Achtung! banditi!, Ai margini della metropoli e Penne nere

Achtung! Banditi!, Ai margini della metropoli, Penne nere e La pattuglia dell’Amba Alagi: resistenti e attendisti (1951-53)

                “1) Cessare le operazioni organizzate su       larga scala; 2) conservare le munizioni e
                i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini... ”
                Proclama del gen. Alexander (13 nov. 1944)

Carlo Lizzani, nato a Roma nel 1922, lavora nel cinema a partire dagli anni quaranta sia come sceneggiatore (Caccia tragica, Il mulino del Po, Riso amaro), sia come aiuto regista (Germania anno zero). L’esordio alla regia avviene con Achtung! Banditi! (novembre 1951; 105 min.), rievocazione di un episodio della Resistenza, sceneggiato da ben otto scrittori (tra essi Rodolfo Sonego, Ugo Pirro, Massimo Mida e Lizzani stesso).
La vicenda racconta, con taglio cronachistico-documentario, l’impresa di una squadra partigiana che deve recuperare un carico di armi preparato dagli operai di una fabbrica, situata alla periferia di Genova. L’azione si interseca con una serie di scioperi che mettono sottosopra la città e che obbligano tedeschi e militi fascisti a operare con durezza nei confronti del personale della fabbrica. Il girotondo, che coinvolge anche l’ingegnere dirigente della stessa (d’accordo con i partigiani) e una sua collaboratrice, sorella di un alpino che negli scontri finali passa tra le file dei partigiani, culmina in un vero e proprio combattimento con numerosi morti da entrambe le parti. Lo scioglimento è ottimistico: i numerosi partigiani sopravvissuti risalgono in montagna con le armi recuperate; a loro si sono uniti buona parte degli operai e perfino un manipolo di alpini.
Lizzani racconta una storia recente (di soli sette anni prima) rifacendosi solo in parte allo stile neorealistico: gli esterni sono suggestivi, preziosi e veritieri (periferie genovesi, lo scalo merci, solenni viadotti) mentre gli attori sono in larga parte professionisti (in alcuni dei ruoli principali troviamo Andrea Checchi, Gina Lollobrigida e Lamberto Maggiorani) mentre l’intreccio narrativo è serrato e coinvolgente (fin artificioso nel suo voler raccontare troppe cose in una volta sola ovvero gli scioperi politici, l’attività dei partigiani, il trasferimento di  macchinari e lavoratori in Germania, il proclama del generale Alexander, novembre 1944, che invita la resistenza a una tregua invernale, le indecisioni degli arruolati nell’esercito della RSI ecc.) come in un western americano, con tanto di “arrivano i nostri” (l’insperato arrivo risolutore degli alpini, in aiuto ai resistenti, nel combattimento concusivo).
Nonostante la vivace e furba costruzione del racconto, che procura alla pellicola un discreto successo di pubblico (questo mentre le opere più “rigorosamente” neorealiste venivano sistematicamente boicottate dalle platee popolari), il film risulta monocorde e privo di mordente. I personaggi sono disegnati in modo scolastico e poco credibile, le svolte narrative sono tutte prevedibili come pure il supporto più o meno entusiastico dei civili all’azione dei resistenti: ne sfocia un prodotto che appare poco più di un compitino ben svolto, nonché ideologicamente rispettoso della vulgata resistenziale che si sta mettendo a punto. L’alleanza di ferro tra operai e partigiani è il cuore pulsante dell’opera, mentre in una casa borghese, nella quale si sono installati con la forza i partigiani in fuga, molte sono le indecisioni e le titubanze. Lizzani è fin d’ora autore organico al PCI e non stupisce che questa sua opera prima vinca, nel 1952, il premio speciale della regia al festival cinematografico di Karlovy Vary, nella Cecoslovacchia comunista.
Uno sguardo meno schierato vede però altre cose.
Questo sanguinoso balletto intorno a un carico d’armi procura decine di morti e future rappresaglie tedesche sulla popolazione civile che Lizzani e company si guardano bene dal raccontare; né compare nei loro dialoghi alcun riferimento all’inutilità di quel balletto, di quegli scontri nelle retrovie all’interno di una guerra il cui esito è segnato da almeno un paio d’anni. Perché dunque mettere in pericolo decine di vite umane della inerte e indifesa popolazione civile - ovvero, si ricordi, il massimo patrimonio di una nazione, di gran lunga superiore a quello di qualunque macchinario industriale - per operazioni belliche ininfluenti sull’esito compessivo dello scontro mondiale?
La verità è che le squadre d’azione partigiane, egemonizzate dalle forze comuniste, agivano su ordine di Stalin e Togliatti per interessi che riguardavano principalmente il potere sovietico-comunista e la connessa logica della rivoluzione marxista, rivoluzione che si pensava potesse scatenarsi alla fine della guerra. Il PCI insomma, privo di appoggi tra le forze angloamericane, andava preparando una propria posizione di forza attraverso questa inutile guerra civile, in conseguenza della quale esso contava di poter dettare almeno alcune condizioni nell’immediato dopoguerra (come infatti accadrà). L’Italia ufficiale aveva definitivamente accettato la propria sconfitta con l’armistizio dell’8 settembre 1943 e, nelle zone ancora occupate dai tedeschi, la via più saggia sarebbe stata quella della non collaborazione: stare in montagna, certo, ma “in vacanza”, senza coinvolgere con inutili atti terroristici la vita delle popolazioni civili. Non collaborare sarebbe stato comunque utile a una più rapida risoluzione del conflitto, senza peraltro provocare morti inutili. Ma la logica attendista era la grande nemica della resistenza comunista, come è noto. Il film di Lizzani dunque esalta la scelta avventurista della bande partigiane comuniste (ovviamente non vengono mai definite come tali, così da poter dare ai personaggi un valore ancor più universale) senza mai alzare la testa dalla piccola guerricciola inutile che si va combattendo alla periferia di Genova. Il quadro complessivo manca, l’Italia littoria di ieri non esiste: secondo una tipica logica di ogni esaltata  setta rivoluzionaria, la Storia sembra incominciare solo ora, da una specie di risorgente anno primo. La visione utopistica del comunista Lizzani non è poi così lontana da quella dall’ex socialista Mussolini il quale, dopo aver attuato la rivoluzione fascista del 1922, decide di numerare ex novo gli anni della storia d’Italia, ovviamente in lettere romane.
La costruzione dell’Utopia, perennemente coltivata da alcuni settori del mondo intelettuale, è uno dei pericoli sempre incombenti sull’umanità.
Va sicuramente meglio il secondo, misconosciuto film di Lizzani, Ai margini della metropoli (febbraio 1953; 95 min.) complesso racconto giudiziario immerso nell’universo dei miserabili che vivono nelle borgate intorno a Roma, nonché ispirato a un fatto di cronaca dell’epoca (alla sceneggiatura collaborano Massimo Mida, il regista stesso e altri). Mario Ilari (Michel Jourdan) è accusato di avere pugnalato una prostituta sotto un ponte; l’avvocato rampante Roberto Martini (Massimo Girotti), in cerca di notorietà e in procinto di sposare un’altezzosa fanciulla dell’alta borghesia, si accolla il caso: dapprima lo sfrutta senza troppi scrupoli, poi finalmente dà ascolto al poveraccio ingiustamente accusato, a sua moglie (Giulietta Masina) e alla sua amica Luisa (Marina Berti), una modesta dattilografa che finirà per divenire l’aiutante sul campo dell’avvocato e probabilmente sua moglie.
La matassa è ingarbugliata tra false testimonianze (un barbone incastra il falso colpevole per portargli via un pezzetto di terra), un racket di malavitosi che si occupa di espatri clandestini e un universo giudiziario classista e sordo alle ragioni di un uomo qualunque, schiacciato da troppi indizi. Il finale, tuttavia, riserva colpi di scena a ripetizione, sparatorie e la scoperta dei veri colpevoli.
Lizzani se la cava piuttosto bene, sviluppando quel talento narrativo, influenzato dagli stereotipi hollywoodiani, che già era evidente nell’opera prima. L’autore ne è cosciente tanto da far dire a una figurante che Girotti sembra un attore americano. Ma la buona riuscita del lavoro non consiste solo in questo: il ritmo serrato, il gusto per il mystery (gli assassini vengono scoperti solo nell’ultima sequenza) e l’organizzazione a puzzle del racconto (in un andirivieni cosante tra passato e presente, con dettagli che emergono solo gradualmente) si coniugano con un bel gusto figurativo, un occhio attento alla descrizione delle borgate (al punto che si respirano già le atmosfere di Le notti di Cabiria, Fellini, 1957) e una capacità di accostare tipologie umane svariate e non manichee. Infatti se l’universo altoborghese viene tratteggiato con l’abituale disprezzo socialfascista (ossia tipico sia del cinema del regime, sia di quello di sinistra), il mondo dei poveracci non è tutto rose e fiori: ci sono i criminali, gli assassini, i trafficanti, i vagabondi che testimoniano il falso per disfarsi di un concorrente nell’utilizzo di un terreno pubblico e infine ci sono anche i proletari “classici”, “neorealistici” come il protagonista alla perenne ricerca di un lavoro, la sua eroica e fedele moglie, la sua generosa amica dattilografa. Lo spaccato è ben dipinto e avvince, anche quando i troppi tentennamenti dell’avvocato (un bravo Girotti mal servito da un copione con troppe giravolte) - ora attratto dall’universo degli umili, ora da quello dei ricchi, ora nuovamente pronto a giocarsi tutto (fidanzata altolocata compresa) per salvare l’innocente dal carcere - mettono a dura prova la pazienza dello spettatore.
Il quadro viene completato dall’intenso patetismo della colonna sonora di Franco Mannino, il cui calore, tipicamente italiano, contribuisce al riuscito connubio di differenti tradizioni artistiche. Le regole del noir giudiziario americano sembrano infatti acquisire nuova vita allorché immerse nella tradizione melodrammatica, tipica della penisola: semplici schemi narrativi ad effetto si caricano pertanto di un’umanità vera e quotidiana e approdano a una narrazione di notevole intensità emotiva.
La critica “impegnata” dell’epoca, che tanto ha applaudito allo scolastico film resistenziale, non esita a sparare a zero su questo dramma giudiziario, definito “sgangherato” e “falso” (sulla autorevole rivista “Cinema”, n. 112) nel disegno dei personaggi. In realtà è probabile che quella visione così articolata e chiaroscurale dei meandri del mondo proletario, con le sue bassezze e i suoi crimini, sia risultato indigesto agli intellettuali progressisti, sempre pronti a celebrare in modo stereotipato, le presunte qualità degli umili come nettamente contrapposte al presunto cinismo antisolidale dei borghesi.
In ogni caso il fim è un solenne fiasco commerciale ed é tutt’ora una pellicola completamente dimenticata.  

Oreste Biancoli, dopo un silenzio di quasi un decennio, torna dietro la macchina da presa per firmare il suo ultimo lavoro, Penne nere (novembre 1952; 95 min.), su soggetto e sceneggiatura propria (a quest’ultima collabora, tra gli altri, Giuseppe Berto). Nel diradato panorama di pellicole dedicate al recente conflitto, il film, dedicato al valore degli alpini, appare una diretta risposta ad Achtung! Banditi! in quanto contrappone fieramente una linea di responsabile attendismo alla sciagurata faciloneria dei “resistenti” attivi.
La vicenda si svolge, quasi per intero, in un piccolo paesino di montagna della Carnia, posto ai confini con la Jugoslavia. Un po’ come avverrà nel capolavoro di Edgar Reitz, Heimat (1984), anche Biancoli racconta la “grande” storia italiana studiandone i riflessi in questo umile microcosmo rurale. Alla fine degli anni trenta la vita si dipana tranquilla e ordinaria tra le poche anime del borgo: si  notano in particolare la sedicenne Gemma (Marina Vlady) perdutamente innamorata dell’aitante Pieri (Marcello Mastroianni). La ragazza, che prima stava a Udine a studiare con scarso profitto, preferisce rientrare al paese dove, di fronte a un perplesso Pieri, rivendica con orgoglio la certezza di sentirsi pronta per fidanzamento e matrimonio; ella cita altre ragazze del paese che a diciotto anni sono già mogli e madri. Come si vede il punto di vista degli autori tratteggia un tipo di donna tradizionale e lontana da qualunque impegno “culturale”. Giunge improvvisa la guerra, gli uomini vengono inquadrati nei battaglioni alpini e spediti al fronte mentre, a casa, donne e anziani continuano la vita di sempre. L’8 settembre sorprende i protagonisti in Grecia mentre il paesino - dove la popolazione si stringe intorno alla saggio parroco - viene occupato da tedeschi e cosacchi. Gli alpini, compresa che la guerra è definitivamente perduta, rifiutano sia la prigionia, sia la resistenza attiva e si mettono in cammino per tornare a casa, valicando a piedi, in un’estenuante marcia, decine di montagne jugoslave. Giunti infine al paesino, resisi conto che esso è occupato dagli ex alleati (le regioni orientali erano state praticamente già annesse da Hitler e “momentaneamente” escluse dalla RSI), preferiscono attendere in montagna l’evolvere degli accadimenti, così da non mettere a rischio la vita, già alquanto precaria, di donne, anziani e bambini; preferiscono insomma proteggere l’unico reale e insostituibile patrimonio della nazione, quello costituito dai suoi abitanti e, in seconda istanza, dai loro beni materiali (le case, i campi e gli animali), anziché aggredire un nemico numericamente assai superiore e che non aspetta altro che qualche provocazione per potersi abbandonare a facili rappresaglie. Solo nelle ultime sequenze, allorché appare chiaro che i tedeschi in fuga (negli ultimi giorni del conflitto) hanno deciso di far saltare la diga che incombe sul piccolo abitato, gli alpini scendono a valle e affrontano le retroguadie germaniche per sventare lo sciagurato evento che avrebbe cancellato l’intero loro paese. Nel roseo epilogo Gemma e Pieri sono sposati e hanno un bel bambino: la vita continua, scandita da immutabili, antichissime regole.
Come si nota Penne nere guarda agli eventi bellici in modo radicalmente differente rispetto all’ottica di Lizzani, Sonego, Pirro e soci. Cineasta certamente moderato, già autore del brutto e meramente propagandistico Piccolo alpino (1940; vedi), Biancoli sa questa volta girare con elegante misura e spesso con toccante sincerità. Senza mai elevarsi a cinema d’arte, il suo racconto è quantomeno spigliato e credibile, attento ai semplici dettagli della vita quotidiana e scevro da qualunque retorica bellicista o antibellicista. La guerra è una sciagura ricorrente (numerosi i rimandi alla prima guerra mondiale) cui gli alpini fanno fronte con abnegazione e senso del dovere; le partenze sono venate di mestizia e sul senso della guerra non si spende una parola (evitando tra l’altro sciocche ipocrisie). Al contrario l’unica cosa che smuove gli animi è il profondo rispetto per la vita umana: non ci si preoccupa se Tedeschi o Cosacchi ruberanno animali (i macchinari della fabbrica  genovese, nel caso del film di Lizzani) o se devasteranno pascoli, orti e case; ci si preoccupa invece, grazie anche alla guida illuminata del sacerdote la cui chiesa funge da prezioso luogo di ritrovo di una comunità spaventata e smarrita, di preservare il maggior numero di vite possibili, di non provocare in alcun modo l’occupante, di aspettare e sperare che “passi la tempesta”. La guerra civile, insomma, non attecchisce in questo piccolo paesino della Carnia: la tiene lontana lo spirito di corpo degli alpini e la vita montanara regolata da semplici, tradizionali incombenze legate ai ritmi delle stagioni e non alle fantasie ideologiche, tipiche delle “sradicate” popolazioni metropolitane.
Penne nere, racconto pulsante e semplice, si lascia perdonare il suo stile un po’ scolastico proprio in virtù del profondo amore per la vita - sentita come un valore assoluto - che permea ogni episodio del racconto. Per le astrazioni ideologiche, temibili e devastanti utopie pronte ad aggredire e deformare il tradizionale scorrere dell’esistenza secondo antiche usanze, non c’è spazio alcuno: fascismo, nazismo, comunismo e anche liberalismo non vengono mai citati, neppure di sfuggita. I problemi sono solamente quelli di persone che fronteggiano altre persone, in un contesto di aspra lotta.
Il pubblico mostra di gradire questa pellicola, decretandone l’ottimo successo commerciale; anche il Centro Cattolico saluta in modo lusinghiero il film mentre - come dubitarne - esso viene del tutto boicottato dalla critica “impegnata” e dalle sue riviste.

Circa un anno dopo esce La pattuglia dell’Amba Alagi (ottobre 1953; 101 min.), film girato da Flavio Calzavara su sceneggiatura propria, di Fulvio Palmieri e di Guglielmo Santangelo, in cui si condivide il punto di vista conservatore e nazionalista di Penne nere. Tuttavia il risultato appare più discutibile, in quanto venato da una retorica che suona in più punti forzata e insincera, laddove il film sugli alpini optava per una scrittura sottotono, più misurata e circospetta.
Lo schema generale del racconto appare inoltre debitore a quello di Uomini e cieli (De Robertis, 1943; vedi). In entrambi i casi un reduce fa visita alle famiglie dei combattenti con cui ha diviso l’esperienza militare, con la differenza che nel film sull’aviazione il protagonista andava a trovare ex militari feriti, ma ancora vivi (mentre la guerra infuria) mentre nel film sull’Amba Alagi, Luciano (Luciano Tajoli) va a far visita a parenti e amici di tre soldati morti e solo in un caso ritrova fortunosamente un compagno d’armi che credeva morto.
Sulla celebre collina eritrea (posta a sud di Asmara, quasi al confine con l’Etiopia) le truppe italiane resistono con onore alle soverchianti forze britanniche; poi si arrendono (maggio 1941). Gli Inglesi offrono loro l’onore delle armi e in seguito dignitose esequie al duca d’Aosta e viceré d’Etiopia (morirà in prigionia nel 1942), due eventi documentati nel film da preziose immagini di repertorio concesse dalle autorità inglesi.
In un avamposto sulla montagna resistono invano Luciano e tre commilitoni (un napoletano, un siciliano e un milanese): questi ultimi muoiono, mentre il protagonista, seppur ferito e azzoppato, si salva. Si salva anche un altro soldato, poiché diserta poco prima della battaglia finale. Alcuni anni dopo Luciano decide di far visita agli amici e alle famiglie dei suoi compagni di sventura, cercando di sistemare le situazioni lasciate aperte da costoro. A Napoli salda un debito e diviene amico di Ciccillo (un ottimo Dante Maggio), un musicista che poi lo segue nelle successive peregrinazioni su e giù per la penisola. In Sicilia riesce a cacciare una “malafemmina” (Carla Calò) dalla casa dell’amico morto e a restituirla alla dolente madre del caduto; nel milanese si incontra col maestro (Aldo Silvani) del soldato deceduto e con lui, di fronte a una scolaresca commossa, rievoca la figura del coraggioso soldato. In questo episodio, quello più direttamente dedicato a riflettere sul senso della guerra, dell’onore e della sconfitta, appare evidente il punto di vista conservatore degli autori, pronti a tutto scusare in nome di un superiore Dovere del soldato nei confronti della Patria. Come sempre, in questi problematici film sulla guerra, sostanzialmente voluta dal fascismo, le questioni politiche appaiono inesistenti, il fascismo non viene mai nominato, la sostanza dello scontro ancora meno, e tutto si riduce a un’elegia acritica del soldato, in questo caso fastidiosa poiché intrisa di un’accensione retorica spropositata (nel terribile finale Luciano muore e, in un grottesco Paradiso, ritrova i compagni deceduti che lo attendono... ). La questione si fa ancor più scottante quando si rifletta sul fatto che quei soldati stavano difendendo l’Amba Alagi ovvero una terra africana (l’Eritrea), acquisita dal colonialismo ottocentesco dei Savoia ma, come è ovvio, totalmente estranea alla storia delle popolazioni latine della penisola. Tanto è vero che, persa nel 1945, essa è completamente uscita, senza nostalgie o traumi, dalla storia italiana, poiché a quella storia risultava estranea in partenza.
Nei fatti raccontati Calzavara, lodevolmente, contrasta la prevalente ideologia resistenziale (pur non occupandosi della guerra civile italiana), sempre lodevolmente esalta il cameratismo militare e i suoi profondi contenuti di solidarietà e amicizia temprati in situazioni estreme, ma lo fa secondo una logica acritica ed enfatica, senza un cenno alle tragedia dell’8 settembre (tragedia in qualche modo implicita nell’avventurismo fascista) e dunque l’esito non possiede l’efficacia del più dimesso e realistico Penne nere. Nel film “africano” la guerra viene raccontata come un evento fatale e ineludibile, anziché come la precisa conseguenza di scelte politiche complesse e, nel caso italiano, totalmente sbagliate (si è più volte ricordato il disastroso decisionismo mussolininiano che manda allo sbaraglio un paese del tutto impreparato ad affrontare la guerra, come dimostreranno subito gli esiti fallimentari conseguiti dall’esercito in Africa e soprattutto in Grecia).
Nel quarto episodio, dedicato al disertore che torna a casa dopo molti anni (nei quali ha fatto il contrabbandiere, senza preocuparsi della moglie, interpretata da Milly Vitale) e scopre di avere un figlio, siamo al racconto d’appendice: Luciano si sacrifica per l’amico, muore per avvisarlo di un pericolo incombente e salva così la famiglia nuovamente riunita.
Numerosi sono i momenti riusciti della pellicola, quasi tutti generati dalla simpatica verve umoristica di Dante Maggio (i primi due episodi che si svolgono in un’atmosfera più leggera, a tratti perfino umoristica, rispeto al complesso del film), momenti che non riescono però a controbilanciare la pesantezza didascalica - un po’ ottusa, come si é detto - dell’insieme. In ogni caso il pubblico accorre numeroso e sembra dunque gradire la pellicola.