FBI operazione Baalbeck, La sfida viene da Bangkok, La sfinge sorride prima di morire. Stop Londra, Un tango dalla Russia, Agente 077 missione Bloody Mary, Agente 077 dall’Oriente con furore, Slalom, Agente 3S3 passaporto per
l’inferno, Agente 3S3 massacro al sole, Requiem per un agente segreto, Da 077: intrigo a Lisbona, Agente Z 55 missione disperata, Operazione Poker, A 008 operazione sterminio, Superseven chiama Cairo, Le spie amano i
fiori, Un milione di dollari per sette assassini, Agente X 1-7 operazione oceano, Agente segreto 777 operazione mistero, Agente segreto 777: invito a uccidere, Asso di picche operazione controspionaggio,
Superargo contro Diabolicus, 00-2 agenti segretissimi, Due mafiosi contro Goldginger, 002 operazione Luna, Le spie vengono dal semifreddo, James Tont operazione UNO, James Tont operazione DUE e Spia spione: nel solco di James
Bond (1964-66)
“Il signor Bond è un tipo orribile, un sadico che uccide freddamente i propri avversari... un bruto che si comporta da
mascalzone con le donne. In fondo il signor Bond ha la condotta di un fascista; avrebbe fatto meraviglie con le SS... e poi non ho
mai visto il signor Bond leggere, andare a teatro o a un concerto. Credo che sia un minorato mentale” T. Young, regista di Agente 007 licenza di uccidere
Agente 007 licenza di uccidere (T. Young, 1962) esce sugli schermi italiani nei primi mesi del 1963 mentre la seconda avventura di James Bond, Dalla Russia con amore (T. Young, 1963), arriva esattamente un anno dopo. Marcello Giannini, autore di due soli film (entrambi del 1964), è tra i primi a girare una pellicola nel solco del planetario successo ottenuto dall’agente segreto inglese. Si tratta di
FBI operazione Baalbeck
(giugno 1964; 95 min.) basato su una sceneggiatura del regista e di Romolo Marcellini, con un cast di tutto rispetto. La pellicola è ambientata in Libano, tra Beirut e le rovine di Baalbeck ovvero la romana Heliopolis.
La vicenda illustra la lotta senza quartiere tra agenti segreti americani e francesi e una potente banda di contrabbandieri d’armi che opera in Libano. Un misterioso agente si infiltra nell’ambiente dell’organizzazione
criminale: neppure lo spettatore sa chi sia, rimanendo indeciso tra Dick (Jacques Sernas) e Isabel (Rossana Podestà). La banda appare capeggiata da un archeologo cieco (George Sanders; in Licenza di uccidere c’era un geologo al servizio del malvagio Dr. No) e guidata dal gestore di un night club (Leopoldo Trieste); nei dintorni poi si aggira il losco John Volpi (Folco Lulli)... Fino all’ultimo Giannini mantiene la narrazione in un clima di forte ambiguità e la soluzione finale è decisamente insolita: Dick, che recita alla maniera di Sean Connery, è in realtà la mente criminale mentre l’agente segreto è Isabel. La sparatoria finale tra le rovine archeologiche di Baalbeck chiude l’avventura.
Gli elementi chiave dei primi due Bond (ambiente esotico, musica fragorosa e pulsante affidata all’organico di un’orchestra jazz, omicidi a ripetizione) sono rispettati da Giannini il quale però beffa lo spettatore con
l’astuto rovesciamento finale. Certo il budget è povero: fotografia in bianco e nero, sovrabbondanza di scene in interni, esterni quasi tutti notturni; ciononostante l’ottimo cast e il serrato intreccio tengono desta
l’attenzione fino allo scioglimento.
Parolini si cimenta nel nuovo genere spionistico con La sfida viene da Bangkok
(settembre 1964; 90 min.), pellicola basata su una sceneggiatura del regista, ambientata nella capitale tailandese e incentrata su un misterioso giacimento di diamanti la cui ricca produzione minaccia gli equilibri finanziari mondiali. A capo della miniera agisce uno squilibrato, reduce dai manicomi asiatici, il quale tratta come schiavi i disgraziati che lavorano per lui. L’agente Werner (Brad Harris) viene inviato per fare luce sul mistero: dopo svariate peripezie, individua il giacimento, viene fatto prigioniero dagli sgherri del criminale e si salva in extremis, evitando che la cittadella diamantifera, minata dal pazzoide in fuga, salti in aria con tutti i residenti. Il folle viene linciato dagli inferociti asiatici.
Parolini gira senza entusiasmo e senza estro; fotografa qualche interessante squarcio di Bangkok ma non è in grado di valorizzare l’ambiente esotico. Gli attori sono poco convinti, le sparatorie e le scazzottate abbondano,
senza emozionare e la colonna sonora non riesce ad aggiungere nulla. Lo stile di Bond non abita qui.
Duccio Tessari, giunto al suo terzo film, gira La sfinge sorride prima di morire. Stop – Londra
(settembre 1964; 110 min.), bizzarra contaminazione di thriller e spy story scritta dal regista con Guido Zurli. La cornice è quella tipica del cinema di Bond: da Londra una compagnia di assicurazioni invia al Cairo un proprio agente (Tony Russell) per ritrovare una fortuna in lingotti d’oro, frutto di una rapina; alla ricerca dell’oro c’è poi un’intera spedizione di archeologi, nonché la polizia locale. Dopo una prima parte abbastanza vivace ambientata tra il Cairo e le piramidi di Giza, l’intreccio si arena lungo il Nilo, tra presunti scavi e prolisse triangolazioni amorose; non mancano dialoghi di matrice esistenzialista, ripresi dal recente successo del cinema di Antonioni e decisamente fuori posto. Nel finale tutti i nodi vengono al pettine: i criminali, celati dietro differenti mascherature, escono allo scoperto e vengono sconfitti. I lingotti tornano ai legittimi proprietari.
Tolte alcune interessanti inquadrature della sfinge e alcuni scorci del Cairo, il film è modesto. Gli intrighi della prima parte portano a qualche interessante sequenza di taglio hitchcockiano (durante il viaggio lungo
il Nilo il nostro eroe si libera di una cassa contenente un cadavere e rischia di venire scoperto); sono però episodi isolati. Tessari non è in grado di approfondire tale versante e, subito dopo, si perde nel deserto egiziano.
Il generico cast certamente non lo aiuta. I colpi di scena finali sono frettolosi e poco sorprendenti.
Goldfinger (Hamilton, 1964) esce in Italia nel dicembre 1964, tra le pellicole natalizie. L’anno successivo sugli schermi compare una consistente schiera di imitazioni italiane che diverranno ancora più numerose nel biennio 1966-67. Il fenomeno non diviene realmente massiccio poiché il periodo 1965-68 è dominato innanzitutto dalle imitazione dei western di Sergio Leone, ma possiede tuttavia una certa importanza, attori e registi specifici. Va anche detto che clonare un film di James Bond era assai più arduo che ricalcare un western all’italiana il quale nasceva già come b-movie a basso costo; al contrario le pellicole sull’agente segreto inglese erano (e sono) estremamente costose per scenari, location, scene spettacolari, effetti speciali ecc. Anche per tale motivo le imitazioni non furono moltissime e rimasero – per forza di cose - assai distanti dagli originali.
Una tra le più scadenti è Un tango dalla Russia (noto anche come Agente segreto 070: Un tango dalla Russia; maggio 1965, 80 min.) girato da Cesare Canevari con un cast di attori sconosciuti, in una Venezia
quasi irriconoscibile. Film poverissimo (in bianco e nero) racconta in modo confuso le trame di una misteriosa organizzazione che vorrebbe creare una razza di superuomini grazie a un elisir di lunga vita. Un poliziotto (Dan
Christian) indaga, rischia la pelle ma riesce infine ad averla vinta. Il cattivo muore nell’esplosione di un motoscafo in fuga (il rimando è alla parte finale di Dalla Russia con amore). Indeciso tra il fumetto, il
film di fantascienza e la spy story - senza possedere la qualità media di nessuno di questi generi - la pellicola è goffa e dilettantesca (trash è il termine con cui si vorrebbe oggi rivalutare una simile cianfrusaglia...).
Tra i registi che si dedicano con maggiore continuità a questo filone troviamo Sergio Grieco che firma (con lo pseudonimo Terence Hathaway, miscelando i nomi di
Terence Young e Henry Hathaway) nel 1965 un dittico che ricalca i modelli fin dai titoli: Agente 077 missione Bloody Mary (agosto 1965; 95 min.) e Agente 077 dall’Oriente con furore (settembre 1965, 101 min.). Nel primo film, basato su una sceneggiatura di Sandro Continenza, Leonardo Martin e Marcello Coscia, il nostro agente (Ken Clark), che fa parte della Cia, deve recuperare un ordigno nucleare chiamato in codice Bloody Mary. Sulle sue tracce ci sono però spie cinesi e russe, in competizione tra loro; al posto della Spectre, c’è “Il giglio nero” (ubicato in una clinica estetica nei dintorni di Parigi) guidato dal prof. Betz (Umberto Raho). Il nostro eroe deve vedersela con gli avversari ora in treno (assistiamo a un furioso pestaggio, come già in Dalla Russia con amore),
ora su un cargo che viaggia verso Il Pireo. In una Atene moderatamente turistica si svolgono gli ultimi complicati episodi di questo duello a tre, in una sequenza di colpi di scena quasi tutti però ampiamente prevedibili.
Il film possiede un buon ritmo, attori accettabili, dialoghi abbastanza brillanti e scenari interessanti, cosicché risulta complessivamente piacevole pur senza annoverare niente (né un attore, né una specifica sequenza, né uno
scenario) di realmente memorabile. Di buona fattura anche la colonna sonora di Angelo Lavagnino, ovviamente nello stile di quelle bondiane di John Barry. La seconda puntata, Agente 077 dall’Oriente con furore (ottobre
1965, 95 min.), è mediocre. Questa volta il girotondo riguarda un fisico nucleare rapito da una mini Spectre e ricercato sia da agenti americano, come il nostro 077, sia da agenti russi. Il tutto si riduce ad un’infinita caccia
al tesoro, ripetitiva e sciocca (i sicari non usano mai le armi da fuoco e tutto si risolve in continue scazzottate come in un western) negli scenari turistici di Parigi, Madrid e Istanbul. Attori appena sufficienti, ritmo
blando, musica di routine (Piero Piccioni), umorismo poco riuscito sono i caratteri di questa fiacca pellicola. Nel finale un piccolo colpo d’ala: il cattivo, inseguito da tutti, fugge con un potente e fantascientifico raggio
laser col quale dapprima dissolve gli inseguitori e poi, colpito da una lancia come in un western hollywoodiano, dissolve se stesso e la barchetta sulla quale contava di prendere il largo.
Notiamo inoltre uno 077 che fugge su un auto dotata di mitragliatori (come quella presente in Goldfinger) e l’ampio finale ambientato in villa su scogliera con donna in pericolo, evidentemente suggerito da Intrigo internazionale (Hitchcock, 1959).
Gli incassi di entrambi i film furono discreti.
Sergio Sollima, regista destinato a una carriera importante, esordisce nell’ambito del cinema spionistico con il mediocre dittico dedicato all’agente 3S3. In
Agente 3S3 passaporto per l’inferno
(mag.1965; 95 min.) si copia lo schema narrativo del cinema di James Bond: agenti segreti occidentali e russi (rappresentati da Fernando Sancho) danno la caccia all’Organizzazione, un clan criminale che infastidisce entrambe le superpotenze. Il risultato è ovviamente quello di creare prodotti tendenzialmente apolitici (si fa per dire poiché la posizione meramente decorativa di quasi tutti i personaggi femminili dichiara, senza equivoci, il carattere conservatore di questa come di tutte le pellicole nate nel solco di 007), che non infastidiscano i potenziali spettatori di sinistra. La vicenda si riduce alla solita sequenza di tentati omicidi ai danni dei coraggiosi agenti (li guida Giorgio Ardisson) che, tra Vienna e Beirut, cercano di eliminare gli antagonisti. Il cast è opaco e gli scenari sono generici (c’è la ruota del Prater); merita una citazione solo la sequenza iniziale in cui una donna spaventata fugge e, dopo una lunga corsa, si affida a un presunto salvatore che prima la tranquillizza e poi, a freddo, la ammazza. Argento rielaborerà questa sequenza in uno degli episodi più riusciti di Inferno (1980).
La pellicola riscuote un notevole successo, fatto abbastanza insolito per questo genere di lavori e così Sollima si ripresenta un anno dopo con la seconda puntata ovvero Agente 3S3 massacro al sole
(mag. 1966; 120 min.), pellicola ambiziosa e dalla lunghezza inusitata nel campo dei Bond all’italiana. Il film è certamente superiore al precedente e annovera nel cast, oltre a George Ardisson, un ottimo Frank Wolff nel ruolo di una spia russa e un divertente Fernando Sancho che dà vita a un piccolo dittatore sensibile al fascino femminile; inoltre vi compaiono un paio di sequenze notevoli (soprattutto un lungo inseguimento tra auto e furgoni lungo le scalinate impervie di un’isoletta sudamericana).
Purtroppo la trama non si discosta dai consueti stereotipi e mostra la consueta alleanza tra spie americane, inglesi e russe contro una nuova Spectre che possiede una potente arma batteriologica capace di sterminare la
popolazione di intere città senza lasciare tracce visibili. Gli incassi furono questa volta deludenti e obbligarono Sollima a rinnovare il proprio stile.
Il terzo ed ultimo film di Sollima ispirato a James Bond è il notevole Requiem per un agente segreto
(ott. 1966; 105 min.), opera che si colloca tra le poche significative nate in questo genere filmico decisamente secondario. La pellicola, interamente ambientata in una suggestiva Marrakech, racconta della lotta serrata
tra un’organizzazione criminale diretta da Rubeck, un ex nazista (Peter Van Eyck) e agenti segreti inglesi e americani decisi a distruggere, con qualunque mezzo, quel centro di sovversione, sempre pronto a lavorare per chi paga
meglio. Siamo in un’ottica non pienamente politica: lo scontro è semplicemente tra il bene, rappresentato da agenti anglosassoni che tuttavia usano comunque metodi spicci e spesso criminali, e il male rappresentato da ex
nazisti spietati e privi di qualunque sentimento umanitario ovvero individui formati dall’etica della razza superiore del nazismo tedesco. Lo schema narrativo è dunque quanto di più ordinario e prevedibile. La realizzazione
però è di buona qualità. spesso addirittura di notevole eleganza. Tutta l’estesa sequenza iniziale, con la lunga caccia all’uomo che sfocia nella morte di un agente americano, è magistrale e, non a caso, cita L’uomo che
sapeva troppo (Hitchock, 1956), celebre capolavoro hollywoodiano ambientato appunto a Marrakech (nella parte iniziale). Infatti l’agente occidentale, pressato da un inseguitore marocchino, lo ammazza mentre assiste a uno spettacolo di strada: il rumore del colpo di pistola viene coperto dalla invadente musica percussiva dei danzatori secondo la logica hitchcockiana della celeberrima sequenza dell’attentato all’uomo politico nella Royal Albert Hall. Anche le sequenze successive con Bingo (Stewart Granger) che si destreggia abilmente nella città marocchina, mandando a vuoto le tante trappole che gli vengono tese da Rubeck, sono realizzate con cura per i dettagli e con un tono realistico che manca completamente negli altri film nati nel solco di 007. La pellicola, dunque, somiglia più a un thriller hitchcockiano che a un clone dei film bondiani.
Nella seconda parte la vicenda rischia di farsi però ripetitiva e soprattutto l’inserimento della spia norvegese (Giulio Bosetti) idealista, che vuole Rubeck arrestato a tutti i costi e inviato a Oslo per rendere conto di
un attentato aereo di dieci anni prima, inserisce un elemento romantico a tratti retorico. Bingo, tuttavia, cede all’emotività e, quando l’amico viene assassinato da uomini di Rubeck, decide di cambiare bandiera, rompe il patto
con il nemico, ormai pronto ad arrendersi agli occidentali (i quali sono ansiosi di conoscere i segreti della organizzazione mercenaria) e consegna il criminale ai norvegesi. L’agente Bingo, infido e violento, si redime e
accetta la logica umanitaria degli europei a scapito del servizio che lo ha ingaggiato. Anche questa svolta narrativa è insolita: il protagonista, più cinico e violento di Bond nella prima parte del racconto, diviene un eroe
romantico nel finale. Se altri registi italiani avessero seguito Sollima in questo sforzo di conversione realistica del genere spionistico (si noti che in Requiem mancano totalmente gadget stravaganti, inseguimenti motorizzati e divagazioni fantascientifiche), basato anche su un cast di rilievo perfettamente a proprio agio (ci sono anche Daniela Bianchi e Marisa Mell), forse sarebbe potuto nascere un genere italiano degno di nota, capace di durare nel tempo e di interessare il panorama filmico europeo e americano. Invece Requiem rimane un tentativo isolato, anche a causa del suo scaro successo commerciale.
Il film, generalmente lodato dalla critica dell’epoca, ottenne infatti modesti incassi.
Anche l’argentino Tulio De Micheli e l’italiano Federico Aicardi adottano la stessa sigla in Da 077: intrigo a Lisbona
(agosto 1965, min.) nel quale, partendo da un soggetto di Jesus Franco, si racconta un girotondo di agenti segreti e di criminali di una organizzazione spionistica “privata” intorno ai segreti di un fisico nucleare che vive nascosto nella capitale portoghese.
La pellicola è scadente da tutti i punti di vista: intreccio, recitazione (con l’eccezione di Fernando Ray, il capo dei criminali, finito in una pellicola non all’altezza della sua fama; c’è anche Marilù Tolo),
valorizzazione di Lisbona (di cui si intravedono solo poche strade), ritmo narrativo, musica. Tra lentezze, ripetizioni e trucchi spionistici piuttosto ridicoli il film termina con una sparatoria in puro stile western
(italiano) all’interno di una fortezza abbandonata. Pochi gli incassi. Da dimenticare.
Di scarso valore è pure Agente Z 55 missione disperata
(novembre 1965; 100 min.) girato da Roberto Bianchi Montero a Honk Kong. La scontata vicenda narra il violento carosello che si svolge intorno a un fisico nucleare scomparso per il quale si azzuffano l’agente americano Z55 (German Cobos), bande cinesi e organizzazioni internazionali del crimine. Inseguimenti, sparatorie e scazzottate si susseguono senza alcuna originalità, né d’altro canto attori, recitazione e dialoghi riescono a tener desta l’attenzione.
Rimane all’attivo del film uno sguardo abbastanza ampio (numerose le sequenze aeree) sulla Honk Kong degli anni sessanta.
Di poco migliore risulta Operazione poker
(dicembre 1965; 120 min.), quinto film di Osvaldo Civirani, in cui si narrano le peripezie dell’agente americano S14 (Roger Browne) alle prese con una potente organizzazione spionistica cinese la quale sta eliminando in modo sistematico agenti americani a Ginevra, Casablanca e Copenhagen. La dirige Yun Tao, diplomatico di Saigon (sullo sfondo c’è il conflitto del Vietnam, alle prime battute) che gli americani credono un loro alleato. La caccia al tesoro riguarda un marchingegno a raggi infrarossi che permette di vedere al di la di pareti e ostacoli solidi (evidente la derivazione dal fumetto Nembo Kid/Superman assai in voga negli anni sessanta), attualmente in dotazione a un giocatore di poker che se ne serve per vincere al tavolo da gioco.
Attori spenti, scazzottate di routine, scenari poco valorizzati, dialoghi banali affondano la pellicola al cui attivo c’è solo un insolito ritmo nevrotico: i morti non si contano così come i repentini mutamenti di scenario.
Assai modesti anche gli incassi.
L’esordio di Lenzi nell’ambito del cinema spionistico avviene con A 008 operazione sterminio
(ag. 1965, 90 min.), pellicola anonima in cui i difetti superano i pochissimi pregi. La sceneggiatura inesistente prevede una coppia di agenti segreti - l’affascinante Ingrid Schoeller e l’opaco Aberto Lupo - alla ricerca
della solita formula scientifica di importanza mondiale. In realtà il film si esaurisce nella consueta sequenza di attentati che la coppia protagonista subisce ad opera della banda criminale guidata di Ivano Staccioli che ha
sequestrato lo scienziato autore della formula. Gli episodi, tutti alquanto simili, si succedono senza estro mentre l’unica cosa meritevole di attenzione è il ritratto del Cairo, tra sfinge, piramidi e vie sovraffollate. La
piccola sorpresa finale (Alberto Lupo è u impostore dell’est... ) è ininfluente Il film non ebbe successo. Il successivo Superseven chiama Cairo (dic. 1965; 90 min.) è anch’esso un prodotto mediocre. L’agente
Superseven (Roger Browne) deve recuperare un materiale radioattivo rubato da trafficanti internazionali per conto dei regimi comunisti e poi perso al Cairo. Il racconto propone la consueta caccia al tesoro con il protagonista
fatto oggetto di numerose imboscate. Vincerà lui (come dubitarne). Nel ruolo del cattivo un insolito Massimo Serato biondo mentre tra le presenze femminili prevale Rosalba Neri. Tutto si svolge in maniera prevedibile tra il
Cairo, Locarno e Roma; l’unico elemento di nota sono le spettacolari sequenze ambientate nei pressi delle piramidi. Gli incassi furono modesti. Il terzo film bondiano di Lenzi, Le spie amano i fiori
(ago 1966, 90 min.) inizia finalmente in maniera differente, con il protagonista (ancora Roger Browne) che riceve l’ordine di ammazzare tre potenziali nemici della Gran Bretagna ma molto presto torna sui soliti, usurati binari ovvero una ripetitiva sequela di attentati al nostro eroe. Quest’ultimo se la cava egregiamente e sconfigge tutti i suoi nemici, guidati per l‘occasione nientemeno che dall’infido superiore del protagonista.
Gli scenari sono questa volta europei tra Parigi, Ginevra e Atene. Anche questo lavoro passò inosservato. Il quarto e ultimo spionistico lenziano, Un milione di dollari per sette assassini
(ott. 1966, 90 min.) è scadente come gli altri. Al Cairo il solito Roger Browne, colonnello americano, si finge un criminale; viene avvicinato da un padre affranto che lo assume per vendicare il figlio assassinato. Browne
dovrà ammazzare i sette colpevoli in cambio di un milione di dollari. Il racconto, simile a un poliziesco, procede con terribile lentezza allineando tutti gli stereotipi del genere. Le sorprese finali sono ampiamente
prevedibili: il padre dolente è in realtà il mandante segreto dell’omicidio che ha a che fare con una qualche formula segreta di tipo militare. Il Cairo è presente solo in pochissimi e generici esterni mentre la gran parte
del film è girata in interni angusti e privi di interesse. In un ruolo fondamentale c’è anche Erika Blanc. Gli incassi furono irrisori.
A sorpresa un regista di commedie con intenti di critica sociale quale Luciano Salce si cimenta, a modo suo, in una parodia del genere spionistico con Slalom
(settembre 1965; 108 min.), pellicola completamente affidata all’estro comico di Vittorio Gassman. La storiella è raffazzonata in modo frettoloso e negligente: Lucio Ridolfi (Gassman), in vacanza al Sestriere, assiste a un
omicidio di matrice spionistica, viene sequestrato e si ritrova al Cairo dove manipoli di agenti segreti lo inseguono per fargli la pelle. Nel finale scoprirà di avere fatto da esca nei confronti della solita potente
organizzazione che stava per affossare l’economia globale attraverso l’immissione di enormi quantità di dollari falsi: metà dei suoi inseguitori, in realtà, voleva solo proteggerlo... La sceneggiatura è poco interessante ed
è un mero veicolo per la gigioneria di Gassman il quale sa tener desta l’attenzione e rendere complessivamente piacevole questa esile pellicola, indecisa, tra l’altro, tra scenette comiche e situazioni realmente drammatiche (i
morti sono numerosi, in sequenze abbastanza realistiche). Gli danno man forte anche Adolfo Celi nel ruolo di un amico, Daniela Bianchi in quello di una hostess egiziana e Beba Loncar in quello di un agente Fbi che provvede a
manipolare lo sprovveduto Ridolfi. In generale l’impostazione del racconto guarda, oltre ai film di Bond (di cui viene anche ricopiata, nel manifesto pubblicitario, la celebre posa di Sean Connery da un Gassman sornione), al
cinema hitchcockiano dell’ambiguità e dell’angoscia. Così al Sestriere Lucio è l’unico ad avere visto un cadavere fatto rapidamente sparire (si veda, tra gli altri, La signora scompare, 1939) mentre al Cairo è un
uomo perennemente in fuga, poiché è stato scambiato per un’altra persona (si veda ancora il recente Intrigo internazionale, 1959). Da ricordare anche gli squarci urbani della città egiziana, restituita in tutte le sue
molteplici caratteristiche. La pellicola ottiene un enorme successo, avvicinandosi al miliardo di lire di incasso.
Tra gli esempi peggiori del genere si colloca Agente X 1-7 operazione Oceano
(nov.1965; 90 min.) girato da Tanio Boccia e interamente ambientato nei dintorni di Saint Vincent. Siamo al consueto girotondo intorno a uno scienziato che possiede (esclusivamente nella sua memoria) una formula di grande
valore militare. Gli americani devono riportarlo negli Usa e affidano il compito all’agente Collins (Lang Jeffries) che deve affrontare intere bande di energumeni e di spregiudicate fanciulle assoldate da potenze straniere.
Queste ultime rapiscono l’uomo e lo nascondono in una fortezza ma questo non ferma il nostro eroe... L’ambientazione è poverissima (la Valle D’Aosta non offre scenari esotici....), le immagini sono ritagliate addosso ai
personaggi (per nascondere la pochezza degli interni) e i tempi morti superano quelli della narrazione. Si nota solo la sfrontata colonna sonora che copia sfrontatamente la celebre sigla di Bond.
Gli incassi furono molto scarsi.
Nick Nostro firma con Asso di picche: operazione controspionaggio
(dic. 1965; 105 min.) il suo contributo al filone. L’agente Asso di picche (Giorgio Ardisson) deve far luce sui traffici dell’organizzazione “Il ragno” che sta minacciando il mondo da una base sotterranea segreta, situata nel Kurdistan. Ammazzerà il pazzoide e farà saltare l’intero marchingegno ideato dal criminale.
La trama è scontata, l’ambientazione ad Istanbul non offre sorprese, gli attori sono dignitosi ma i dialoghi e le situazioni sono ampiamente prevedibili. La particolarità del film è di muoversi in direzione del fumetto sia
per le scene di violenza decisamente più efferate di quelle dei film del genere, sia negli scenari e nei costumi, sempre a un passo dal ridicolo. In tal senso la pellicola anticipa la tendenza “fumettistica” del cinema italiano
della seconda metà degli anni sessanta (Diabolik, Bava; Kriminal, Lenzi e Satanik, Vivarelli) che va ad inserirsi nel dilagante successo dei supereroi negativi, inaugurata con il fortunato supercriminale
ideato nel 1962 dalle sorelle Giussani. Rimane l’irrisolvibile conflitto esistente tra realismo delle immagini filmiche e sfrenata inverosimiglianza delle situazioni inventate per i disegni cartacei: anche Asso di picche pertanto si muove sempre sul crinale dell’involontaria parodia.
L’unica trovata realmente originale si trova nella conclusione: l’agente rubacuori (come Bond) si porta a casa l’ultima conquista, dimenticandosi di avere lasciato (all’inizio del racconto) la precedente in adorante attesa,
nella propria camera da letto... L’anno successivo Nick Nostro gira un’altra spy story, Superargo contro Diabolicus (dic. 1966; 90 min.), in cui accentua il carattere fumettistico di cui si è detto. L’agente segreto
diventa un supereroe in maschera nera e calzamaglia rossa (Giovanni Cianfriglia alias Ken Wood, uno stunt, non mostra mai il proprio volto), un lottatore fortissimo e quasi invulnerabile il quale, dotato dei soliti marchingegni
fantasiosi, viene inviato da un imprecisato servizio segreto a combattere il terribile Diabolicus (Gerard Tichy), supercriminale in procinto di attaccare il mondo. Superargo sopravvive a decine di imboscate, si intrufola nella
fortezza del nemico (nascosta nel solito isolotto) e fa strage. Il connubio evidente è quello tra schema bondiano e situazioni tipiche del fumetto Diabolik (in quegli anni di gran lunga il più venduto tra quelli “per
adulti”): se il nome viene preso in prestito dal criminale, d’altro canto è Superargo a guidare una magnifica Jaguar due posti bianca (l’abituale automobile di Diabolik). In compenso tutto il resto nella pellicola è sciocco e
destinato ad una platea di ragazzi indulgenti: non c’è una precisa ambientazione (l’intreccio si svolge quasi interamente in interni più o meno stravaganti), vicende e personaggi sono convenzionali e manca anche quella vivace
colorazione pop che salva alcune di queste pellicole “fumettistiche” degli anni sessanta.
Enrico Bomba (in arte Henry Bay) gira Agente segreto 777 operazione mistero
(nov. 1965; 90 min.), scadente pellicola in cui si mischiano componenti spionistiche e gotiche. Uno scienziato ha scoperto la formula per ridare la vita ai morti (purché si intervenga a poche ore dal decesso). Intorno a lui
il solito balletto di spie decise ad appropriarsi del segreto, tra cui il protagonista dottor Bardin (Mark Damon). Nessuno di loro si chiama agente 777... Tra interni poverissimi, una recitazione mediocre e tempi morti che
allungano ogni evento (al fine di giungere, senza sforzo, alla durata canonica), l’unico elemento interessante è costituito dagli scenari moderni di Beirut. Mancano perfino le abituali sequenze spettacolari mentre anche la
trovata “gotica” del morto vivente viene realizzata in maniera pedestre, senza alcun effetto speciale. Di tutto il film si ricorda solo l’episodio del camion che, nel tentativo di ammazzare il protagonista, rade al suolo una
cabina telefonica, episodio al quale potrebbe essersi ispirato lo Spielberg di Duel (1973). Il film passò inosservato.
Stessi difetti e una sceneggiatura altrettanto inverosimile animano Agente segreto 777: invito a uccidere
(apr. 1966, 90 min.) in cui cambia l’attore principale (Lewis Jordan). Il protagonista, radiato dai servizi, insegue le tre parti di una misteriosa e importantissima formula; la Cia pensa che stia agendo in proprio e
invia un agente (Umberto Raho) prima per convincerlo a collaborare, poi per ammazzarlo. Ma l’agente 777 è rimasto fedele agli Usa mentre, a sorpresa, altri stanno facendo il doppio gioco... La recitazione è mediocre, le
brutte sequenze spettacolari vengono risolte con trucchetti puerili e i dialoghi sono risibili: la noia prevale. Si salvano solo i bellissimi titoli di testa.
Già a partire dal 1964 il genere spionistico suscita innumerevoli parodie, genere nel quale gli italiani sono espertissimi. Fulci dirige Franco e Ciccio in
00-2 agenti segretissimi (ott. 1964; 90 min.) la cui sceneggiatura, stesa dal regista con Vittorio Metz e Amedeo Sollazzo, guarda da un lato al recente Dalla Russia con amore, dall’altro al genere delle commedie
“balneari” (questo dei film vacanzieri è un filone molto presente dalla seconda metà degli anni cinquanta e si può farlo risalire a Domenica d’agosto, Emmer 1950). Il regista racconta un contorto intrigo riguardante un
microfilm con informazioni false, inserito nell’otturazione di un dente di Franco Franchi. Costui, accompagnato dal fido Ciccio Ingrassia – si tratta di una coppia di ladruncoli incapaci – funge da esca per bande di spie russe
e cinesi, in guerra tra loro. Il balletto è forsennato, a tratti divertente (basti dire che le istruzioni “in codice” arrivano alla coppia scritte sugli indumenti intimi della cameriera dell’hotel) e, svolgendosi in costa
azzurra, coinvolge bagnanti di vario genere (spassoso Aroldo Tieri nell’abituale ruolo di marito gelosissimo e ultrasospettoso). Non mancano spogliarelli, donnine poco vestite di vario genere e perfino una pesante e quasi
incredibile (per l’epoca) sequenza che allude a espliciti rapporti omosessuali (Franco e Ciccio, scottati dal sole, si mettono creme idratanti; ma per le numerose spie che intercettano la loro stanza d’albergo, l’impressione è
del tutto differente... ). Non sorprende quindi il giudizio pesantemente negativo del Centro Cattolico, in genere piuttosto indulgente nei confronti delle pellicole della coppia di comici siciliani (pellicole ricorrenti nelle
programmazioni delle sale parrocchiali dell’epoca). 00-2 agenti segretissimi è un film colorato e brioso, sciocco e adatto a divertire un pubblico senza troppe pretese. Sebbene vi ricorrano precisi riferimenti al recente film bondiano (le scarpe con lama retrattile, in dotazione a quasi tutte le spie; l’inseguimento dei motoscafi verso la fine...), il duo comico, in piena forma, vira costantemente le situazioni verso lo sketch da avanspettacolo, tralasciando un ricalco preciso delle situazioni chiave dei film con Sean Connery (come avverrà invece nella serie James Tont).
La seconda parodia bondiana di Franco e Ciccio si intitola Due mafiosi contro Goldginger
(ottobre 1965; 92 min.), è scritta da Alessandro Continenza, Dino Verde e Andrea Sollazzo e diretta da Giorgio Simonelli. Il riferimento è al terzo film dell’agente inglese (Goldfinger costituisce l’apice della bondmania degli anni sessanta) che viene riformulato con alcune trovate divertenti.
Due sciocchi siciliani finiscono nelle trame della organizzazione di Goldginger (un sempre valido Fernando Ray) il quale sta “incapsulando” i personaggi più potenti del mondo (li rende degli automi grazie a delle misteriose
capsule impiantate dietro l’orecchio; il ricordo va ovviamente a L’invasione degli ultracorpi, Siegel, 1956), così da assumere il controllo del pianeta. Mentre il “vero” 007 (un George Hilton alle prime armi) viene
ammazzato appena entra in azione, Franco e Ciccio riusciranno, attraverso stratagemmi multipli, a rendere innocuo il pazzo Goldginger. Tra le cose notevole: una delirante partita a scacchi tra Goldginger e Franco che
riprende la celebre partita truccata di Goldfinger (scoperti Franco e Ciccio verranno poi ricoperti di vernice dorata...), la fulminea entrata ed uscita di scena di James Bond, la macchina di quest’ultimo, una jaguar (in
omaggio a Diabolik, l’altro mito emergente degli anni sessanta) i cui innumerevoli trucchi servono solo a evitare che un vigile dia una multa ai nostri eroi, la valigetta con oggetti truccati (un asciugacapelli che spara ecc.)
finisce per sbaglio nelle mani di una giovane coppia con esiti assurdi. Per il resto il film ricalca senza troppa fantasia le situazioni chiave del film di Guy Hamilton.
Anche questa pellicola del duo comico ebbe un enorme successo commerciale. Giunti al loro terzo spy movie, con 002 operazione Luna
(nov. 1965; 90 min.) Franco e Ciccio, ancora diretti da Fulci (la sceneggiatura è sempre di Vittorio Metz e Amedeo Sollazzo), ci parlano delle prime missioni spaziali sovietiche e ironizzano sul totalitarismo russo. Stranamente la pellicola ripiega sul bianco e nero, nonostante l’enorme successo commerciale dei film precedenti.
Due cosmonauti russi sembrano essersi persi nella stratosfera. Pere evitare figuracce il Kgb, dotato di una magnifica sede a Roma camuffata da centro di bellezza, trova due sosia italiani (due ladruncoli finiti in galera),
li fa evadere e li spedisce a Mosca dove verranno dapprima mandati in orbita, poi fatti atterrare davanti alle telecamere ed affidati alle loro presunte mogli. Intanto, a sorpresa, ritornano dallo spazio anche i due veri
cosmonauti. Si ritrovano tutti e sei a passare una nottata ricca di complicazioni: Franco e Ciccio, versione sicula e versione russa, vogliono andare a letto con le loro mogli russe; finiranno ad essere tre in ciascun letto
matrimoniale... Farsa sempliciotta, totalmente incentrata sui consueti numeri della coppia comica, girata in un modesto bianco e nero e in interni piuttosto angusti, è una pellicola di routine. I riferimenti alla saga
bondiana sono tutti nella prima parte (la migliore) con gli esilaranti riferimenti all’universo sovietico fatto di inefficienze e di totale assuefazione all’autorità imperante (le minacce di fucilazione o di finire alla
Lubjanka per la minima disobbedienza si sprecano). Nell’universo missilistico sovietico (le missioni Vostok e Voskhod di quegli anni sono poco documentate e numerosi sono gli interrogativi intorno al loro reale andamento) i
militari agiscono con ferrea disciplina, raccontano spudorate menzogne al grande pubblico e, all’interno degli stessi quadri, nessuno osa interferire con le simulazioni in atto. Favolosa la battuta sulle foto lunari da dare in
pasto alla stampa: “usiamo quelle vecchie, tanto sono tutte uguali... “ afferma il funzionario sovietico. In questo senso il film si allinea compiutamente con l’atteggiamento antisovietico tipico sia dei film inglesi
sull’agente 007, sia delle imitazioni italiane. Il film inoltre ha il merito di evidenziare un certo scetticismo generale intorno alla veridicità delle imprese spaziali dell’epoca, prima che iniziasse la missione Apollo,
quella del primo allunaggio datato luglio 1969 (oggi contestato da molti). Il quarto film bondiano della coppia comica, Le spie vengono dal semifreddo
(luglio 1966; 85 min.), è il peggiore. Scritto da Castellano e Pipolo, affidato ad un regista inadatto quale Mario Bava, il film manca di umorismo e trova qualche piccolo spunto solo in trovate semihorror (la piscina coi piranha che riduce a scheletri i malcapitati) e nei robot-femmina (derivati dalla creatura di Frankenstein in un’epoca in cui la saga degli zombie non era ancora iniziata) con il loro indimenticabile balletto demenziale. Tutto il resto affoga nella noia.
Franco e Ciccio, portieri d’albergo a Roma, si battono contro Goldfoot (Vincent Price) che sta elminando i maggiori generali del pianeta per divenirne il padrone. La vittoria arriva in un finale modellato su Il dottor Stranamore (Kubrick, 1963) con i nostri eroi che, dopo aver sconfitto il pazzoide, si lanciano da un bombardiere a cavallo di una bomba atomica...
I riferimenti del film sono numerosi (il titolo riprende quello del validissimo La spia che venne dal freddo, M. Ritt 1965 derivato dall’omonimo romanzo di Le Carré) ma non sono sufficienti a garantire l’interesse
del racconto. Le gag poi sono infarcite di richiami all’attualità (caroselli, pubblicità dell’epoca ecc.) rendendo ancor meno facile (per spettatori di epoche successive) la comprensione di numerose battute. Il ricorso
all’accelerazione delle immagini in gag che si vorrebbero eredi del cinema muto peggiora le cose. Da ricordare la presenza di una giovanissima Laura Antonelli al fianco dei due agenti segreti “siciliani”.
Bruno Corbucci, al suo secondo film, mette in piedi una surreale parodia dell’agente 007 con James Tont operazione UNO (settembre 1965, 88 min,) nella quale
l’agente 007 e mezzo (Lando Buzzanca) del MI5, ma di origini sicule (James Tont sta per Giacomino Tontonati), deve sventare il complotto di Goldsinger il quale intende far saltare il palazzo dell’Onu su ordine dei Cinesi.
Questi ultimi si sono infatti irritati per il fatto di non essere stati ammessi in quel prestigioso consesso (dove invece veniva riconosciuta la Repubblica cinese di Taiwan; la situazione muterà nel 1971 con l’ingresso
ufficiale di Pechino nel palazzo di vetro). Nonostante la pellcola (codiretta da Gianni Grimaldi, al suo esordio; in seguito regista di numerose farse costruito intorno al comico Buzzanca) tiri in ballo la Cina comunista ed
il suo conflitto con il blocco occidentale, la messa in scena di Corbucci punta tutte le carte su invenzioni surreali e del tutto apolitiche. Il racconto viene modellato su quello di 007 missione Goldfinger (vi sono situazioni e dialoghi ripetuti alla lettera, con le necessarie distorsioni comiche; così l’Aston Martin si trasforma in una simpatica cinquecento iperaccessoriata ecc.) ma quello che conta è il carattere onirico dell’insieme con Tont che attraversa l’Atlantico a nuoto, un topo-agente segreto che parla e soccorre l’eroe anglosiculo, una cinquecento che cambia completamente colore schiacciando un semplice bottone, accendino e sigaretta che funzionano da cornetta e microfono di un immaginario telefono e così via. Il tutto arricchito da esterni di tutto rispetto (riprese aeree di New York, squarci romani e londinesi) e un utilizzo ricchissimo di contributi musicali interni (l’intero conto alla rovescia finale è scandito dal coro Va’ pensiero dal Nabucco; Goldsinger è un magnate dell’industria discografica...) ed esterni (un perfetto e simpatico ricalco delle musiche di 007 missione Goldfinger) al film.
Questo impianto spassoso e temerario piacque moltissimo al pubblico che decretò un notevole e inatteso successo alla pellicola di Bruno Corbucci. Scontata quindi l’apparizione di James Tont operazione DUE
(febbraio 1966, 90 min.) in cui DUE sta per Distruzione Urbe Eterna. Il nostro agente siculo-londinese deve sventare il piano di un supercriminale che ha messo insieme un ordigno nucleare con cui far saltare per aria San
Pietro, non prima di essersi impossessato dei tesori del Vaticano. Il piano non potrà che fallire all’ultimo secondo. Il canovaccio, ambientato tra Ginevra, Londra e Roma, è questa volta ripetitivo: situazioni e personaggi
sono clonati dal recentissimo Agente 007 Thunderball (uscito in Italia nel dicembre 1965) senza però che gli autori (Corbucci e il suo esercito di sceneggiatori) riescano a inventare qualcosa di realmente divertente. Anche la vena surreale del primo episodio si rinnova solo in un paio di sequenze demenziali. Gli esterni non sono valorizzati, il corredo di trucchi è poco originale e la musica ricalca quella di John Barry, senza troppa convinzione.
Rimane nella memoria solo il tentativo di fare una caricatura dell’universo beat londinese (siamo quasi al culmine della beatlesmania) con Buzzanca travestito da capellone, obbligato a conciarsi da barbone (la vanteria più
frequente è quella di non lavarsi da mesi) per farsi accettare nel letto di una delle tante scatenate fan del quartetto di Liverpool. Se un qualche atteggiamento politico (di taglio conservatore) timidamente sembra
emergere dal film, esso non riguarda tanto le classiche questioni della guerra fredda, bensì è presente in questa evidente presa di distanza da una sinistra giovanile, percepita come sconclusionata e vanesia.
Il film ebbe comunque un notevole successo di pubblico. Ancora peggio vanno e cose con Spia spione
(nov. 1966, 90 min.), pessima conclusione della trilogia firmata Corbucci-Buzzanca in cui l’attore interpreta un imbranato cameriere che viene coinvolto in una rapina in stile Rififì (Dassin, 1956) poiché abita in un
appartamento collocato sopra ai locali di una banca; segue una lunga scorribanda tra Roma e Barcellona finalizzata a consegnare un anello fatto da una misteriosa lega metallica di enorme valore militare. Un copione senza
interesse viene sviluppato con una comicità puerile, più adatta al pubblico dei ragazzini di una sala parrocchiale che a quello adulto. Buzzanca annoia e irrita con il suo personaggio imbecille mentre la comitiva di spie al
seguito (tra cui Linda Sini e Mario Pisu) è opaca. La prima parte, parodia dei caper movie tornati di moda dopo Topkapi (1964) e 7 uomini d’oro (1965), è anche peggiore della seconda in quanto tutta
ambientata al chiuso, entro ambienti poverissimi. Almeno dopo il flm regala qualche squarcio paesaggistico (spagnolo) interessante. Spia spione non ebbe successo commerciale e concluse l’esperienza di Buzzanca agente segreto.
A livello concettuale queste pellicole (Bond e imitazioni) contengono un’implicita e perfino inconsapevole riaffermazione di una visione patriarcale, del tutto
inattuale negli anni sessanta. L’agente segreto è l’uomo forte, il guerriero che non teme le avversità, che è naturalmente portato al comando e che considera la compagnia femminile secondaria, sottomessa e intercambiabile.
L’eroe non si innamora mai (le vicende amorose non esistono in queste pellicole o hanno una funzione del tutto marginale), al massimo prova una generale tenerezza per le sue partner ed è pronto a sostituirle alla prima
occasione. La donna è prima di tutto un oggetto di svago sessuale per il protagonista e, di riflesso, per il pubblico che ne osserva le gesta. L’evidente destinatario di questo genere filmico è quindi uno spettatore maschile e
conservatore, sostanzialmente estraneo alle mode femministe e ai discorsi sull’uguaglianza tra i sessi, tipici di tutto l’illuminismo, del progressismo culturale e cinematografico quale risultato della profonda e imponente
corrente culturale massonico – marxista. Dunque l’intera cultura “alta” degli anni sessanta – laica, illuminista e matriarcale - guarda con diffidenza ed aperto disprezzo a Bond e seguaci (allo stesso modo considererà il
western all’italiana e il giallo all’italiana di matrice argentiana, generi che ripropongono la medesima visione patriarcale). La Pravda arrivò a parlare apertamente di un James Bond “nazista”, sebbene i produttori
angloamericani dei film con Sean Connery avessero attuato una radicale revisione dei testi di Fleming, inventando la Spectre ovvero una improbabile organizzazione internazionale equidistante da Occidente capitalista e Oriente
comunista, proprio al fine di non irritare eccessivamente il mondo sovietico. A questa rete di supercriminali venivano “affidate” tutte le azioni “malvage” e destabilizzanti che nei testi di Fleming erano più realisticamente
attribuite al KGB, nel contesto classico della guerra fredda. Si veda soprattutto l’artificiosa distinzione presente nel film Dalla Russia con amore (1963) per separare spie russe deviate (“traditori” che hanno aderito segretamente alla Spectre, inesistente nel testo dello scrittore inglese) e “genuino” servizio segreto sovietico.
A riprova della evidente frattura culturale e politica – tra cultura “alta” e “bassa”, cinema d’autore e di genere – citiamo, tra gli altri, un critico dell’Avanti! che, in quegli anni di entusiasmo per Bond, scrive:
“come i libri pornografici... stanno all’erotismo, così l’agente 007 (e i suoi simili...) sta alle tendenze fasciste dell’animo umano; ... è il simbolo del mito della violenza come risolutrice dei conflitti, della teoria
manichea dei “cattivi” da polverizzare con ogni mezzo e dei “buoni” da far trionfare... perfino il modo con cui 007 possiede e molla femminine, considerate come animalucci inferiori da sottomettere... rientra perfettamente nel
quadro clinico di una psicologia fascista”(1965). Come si nota il quadro degli stereotipi culturali è completo. Il recensore dell’Avanti! – un giornale non estraneo ai finanziamenti del sistema sovietico il quale aveva di
recente risolto, non con i fiori, le problematiche dell’Ungheria (1956) e di Berlino (innalzamento del muro, 1961) – accusa la cinematografia di Bond e seguaci di avere una visione crudele e violenta, financo fascista (termine
che era obbligatorio inserire all’epoca, anche quando non significava nulla: come noto Gran Bretagna e Usa non hanno mai conosciuto governi fascisti) della realtà. D’altronde quei “cattivi” cui si fa riferimento sono quasi
sempre agenti comunisti la qual cosa contribuisce a far crescere l’irritazione evidente del recensore il quale è anche scocciato dalla riesumazione moderna del mito del Don Giovanni il cui successo (connesso al favore
planetario accordato alla saga di Fleming) è di evidente ostacolo al progressivo affermarsi di una logica ottusamente paritaria o, meglio ancora, matriarcale. Perfino Terence Young, il regista di Licenza di uccidere, Dalla Russia con amore, Thunderbolt sembra odiare (vedi citazione iniziale) il personaggio che ha portato sullo schermo e che gli ha dato una certa notorietà; gli addebiti che gli muove sono ancora quelli tipici della cultura “alta”: fascismo, visione patriarcale, indifferenza per la cultura e implicita assenza di autentico spirito umanitaristico (la religione laica del Novecento... ).
testo scritto nel dic. 2011; ultimo aggiornamento: mag.2021
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