Amarcord: nel rifugio della memoria (1973)
“Il sentimento che provavo era quello dell’impotenza; la sensazione paralizzante di non
poter far niente, come se la vita intorno a te fosse mostruosamente cambiata, per una oscura, assurda, irrazionale condanna.... Lo sgomento del vedere lo Stato impotente,
le forze dell’ordine allo sbaraglio; e la rassegnazione spaventosa, abnorme, davanti ai titoli dei giornali, ai commenti dei notiziari televisivi, al rituale dei funerali, alla litania
insopportabile delle esecrazioni da parte degli uomini di governo. Un incubo. Aggravato dallo sconcerto, dallo smarrimento di vedere che qualche corsivista trovava
delle giustificazioni... che qualche onorevole chiamava quei sanguinari i <compagni che sbagliano>...” Fellini parla degli “anni di piombo” (Intervista sul cinema,1983)
Dopo avere raccontato, negli anni cinquanta e, soprattutto, con La dolce vita (1960), un’Italia che si muoveva verso orizzonti valoriali scettici e libertari, disancorati dalle anguste dimensioni ideologiche dell’universo cattolico e socialcomunista, Fellini sembra come impaurito dalla inquieta e violenta realtà contemporanea successiva al ’68 (il cui problematico disordine ha, in una certa misura, contribuito a creare), dalle proteste giovanili e operaie sempre più radicali e dal sangue di piazza Fontana, e si rifugia con
Amarcord
(dic. 1973; 123 min.) nella dimensione che conosce meglio e che aveva già ampiamente innervato tutte le sue opere precedenti ovvero quella del sogno. Dopo averci raccontato tante volte la spinta a fuggire da una realtà provinciale angusta e circoscritta (ne Lo sceicco bianco e ne I vitelloni),
ora il regista riminese effettua il percorso inverso e ritorna alla realtà minuscola e rassicurante della propria infanzia, filtrandola in una dimensione fantasmagorica e umoristica. Eccoci dunque catapultati nella modesta
famiglia di Titta (Bruno Zanin), alterego di un Fellini ragazzo, circondato da un padre muratore e anarchico (Armando Brancia), una madre paziente (Pupella Maggio) e un pittoresco nonno (Giuseppe Ianigro). Il racconto corale,
scandito in un ampio numero di episodi sostanzialmente autonomi, inizia col sopraggiungere della primavera e termina esattamente un anno dopo. Fellini alterna con grande abilità episodi corali e racconti individuali, momenti
euforici e passaggi malinconici, poetiche apparizioni e gesti brutali. Il film apre presentando l’insieme dei personaggi - molti dei quali parlano direttamente allo spettatore, spiegano questa e quella cosa divenendo “Ciceroni”
di una dimensione irreale e così facendo accentuano il carattere fantastico dell’insieme -
attraverso il rito neopagano dell’addio all’inverno, nell’antichità reale inizio dell’anno, in sottile polemica con l’abituale calendario scandito dalle festività cristiane: la centralità di una prorompente Gradisca (Magalì Noel), bellezza esotica e simbolo erotico ricorrente del cinema felliniano, ci conferma che questo inizio corrisponde al nuovo insorgere dell’Eros, assopitosi nei mesi invernali. In fondo è proprio l’Eros l’elemento unificante di un film apparentemente frammentario e disordinato: in questo lungo ed articolato sogno l’elemento erotico, nelle sue variegato forme, costituisce l’unica alternativa ad una realtà altrimenti opaca. La sua principale raffigurazione è costituita ovviamente da Gradisca, sorta di divinità neopagana che illumina il borgo (in qualche modo una derivazione della figura di Anita Ekberg de La dolce vita)
che però si moltiplica nelle figure della ninfomane, animalesca Volpina (Josiane Tanzilli), in quella della giunonica, materna tabaccaia (Maria Beluzzi) e in quella della arcigna professoressa di matematica (Dina Adorni).
Queste quattro figure sono i differenti poli di una carica erotica diffusa che attraversa i singoli episodi e che paiono l’unico reale elemento di interesse per la gioventù locale. Il giovane Titta avvicina tutte e quattro
queste figure, rimanendone ora affascinato, ora quasi folgorato. Anche l’episodio dell’arrivo delle nuove ragazze del casino, ammirate da tutti i passanti (colti e incolti, giovani e vecchi), accompagnate da musche ammiccanti e
il racconto del pascià arabo con le sue trenta mogli, avvolte nei burka, amplifica questa tensione latente. Il primo termina con una sarcastica immagine di un negozio di addobbi sacri (memore di quello de I vitelloni)
con statue di santi costrette ad “assistere” all’evento mentre il secondo si sviluppa in uno degli episodi più onirici del racconto e approda a un liberatorio balletto esotico, memore delle opere buffe rossiniane di
ambientazione “turca” e dei musical hollywoodiani. Ovunque la celebre, carezzevole e soave musica di Rota si incarica di intensificare, con le sue suadenti linee melodiche e le sue timbriche sensuali, questa dimensione del
desiderio. Infine il surreale episodio con Ciccio Ingrassia - lo zio matto di Titta che sale su un albero ed urla “voglio una donna” - si inserisce, a modo suo, in questo affresco dell’Eros esaminato in tutte le sue
sfaccettature, alcune anche alquanto audaci in quanto inserite in un contesto apparentemente quieto e “inoffensivo”. Questo simpatico svitato - un vero matto, mille miglia lontano dai folli che si volevano “creati dal sistema”
secondo le coeve mode basagliane (si veda Matti da slegare di Bellocchio, 1975) - sembra non soffrire del proprio stato di reclusione se non per la privazione di una propria dimensione erotica. Amarcord appare già, dopo queste prime considerazioni, una vera e propria fuga dalla realtà italiana (il film è stato interamente girato in studio), da quei terribili anni di piombo fatti di sangue sul selciato e di agguati terroristici, ai quali si contrappone la dolcezza di un sogno il cui erotismo, di ovvia natura femminea, elogio di una pacificazione che unisce nel segno del piacere sensuale, è anche un implicito invito ad abbandonare le contrapposizioni tanto violente, quanto insensate poichè figlie di una guerra tutta ideologica (marxismo vs. liberalismo). Le sonorità di Rota, dolci e ben delineate, nella loro semplice cantabilità tonale, parlano lo stesso linguaggio e, implicitamente, rinnegano le minacciose sperimentazioni seriali ed aleatorie che, simboli di una illusoria rivoluzione politica attesa ed agognata, sono, in realtà, la vera, odiosa colonna sonora della guerra civile iniziata nel dicembre 1969 a piazza Fontana che perdurerà fino alla morte di Moro (9 maggio 1978) ed oltre.
La pellicola possiede due momenti incantatori - la sequenza del Rex (il transatlantico italiano varato nel 1932) e quella del pavone - in cui l’autore mette in scena quella necessità del sogno, della contemplazione del
meraviglioso che è insita nella natura umana. Si tratta di due sequenze che, in qualche modo, rappresentano un sogno dentro a un sogno: all’interno di una cornice tutta onirica, come si è detto, tra immagini di rara perfezione
figurativa, prendono corpo due visioni che radunano intorno a sè una folla stupefatta e attonita la quale si è affrettata a correre in massa verso l’evento che affascina e comuove. La struttura delle due sequenze (soprattutto
quella del Rex) somiglia al finale de La dolce vita: una lunga preparazione di persone in movimento, quasi una carovana, in attesa di un’immagine abbacinante, accompagnata dal consueto tema rotiano, variato in numerose
maniere (ritmiche e timbriche); ma, se il pesce- mostro sulla spiaggia di Ostia, appariva un evento enigmatico e sottilmente minaccioso, le due (tre se vogliamo aggiungervi la sfilata delle nuove ragazze del casino) visioni di Amarcord sono
venate di un lirismo puro e incontaminato, magnifico e consolatorio. Il meraviglioso irrompe nel sogno e ne costituisce l’essenza più profonda e suggestiva: esso unisce gli astanti in un’armoniosa unità (fascisti e
antifascisti, professori e alunni, ragazzi e anziani, uomini e donne) che cancella, per un attimo, divisioni e contrapposizioni. E’ questo invito a riscoprire una bellezza ristoratrice l’elemento che unifica e valorizza il
capolavoro felliniano. Nè può apparire casuale che il film riscosse un enorme successo (conquistò anche un oscar), il più grande dai tempi di Otto e mezzo, un consenso nazionale e internazionale che l’autore non riuscirà più a ripetere in modo così unanime nelle numerose opere successive.
Gradisca, la personificazione della bellezza e del sogno, è il personaggio su cui il film termina: le sue nozze e la sua partenza dal borgo - filmate con poetiche immagini di rara malinconia -
sanciscono l’uscita di scena dell’Eros e dunque la fine del sogno. Come in tanti altri lavori di Fellini, l’insistita presenza di una sala cinematografica con le sue locandine e manifesti, come la
scelta di girare alcune sequenze dentro questo cinema (Fulgor), conferma la centralità di queasta arte quale elemento del sogno e della trasgressione verso una dimensione di puro piacere. Gradisca parla in modo sognante del suo Gary Cooper il cui Beau Geste (Wellman, 1939) viene ribattezzato La valle dell’amore, in linea con la poesia dell’Eros che pervade Amarcord.
E’ evidente che Gradisca si reca al cinema per ammirare la bellezza del divo (ovvero per fruire di un piacere tutto sensuale) così come i ragazzi vi si recano per cercarvi uno svago erotico (le avance di Titta ad una Gradisca “ipnotizzata” dal film) unito a stimolanti visioni esotiche. La sala cinematografica diviene il luogo in cui si passa oltre, si abbandona il principio di realtà e ci si incammina entro sentieri magici e inesplorati. Vi è poi la tendenza inversa, quella che sa rendere poetico il quotidiano e che si ritrova in quelle sequenze in cui i personaggi si abbandonano ad un sognante ballo all’aperto su immaginarie melodie come accadeva a Franco Fabrizi e Alberto Sordi nel loro inusuale mambo danzato per le strade di Rimini (I vitelloni 1953).
Amarcord rievoca anche il fascismo, un’epoca divenuta un’ossessione nella quotidianità degli anni di piombo (in effetti la possibilità di precipitare in un nuovo, differente fascismo - più probabilmente in una forma di stato autoritario guidato dai militari sul modello di Spagna e Grecia - era molto reale in quel periodo) e lo fa con inaudito coraggio, mostrando la pratica quasi innocua di un fascismo di paese, una sorta di recita bizzarra e quasi clownesca (dimensione assai familiare al cinema felliniano) cui tutti partecipano senza vera convinzione. Paradossalmente l’unico che sembra maggiormente credere alla sostanza di questo fascismo da operetta è l’antifascista e anarchico padre di Titta che, infatti, finirà a dover bere la sua dose di olio di ricino nell’unica sequenza che possiede un carattere vagamente minaccioso e sinistro, con un gruppo di fascisti che deplorano non tanto le convinzioni del muratore, quanto la sua ostinazione a volerle mettere in paizza, rifiutando l’innocua “mascherata” generale. Amarcord è un sogno, una deformazione onirica di ricordi di gioventù amplificati e ingigantiti e, in nessun momento, si azzarda a scendere su un terreno realmente storico-politico: il fascismo cui tutti aderiscono con differenti gradi di entusiasmo e convinzione, è una rappresentazione colorita che, attraverso i suoi multiformi simboli e colori, con le sue sfilate ed esercitazioni, vivacizza una realtà paesana altrimenti monotona e polverosa; possiede una funzione di diversivo, non dissimile da quella della sala cinematografica. Nell’immaginazione felliniana il fascismo è, come la chiesa cattolica, un’altra invenzione barocca del genio italiano per il teatro e lo spettacolo. Certo mettere in scena il fascismo in questo modo, in quel periodo, era un gesto realmente inattuale e, a suo modo, trasgressivo del conformismo socialcomunista largamente prevalente, soprattutto negli ambienti culturali e artistici.
In definitiva Amarcord è, innanzitutto, un capolavoro poichè ricorda a tutti che l’arte, soprattutto quella filmica così poliedrica e completa, è prima di tutto sensualità, nostalgia erotica e contemplazione del bello; tutto il resto è dialettica stucchevole e vano rumore.
Oltre un decennio dopo Woody Allen, noto ammiratore del cinema felliniano, gira il proprio Amarcord e lo intitola Radio days (1987; 90 min.): alla rurale provincia romagnola si sostituisce la New York degli anni trenta, al Rex un immaginario U-Boot tedesco, allo zio matto che vuole a tutti i costi una donna una zia (Dianne West) alla disperata ricerca di un marito, alla Gradisca una cantante (Mia Farrow) un po’ oca, altrettanto “disponibile” ma non altrettanto affascinante. Mancano poi la tabaccaia e la volpina e tutta la poesia dell’Eros che viene più pedestremente rimpiazzata con il tema unificante della nostalgia per le trasmissioni radiofoniche attraverso le quali la modesta gente di provincia sognava di partecipare al lusso, alla cultura e al benessere delle classi più agiate.
testo scritto nel dic. 2015
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