandare di lì a poco, vera strada maestra di un universo consumista, tutto ancora da edificare in Italia. Il cinema quale strumento per inoculare illusioni erotiche e vanitose, essenziali all’universo mercificato americano e poi europeo, vi trova una delle prime, convinte esemplificazioni.
La voce di Gigli intona quattro o cinque canzoni - come era nel programma della produzione del film in lavorazione - e tali inserti canori risultano momenti determinanti nella complessiva economia della pellicola, la quale
termina appunto con un lungo balletto di evidente imitazione hollywoodiana. Si ironizza a parole - nella cornice “metafilmica” - sul valore di queste paginette musicali, ma poi non ci si sa trattenere dall’inserirle in versione
integrale, come in un qualunque altro “ingenuo” film canterino, mandando in soffitta ogni discussione estetica e ogni preoccupazione sull’autonomia del cinema nei confronti di forme artistiche “altre”. La tradizione musicale -
così forte in Italia - rimane una dei pilastri della coeva industria cinematografica, sia che si utilizzino famosi tenori, sia che semplicemente si costruiscano drammi filmici che posseggono le cadenze e i suoni della gloriosa
storia del teatro d’opera. In definitiva la Tradizione risulta determinante e la Modernità - che anche in questa pellicola fa capolino, sia nel già commentato balletto conclusivo, sia soprattutto nella pretesa (coerente con i
contenuti ideologici del balletto) di Giuliani di ottenere favori sessuali dalla debuttante - svanisce presto, assorbita dal contesto edulcorato, anche se sembra possedere l’ultima parola (la fastosa sequenza conclusiva).
Alfredo Guarini affronta il medesimo argomento in Senza una donna (ott. 1943; 80 min.), commedia brillante e ricca di inserti lirici eseguiti dal tenore Giuseppe Lugo. Il duca Venanzio (Umberto
Melnati) ha dichiarato morta sua moglie Gloria (Ione Morino), la quale gli preferisce un futile e scabroso centro di bellezza in cui decine di donne cercano il segreto dell’eterna giovinezza. Il luogo in questione -
sorprendente anticipazione di centri estetici, palestre e quant’altro, oggi all’ordine del giorno - è descritto come una dimensione astratta ed “aliena”, quasi fantascientifica (tale doveva risultare negli anni di guerra), con
fanciulle disinibite che discutono tematiche sessuali abbastanza esplicite per l’epoca. Nella logica degli autori (gli sceneggiatori Achille Campanile e Alfredo Guarini) si tratta di una sorta di ribellione femminile alle
usanze patriarcali del matrimonio, usanze prevalenti negli anni del regime; non a caso tutto ciò prende corpo all’interno di una famiglia aristocratica ovvero, nella logica del cinema fascista, di un nucleo sociale dedito per
definizione ad attività vacue e spesso dannose. Il duca dichiara allora vietato il suo castello a tutte le donne e vi si rinchiude con il suo parrucchiere (un Carlo Campanini in piena forma) anch’egli in fuga da una fidanzata
troppo indipendente, un maestro di canto (Guglielmo Barnabò) e il suo allievo prediletto (Giuseppe Lugo). Per una serie di circostanze imrpevedibili il luogo viene invaso da tre brillanti ed estrose ballerine ungheresi e, a
seguire, da una folta “delegazione” del centro estetico. Una lunga serie di schermaglie e bisticci porterà al lieto fine con la chiusura della casa di bellezza e il ristabilimento dei rapporti sentimentali all’interno delle
consuete gerarchie. Le numerose arie intonate da Lugo (per lo più dal Rigoletto e dalla Gioconda) segnano i differenti momenti della narrazione: dapprima la diffidenza nei confronti dell’universo feminile, poi la
ritrovata armonia. Senza una donna, ambientato quasi interamente in interni, è una commedia basata su una trama pressochè inesistente in cui, a maggior ragione, emerge la tematica di fondo ovvero la battaglia dei
sessi e il tentativo femminile di abbandonare il proprio ruolo classico (quello di mogli e madri), ruolo incentivato da tutti i regimi politici conservatori, per una concezione più autonoma e slegata dalla abituale figura
maschile di riferimento. Le donne del racconto, sospinte dai capricci di una aristocratica, sembrano volersi muovere sul terreno scivoloso della mera seduzione, priva di qualunque riferimento al matrimonio e alla maternità: è
una visione modernista che non ha cittadinanza nella società italiana di quel periodo e che, come tale, risulta sconfitta nel prevedibile finale. La Tradizione, ancora per un paio di decenni, può mettere in scena parabole come
questa che, nell’Italia del nuovo millennio ovvero un’epoca priva di un radicato e diffuso senso storico - appaiono come vicende di un passato incomprensibile e ignoto.
Jean de Limur, prolifico autore francese di commedie brillanti, dirige in Italia un solo film, Apparizione
(novembre 1943; min.), nel quale, aiutato da ottimi sceneggiatori come Giuseppe Amato (il vero ideatore dell’intera pellicola per la Cines, a quel tempo proprietà dell’IRI), Lucio De Caro e Piero Tellini e da un cast eccezionale, conduce un’importante riflessione sui temi della tradizione e della modernità. La pellicola risulta talmente significativa che, almeno in tre occasioni, Federico Fellini vi attingerà allo scopo di sviluppare le medesime riflessioni (Lo
sceicco bianco, 1952; Le notti di Cabiria, 1957; in quest’ultimo Amedeo Nazzari interpreta ancora se stesso sebbene col nome Alberto Lazzari mentre al posto di Alida Valli c’è la piccola Cabiria; La dolce vita,
1960, nella quale numerose sono le “apparizioni”). La vicenda è semplice e al tempo stesso ricca di premonizioni. In un paesino anonimo si sta festeggiando il fidanzamento di Andreina (Alida Valli) con il meccanico Franco
(Massimo Girotti); quest’ultimo è in ritardo e al suo posto “appare” Amedeo Nazzari (nel ruolo di se stesso): la sua macchina si è guastata e dunque chiede alloggio per la notte (la vicenda si svluppa all’interno di un albergo
chiuso per la stagione invernale). Andreina è come fulminata dall’attore, tante volte ammirato sullo schermo; intorno a lui, alla sua auto sportiva, ai suoi gesti affettati i giovani (e soprattutto le giovani) si scatenano in
un euforico fanatismo. Nel giro di poche ore Andreina si innamora del divo, lascia il fidanzato e, il giorno seguente, parte con lui alla volta di Roma e del mondo del cinema (un po’ come accadrà ai protagonisti de I Vitelloni, 1953, e di Intervista,
1987, di Fellini). Nella sua casa eccezionalmente lussuosa Nazzari, d’accordo con le zie di Andreina, impartisce alla giovane una solenne lezione pretendendo immediatamente di possederla dopo una breve cena. Queest’ultima, pur
sempre segnata dalle “antiche” consuetudini del suo tempo (la verginità negli anni quaranta rimane un valore fondamentale), si spaventa e fugge ovvero ritorna precipitosamente all’universo sicuro dei valori tradizionali.
L’attore la riconsegna alle zie e ricorda loro i pericoli connessi allo straripamento del mondo delle fantasie in quello altrimenti duro e scostante del reale; le zie, dotate di maggiore esperienza della capricciosa nipote,
conoscono bene l’argomento e assentono. Il taglio morale del racconto coinferma la politica culturale della statale Cines (in qualche modo antitetica rispetto alla torinese Lux), volta a far sempre trionfare i buoni sentimenti
e gli atteggiamenti più consoni alla tradizione. La pellicola di Limur è il primo consistente contributo alla riflessione intorno al potere di plagio e di condizionamento insito nei moderni media: gli sciocchi deliri
divistici della paesane mostrano un’Italia che, nei lontani anni quaranta, era già “affetta” da un morbo che sarebbe divenuto, nei decenni a venire, un fatto centrale della modernità (lo stigmatizza meglio di tutti ancora
Fellini nel suo capolavoro, La dolce vita, 1960). Quello che però va rilevato, forse al di là delle stesse intenzioni degli autori (che non erano profeti e non erano del tutto consci del mutamento antropologico che
sarebbe intervenuto di lì a poco; in tal senso si vedano le analisi definitive del Pasolini degli Scritti corsari), è che in questo “piccolo” film si racconta non solo la prepotente invasione del fantastico nel reale,
prepotente soprattutto in riferimento a menti prive di strumenti difensivi adeguati e tuttavia ancora di modesta entità rispetto a quella sviluppata dalla gigantesca industria del tempo libero che andrà germogliando in ogni
settore (arte, sport, cultura) nel dopoguerra; ancor di più vi si racconta l’arrivo della modernità nel quieto universo della tradizione: l’universo filmico crea illusioni e modelli di comportamenti la cui astratta libertà,
spesso indifferente alle regole morali, non può venire trasposta nel mondo reale senza creare disordine, subbuglio e sofferenza (il medesimo disordine, ancora a Roma, città simbolo dello spettacolo, causerà la fuga della
giovane sposa in cerca del suo divo nell’altrettanto fondamentale Sceicco bianco felliniano). Le prosaiche e demistificanti considerazioni finali di Nazzari sono in tal senso importanti e rivelano la consapevolezza che i due universi, sogno e realtà, dovrebbero rimanere il più possibile distinti. In modo ancora più radicale si pongono invece altri personaggi del film: il geloso Franco urla che “dovrebbero proibirlo, il cinema” mentre una delle tre zie, la più austera e concreta, si vanta di non avere mai messo piede in una sala cinematografica. Di contro Andreina, infatuata del divo, decide che può rompere ogni impegno preso per seguirlo nella capitale, come si trattasse di un’avventura cinematografica (nel finale Nazzari parla proprio di sua “difficile interpretazione” intorno al duro trattamento riservato alla ingenua ragazza di paese) e con quel gesto infrange inconsapevolmente le consuetudini dettate da una tradizione secolare per tentare il percorso verso l’ignoto della modernità, in ossequio ai propri capricci erotici e in spregio ai propri doveri di fidanzata e futura moglie.
La trasformazione modernista del contesto italiano, decennio dopo decennio, avverrà proprio attraverso l’inserimento nel quotidiano di parole d’ordine prima valide solo nel mondo fittizio del cinema e dei media in generale.
Il cinema è dunque, in se stesso, un potente strumento della modernità: esso modifica, giorno dopo giorno, le convinzioni dei giovani (gli anziani hanno ormai abitudini sedimentate sulle quali è impossibile agire) e
inesorabilmente cancella il rigido mondo della tradizione familiare per introdurre quello della individualistica “dolce vita”. In fondo nel celebre film felliniano il giornalista Marcello è un parente stretto di Andreina:
pedinato da un’incombente fidanzata, egli continua a sfuggirle (e a sfuggire alle regole del matrimonio), affascinato da ogni sorta di stramberia prodotta dalla modernità. La Anita Ekberg della fontana di Trevi è dunque
l’ultima trasformazione del Nazzari del piccolo albergo di provincia: questi divi, in fondo modesti impiegati della grande macchina dello spettacolo, sono stati innalzati al rango di moderne “divinità”, dotate di un proprio
misticismo un po’ fanfaronesco, “apparizioni” a loro modo lagiche della nuova, vincente “religione” materialistico-massonica.
Un’altra apparizione si colloca al centro de Il fiore sotto gli occhi
(novembre 1944; 88 min.), pellicola girata da Guido Brignone nell’estate 1943, interrotta dalle tragiche vicende belliche e completata nel 1944. Una fiamma del passato, l’attrice Maria Comasco (Anna Magnani), irrompe nella vita dell’annoiato professore Silvio Aroca (Claudio Gora) il quale si è stancato anche del “fiore che ha quotidianamente sotto gli occhi”, la moglie Giovanna (Mariella Lotti). Escogita allora un macchinoso trucco: vacanze separate - e nella mendace veste di persone non sposate - nello stesso elegante albergo di Stresa, vacanze durante le quali immagina di poter godere dei favori dell’antica e focosa amante, la quale non è al corrente della sua recente situazione coniugale. Malintesi a non finire in una girandola di situazione abbastanza buffe portano alla prevedibile riappacificazione finale dei due coniugi, dopo che entrambi hanno incassato più di una proposta di matrimonio.
Ispirato all’omonima commedia (1921) dello scrittore romano Fausto Maria Martini (1866-1931), sceneggiata da Gherardo Gherardi e Giorgio Pàstina, il modesto film, non privo di episodi divertenti e ben impaginati, racconta
le tentazioni della modernità in modo bizzarro e stralunato: mentre un esercito di donne all’antica è in cerca di marito nell’albergo sul lago Maggiore, lo sciocco professore cerca di sfasciare il proprio per rincorrere
un’amante del passato la cui accennata volgarità e i cui espliciti ammiccamenti sessuali indicano la pericolosa, “modernista” via di una libertà di relazione che è, comunque, alle porte. Il film, per quanto metta alla berlina
un certo moralismo parruccone (si veda la figura del preside, ben disegnata da Guglielmo Barnabò), finisce col restare fedele al dettato antico della Tradizione, soprattutto per il tramite del saggio editore Sanna il quale,
dopo avere inutilmente corteggiato Giovanna, scoperta l’assurda verità, riporta la pace tra in famiglia ed esplicita il senso morale del racconto. Girato a cavallo dell’8 settembre, in bilico tra due mondi, Il fiore sotto gli occhi è ancora un innocuo prodotto dell’era fascista nel quale il disordine modernista fa capolino solo per venire deriso. Lo stesso Brignone, tuttavia, già tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta, mostrerà una ben differente visione sociopolitica con una serie di pellicole filogaribaldine e apertamente anticlericali (La sepolta viva, Santo disonore e Il conte Sant’Elmo).
testo scritto nel 2005; ultimo aggiornamento nell’ott. 2017
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