Romanzo popolare, Amici miei e Fantozzi

Romanzo popolare, Amici miei, Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno, Fantozzi, Il secondo tragico Fantozzi, L’anatra all’arancia: umorismo “reazionario” (1974-76)

              « Per me... la corazzata Kotiomkin... è una cagata pazzesca!  »
              Il secondo tragico Fantozzi (1976)
               

Dopo il politico Vogliamo i colonnelli, Monicelli gira Romanzo popolare (set. 1974; 102 min.), dramma della gelosia basato su una sceneggiatura scritta con Age e Scarpelli e ambientato magistralmente tra Milano e Sesto San Giovanni. Arricchisce il film una malinconica colonna sonora firmata da Enzo Jannacci.
La vicenda è abbastanza convenzionale: l’operaio cinquantenne Giulio (un ottimo Ugo Tognazzi) sposa la diciassettenne Vincenzina (un’altrettanto brava Ornella Muti), avellinese e figlia di amici immigrati al nord. L’uomo è leale, aperto, impegnato in politica (è sindacalista) e si vanta di non essere affetto dal morbo della gelosia. “Siamo negli anni settanta... “ ripete Giulio, come fosse un mantra, quasi a voler costantemente convincersi della bontà delle porprie idee. Quando però la giovinetta, dopo molte resistente, cede alla corte del carabiniere Giovanni (Michele Placido), esplode la tragedia. Vincenzina si professa pentita e ciononostante Giulio (in una sequenza da antologia) pretende il racconto minuzioso della sua avventura erotica; poi, dopo urla e strepiti, si convince che tutto ciò, per quanto doloroso, è sopportabile e passato. Quando però gli giunge una lettera anonima dalla quale crede di dedurre che tutti siano a conoscenza delle infedeltà della giovane moglie, allora esplode e, in una scena madre che è certamente la cosa più debole di un film quasi perfetto, caccia la donna. Scoprirà che si era trattato di un trucco del rivale con il quale il giovane carabiniere sperava di recuperare Vincenzina. Anni dopo il terzetto vive esistenze separate: Giovanni ha una famiglia propria, Vincenzina e Giulio sono soli e ancora legati dalla presenza di un figlioletto.
La pellicola, diretta con fantasia e sentimento da Monicelli, propone innanzitutto una delle migliori ambientazioni popolari del periodo: il “mantra” sugli anni settanta si concretizza in un’attenzione speciale per luoghi, battute, atteggiamenti e abitudini di quel periodo. Il film costituisce in tal senso un prezioso documento di quell’epoca storica. Le ambientazioni (superbamente approfondite nel sito
www.davinotti.it) mostrano una Milano periferica (piazza Cinque Giornate, i navigli) e una Sesto San Giovanni operaia come raramente è capitato di vedere al cinema. Numerosi dialoghi poi citano programmi, canzoni e usanze di quegli anni. La magnifica canzone di Jannacci, Vincenzina e la fabbrica, completa il ritratto malinconico di una giovinetta spaesata in una Milano industriale, operosa e fredda, dove il marito cinquentenne deve alzarsi ogni mattina alle sei, in mattinate buie e gelide, per raggiungre il posto di lavoro. E’ ancora una società d’altri tempi, tuttavia, quella in cui un cinquantenne sposa una ragazzina la cui unica ambizione sembra essere quella di mandare avanti la casa e crescere il figlioletto; in realtà gli anni settanta implicano scelte ormai differenti e la donna, dimessa e succube nella prima parte del racconto, cerca e trova la propria autonomia dapprima nel tradimento, poi nella separazione. Il quadro conclusivo illustra due individui, Giulio e Vincenzina, che hanno percorso strade separate e che si ritrovano palesemente infelici e insoddisfatti.
Monicelli, la cui fede progressista è fuori discussione, sembra avere qualche dubbio in questo finale aperto: la gelosia, che sembrava vinta dalle illusioni dalla rivoluzione dei fiori e dall’emancipazione della donna, ha portato alla rovina i protagonisti i quali, a parole si professavano aperti e comprensivi, mentre alla prova dei fatti non riescono a superare gli schemi di comportamento di una tradizione secolare che, in quanto tale, avrà pure la sua ragion d’essere. Insomma Moncielli, Age e Scarpelli ci raccontano un’umanità illusa dal generale progressismo che anima ogni gesto di quel particolare periodo, la quale deve poi fare i conti con una secolare Tradizione radicata nelle viscere dei singoli individui. In tal senso Romanzo popolare, pur partendo da un canovaccio ben noto (il solito triangolo), approda ad esiti tutt’altro che scontati e prevedibili.
Se non riesce ad aderire ai nuovi ideali socialisti un impegnato e schietto operaio e sindacalista del moderno nord, chi potrà farlo?
Il film fu, a sorpresa, un trionfo commerciale. Il suo tono originale e, in un certo senso, irripetibile, rese impossibili le imitazioni.

Alla propria morte (1974), Pietro Germi lascia la sceneggiatura di Amici miei (ago. 1975; 140 min.) che, opportunamente rielaborata da Leonardo Benvenuti, Piero de Bernardi e Tullio pinelli, diviene il più grande successo commerciale della lunga carriera di Mario Monicelli. Vi si narrano, come noto, le “zingarate” di cinque professionisti fiorentini i quali, animati da un radicale e cinico scetticismo, si prendono gioco di tutto e di tutti. Il protagonsita che tira le fila dei numerosi eventi (di fatto si tratta di un film a episodi) è il giornalista Perozzi (Philippe Noiret), il quale introduce i quattro amici - il conte Mascietti (Ugo Tognazzi), il tabaccaio Guido Necchi  (Duilio Del Prete), l’architetto Rambaldo Melandri (Gastone Moschin) e il chirurgo Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi) - ne descrive i caratteri (utilizzando la voce fuori campo), vive con essi differenti avventure e poi li abbandona, sul letto di morte. Delle numerose storie e storielle, due tengono banco mentre le altre funzionano da contorno. Si tratta delle vicende che fanno perno su Olga Karlatos e su Bernard Blier e delle due, soprattutto la prima è significativa e finisce col costituire il cuore della pellicola.
L’architetto Melandri si innamora perdutamente di Donatella (Olga Karlatos), la moglie del chirugo, la corteggia e infine la sottrae al marito il quale, ben felice, gliela appioppa insieme a due figlie, una governante tedesca e un enorme cane di nome Birillo; l’innamoramento passa presto e l’uomo si trova a dover gestire una stuazione al di là delle proprie forze, divenendo lo zimbello degli amici. In questa storia, innanzitutto, come pure in tutte le altre, il nostro quintetto appare portatore di una visione conservatrice arcaica e disincantata nella quale la donna è innanzitutto oggetto del semplice desiderio sessuale e, in secondo luogo, in veste di consorte, è il principale ostacolo alla libertà. Le mogli sono quindi irrise e sbeffeggiate come peraltro le donne con le quali i nostri si incrociano più o meno casualmente. Amici miei risulta essere una delle comemdie più antriromantiche e gelide della storia del cinema italiano e finisce con l’avere un po’ la stessa funzione “consolatoria” del cinema di Dario Argento (vedi) nei confronti di un pubblico tradizionale, aggredito dal nuovo femminismo, dal solidarismo più o meno marxista che sembra divenuto egemone in quei terribili anni di piombo e tutt’altro che convinto di queste nuove, stravaganti idee moderniste che sembrano divenute un nuovo Vangelo. Germi si era già distinto come autore a suo modo conservatore e alquanto maldisposto nei confronti dei miti moderni (si veda quanto scritto ad esempio per In nome della legge e Un maledetto imbroglio); dopo il tagliente e altrettanto misogino Signore e signori (1966; stretto parente di questo film postumo), lascia in eredità agli amici questo incredibile film che funziona da elemento di netta rottura rispetto all’ideologia prevalente. A rendere la situazione ancora più bizzarra, bisogna notare che chi gira il film è Monicelli, ovvero un autore decisamente progressista, il quale tuttavia aderisce con convinzione al testo di Germi, dimentica per una volta le proprie convinzioni, firma un film in un certo senso “reazionario” e con esso ottiene il proprio massimo successo commerciale, laddove sempre Monicelli aveva ottenuto i propri fiaschi più netti e decisi con le sue pellicole più spinte a sinistra come I compagni (1964) e Tò è morta la nonna (1969; vedi). Peraltro già con il film successivo, l’intenso Caro Michele (1976; vedi), Monicelli “rientra nei ranghi” e torna a narrare i nobili crucci della sinistra rivoluzionaria e perfino terroristica.
Il nostro quintetto di amici affronta spesso apertamente il discorso dell’emancipazione della donna e della pretesa uguaglianza tra i sessi (non si tratta quindi di un argomento trattato tra le righe o in modo inconsapevole), approdando a convinzioni scettiche e quasi insofferenti; d’altronde nell’intero racconto appare evidente che l’uomo (meglio il quintetto di uomini) si muove nel mondo reale (sedi di giornali, cliniche, bar, strade e piazze) mentre la donna (le mogli e le amanti) appare sempre confinate in un contesto domestico (camere d’albergo, scantinati, ristoranti, abitazioni, feste casalinghe). L’epilogo è coerentemente tragico: il narratore, stanco, muore poiché il suo universo scanzonato e privo di valori certi sta morendo, oppresso dalle ideologie incombenti dell’Impegno civile e dell’Ugualitarismo. Non a caso queste visioni nefaste sono ben presenti nell’abitazione del Perozzi nelle vesti del suo antipatico figlio professore universitario (sempre impegnato e serissimo, un vero emblema della cultura di sinistra), della ex moglie che riesce a insultare il marito sul letto di mrote e di un sacerdote (il cattolicesimo viene irriso al pari di tutto il resto) al quale il Perozzi, nel momento estremo, rilascia una confessione fasulla, soprattutto per divertire gli amici.
Il film, tuttavia, per quanto altamente significativo e coraggioso, è tutt’altro che perfetto. Numerosi sono gli episodi di scarso interesse e le battute poco riuscite, a cominciare dal secondo grande racconto, quello del pensionato (Blier) cui viene fatto credere di essere in presenza di una banda di criminali dediti al traffico di droga, in guerra con una gang rivale: il gioco va troppo per le lunghe e, pur con qualche buon momento, scade nel puerile.
La colonna sonora di Rustichelli possiede i giusti toni dimessi e malinconici che fanno da valido contrappunto alle sguiaiataggini della banda; inoltre la parte del leone è riservata al quartetto verdiano Bella figlia dell’amore (da Rigoletto), il cui originario tono tragico viene completamente annichilito e sostituito da una cantabilità melodiosa e spensierata. In tal modo Monicelli agisce sul testo musicale valorizzando la sensualità del Duca e di Maddalena e lasciando in ombra il cocente rimpianto di Gilda e la rabbia di Rigoletto. D’altronde la spregiudicata condotta del Duca di Mantova, un seguace del Don Giovanni mozartiano, appare l’unico vero ideale del nostro quintetto di simpatici sfaccendati, eternamente alla ricerca di belle donne per appagare il proprio sfrenato desiderio.

Il sodalizio tra Paolo Villaggio e Luciano Salce inizia con un insolito film che trae spunto dalla sceneggiatura spagnola di sapore bunueliano A mi querida mamá en el día de su santo firmata da Rafael Azcona e Louis Berlanga i quali decisero di non girarla (forse per problemi di censura) e la cedettero a Salce, Sergio Corbucci e Massimo Franciosa che la adattarono al contesto italiano. Ne nacque il modesto e curioso Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno (ago. 1974; 105 min.) nel quale troviamo i temi dell’odio per la famiglia, per lo stato e per la chiesa, tipici del cinema antifranchista, conditi da svariate perversioni sessuali (in particolare quello delle bambole gonfiabili al quale, quasi contemporaneamente, Berlanga dedica Life Size, 1974), coniugati con lo schema vincente di Malizia (Samperi; trionfo commerciale del 1973).
Il trentenne conte Fernando (uno spaesato Paolo Villaggio) vive prigioniero di una opprimente villa  familiare (simile alle abitazione polverose de I pugni in tasca e La Cina è Vicina di Bellocchio) dove la contessa madre (Lila Kedrova) lo tratta come un fanciullo ingenuo e bisognoso di protezione. Il timidissimo ragazzone passa i pomeriggi nei cinema, visionando pellicole erotiche e si sfoga con bambole di grandezza naturale fino a quando non arriva in casa una domestica disinibita e affascinante (Eleonora Giorgi): l’amore per quest’ultima sembra dare il coraggio al giovane e lo spinge a progettare l’abbandono della sua dorata prigione ma la madre preferisce affogarlo nella vasca piuttosto che lasciarlo libero di sposare una servetta.
Nel testo spagnolo si intuiscono una serie di significati ideologici di matrice rivoluzionaria ed antiborghese. La contessa madre e i suoi amici clericali rappresentano un sistema statale oppressivo che reprime la nuova generazione e le impedisce di crescere, maturare e proporre un differente modello sociale. Pertanto Fernando deve sfogarsi con bambole, riviste porno, gesti provocatori (ripresi, in parte, da quelli presenti nel simpatico Harold e Maude, Ashby, 1973) e, allorché si unisce finalmente con una giovane donna del popolo, viene ucciso dalla madre che considera quel gesto “interclassista” un tradimento. Tutto ciò, piuttosto evidente nel testo filmico, appare però scauturire dalla particolare situazione spagnola (la dittatura franchista terminerà solo nel novembre 1975) ed appare del tutto incomprensibile se relazionato al sulfureo contesto italiano, tra stragi di destra e terrorismo di sinistra, dove l’ultimo dei problemi è l’emancipazione giovanile dai vecchi valori clericali e borghesi, la cui egemonia, nella penisola, si è dileguata già all’inizio degli anni sessanta. Ne consegue l’evidente fallimento di un film che dovrebbe avere i suoi punti di forza nel conflitto generazionale e nei gesti di esplicita trasgressione del protagonista, ma che non trova adeguata realizzazione da autori abituati ai contesti più realistici della commedia italiana. Si ricorda, in particolare, la sequenza della festa caritatevole durante la quale un gruppo di contadini straccioni fa a botte per uno smeraldo nascosto nelle cibarie offerte da un mefistofelico Fernando. Il riferimento è, ovviamente, alla cena dei barboni di Viridiana (Bunuel, 1961) ed illumina ulteriormente il carattere anarco-nichilista della visione di Berlanza ed Azcona i quali non sembrano riporre alcuna speranza nella cosiddetta “classe proletaria”, dotata degli stessi difetti (avidità, grettezza) di quella nobiliare.
Nell’insieme tuttavia la pellciola è ripetitiva, noiosa e claustrofobica; Villaggio appare smarrito in questa surreale parabola politica ed anche i gesti finali - la presunta rivoluzione attuata in sodalizio con la Giorgi - non ha colori sufficientemente accesi e si risolve, semmai, in una sciatta imitazione di Malizia.
Nel complesso un interessante documento d’epoca che illustra, senza volerlo, le profonde differenze esistenti tra situazione politica spagnola ed italiana.
L’anno successivo Salce e Villaggio portano sullo schermo Fantozzi (mar. 1975; 100 min.), il personaggio creato dal comico genovese in due libri di successo (Fantozzi, 1971 e Il secondo tragico Fantozzi, 1974). Come è noto, si tratta delle disavventure del più sfortunato e timido impiegato d’Italia, una figura di perdente di cui tutti si fanno beffe e di cui chiunque può approfittare. Il nostro antieroe, sposato ad una moglie rassegnata (Liù Bosisio) e con una figlia di rara bruttezza (in realtà un ragazzo, Plinio Fernando), invano corteggia la collega (Anna Mazzamauro) che peraltro non è una gran bellezza, riuscendo solo a rendersi ridicolo davanti ai colleghi che non perdono occasione per rifilargli i loro carichi di lavoro. Nell’azienda, in cui presta servizio da anni, a stento lo conoscono ed è escluso che egli possa mai fare carriera. Anche le attività che Fantozzi svolge nel tempo libero risultano banali e perseguitate da un fato avverso: una partita di calcio che termina nel fango e una gita in campeggio foriera di ogni sorta di ridicolo incidente. Nel finale il protagonista sembra avere uno scatto d’orgoglio, legandosi all’unico comunista presente nell’azienda, di cui si sforza di condividere l’ideologia antisistema. Tuttavia, convocato dal megacapo, egli si prostra, come sua abitudine, di fronte a “sua santità” e finisce con l’ammirare la spietata determinazione di chi gestisce il potere senza scrupoli e senza rispetto alcuno per i sottoposti.
Il film, condotto seguendo lo stile farsesco e surreale delle comiche dell’epoca del muto, è suddiviso in tanti capitoletti sostanzialmente autonomi ed irrelati tra loro (gli eventi dell’uno non influiscono sugli altri), finendo col comporre un caleidoscopio gustoso in cui si alternano episodi riusciti ad altri francamente inerti e privi di brio. In generale Salce, abituato a commedie umoristiche dotate di un taglio più realistico, non appare a proprio agio con questo genere slapstick che esige maggiore ritmo e fantasia. Quando il testo è fiacco, la regia non riesce a vivacizzarlo ed anzi ne accentua la disperata piattezza (si pensi al lungo episodio della partita d calcio oppure alla gag della gita in barca). Altrove, invece, la coppia Salce-Villaggio firma alcuni momenti esilaranti, degni di entrare nella storia del cinema comico italiano (si pensi all’episodio del campeggio, all’incontro con i bulli che distruggono la bianchina di Fantozzi o la sequenza della dieta “carceraria”, quest’ultima originariamente scartata ed aggiunta per l’edizione in dvd del 2004). Vi sono anche episodi patetici (la festa di Natale con la figlia di Fantozzi apertamente derisa dai dirigenti per la sua bruttezza), ma rimangono momenti secondari (perfino in essi il ragioniere Ugo non smette di essere servile, goffo e rassegnato) che non mutano il carattere umoristico dell’opera.
La pellicola costituisce, a suo modo, un’anomalia nel contesto incandescente degli anni settanta. mentre infuria la lotta di classe, esplodono bombe ed il terrorismo si avvia a dominare la scena politica, il film di Salce e Villaggio evoca un’Italietta semiscomparsa che ricorda semmai il ventennio ed il primo dopoguerra con questi impiegati svogliati e invidiosi, non troppo dissimili da quelli descritti da in Le miserie del signor Travet, filmate in un’ottima pellicoda di Mario Soldati del 1945(vedi). Fantozzi è il piccolo borghese che non sa dove stia di casa la rivoluzione, che percepisce i propri superiori come appartenenti ad una sfera inarrivabile (si veda l’incredibile finale, con il padrone eretto a Divinità dal ragioniere Ugo) e che vive in una mediocrità di cui è pago e felice. Le sue orribili feste in ambietnti desolati (il veglione triuccato, non lontano, nell’ambientazione - non nel tono, ovviamente - da quelli descritti dal primo Olmi de Il posto e de I fidanzati), la sua vecchia bianchina, le partite a tennis nella nebbia, le vacanze in modesti campeggi sono il contesto naturale del nostro antieroe, contesto del quale egli va quasi fiero. In ogni caso non ne desidera un altro. Fantozzi è un conservatore rassegnato nell’era della rivoluzione marxista e i suoi colleghi, per quanto più svegli e fortunati di lui, non hanno ambizioni differenti: frequentano gli stessi luoghi di intrattenimento, tirano a campare sul lavoro (anziché sbrigare le pratiche perdono tempo in giochi infantili) e non posseggono né una coscienza di classe, né un viscerale odio nei confronti dei loro “padroni” che, più volentieri, definiscono “datori di lavoro”. Certo sono impiegati invidiosi, consci tuttavia delle naturali diseguaglianze presenti nella realtà sociale; non si sognerebbero mai di prendere il posto dei loro “padroni”, per svolgere mansioni per le quali, appare a tutti evidente, non avrebbero alcuna reale comeptenza.
Negli anni di piombo, l’enorme successo commerciale di Fantozzi costituisce un segnale inequivocabile: la grande massa degli Italiani guarda con simpatia a questo perdente senza qualità, rassegnato al proprio destino modesto ma anche sicuro (possiede comuque una casa, un’auto, una moglie, una figlia, uno stipendio, una futura pensione... ); tale massa sociale si sente ovviamente superiore a questo bizzarro soggetto e, tuttavia, sembra condividerne la visione tradizionale e, in qualche modo, atemporale, basata su una rigida gerarchia delle classi sociali le quali, come negli anni ormai lontani del ventennio, sono tenute a collaborare quotidianamente (e non a lottare in modo conflittuale) per ottenere risultati minimi di produttività dai quali dipende il benessere di tutti (“mega” dirigenti e “infimi” impiegati). Il trionfo di Fantozzi - una commedia di puro intrattenimento, situata agli antipodi del cosiddetto cinema “impegnato” o “d’autore” - è un segnale tranquillizzante: gli Italiani approvano l’atteggiamento perplesso e rinunciatario del ragioniere Ugo come pure il suo contesto aziendale pacificato, nel quale le uniche tensioni sono quelle basate su piccole gelosie e su marginali rivalità amorose nei confronti di una collega un po’ civetta.
L’anno seguente, con Il secondo tragico Fantozzi (apr.1976; 100 min.), Salce e Villaggio replicano la buona riuscita del primo episodio. Lo schema è il medesimo: una collana di episodi autonomi nei quali si ribadisce il carattere di sfortunato perdente del ragioniere Ugo. Le situazioni appaiono ricalcate su quelle del lavoro precedente e la regia si dimostra più abile nella scelta dei ritmi e delle inquadrature, al punto che il film, pur non soprendendo, risulta complessivamente superiore rispetto alla prima puntata. Alla partita di calcio si sotituisce la partita di caccia, altrettanto devastante; alla sequenza del campeggio quella della festa relativa all’inaugurazione di una nave e così via. Viene anche sviluppato il tema del corteggiamento della signorina (ora signora) Silvana  nel lungo e riuscito epiosdio conclusivo della “fuga d’amore” e delle vacanze a Capri, un mero espediente della donna messo in atto per far ingelosire l’infedele marito.
Il cuore di questa seconda puntata rimane, tuttavia, il celebre ed esilarante episodio de “La corazzata Kotionkin” ossia una tagliente satira de La corazzata Potemkin di Serghej Eisenstein. Quest’ultimo, mero film di propaganda girato nel 1925 (per il ventennale della rivoluzione del 1905), pur annoverando sequenze suggestive, era un film di sostegno alla giovane rivoluzione russa nel quale si modificavano i fatti della reale rivolta di Odessa e si troncava la narrazione nella fase in cui i ribelli ottenevano una sterile vittoria iniziale, senza poi raccontare il tracollo complessivo che seguì alle successive peregrinazioni del Potemkin in fuga da Odessa: insomma un’opera, a suo modo, falsificazionista a scopi celebrativi eretta, dalla cultura di sinistra più ortodossa e intransigente, a classico della storia dell’arte filmica. Un “classico”, per la verità, visto da pochissimi ed uscito in Italia in versione ufficiale solo nel 1960 (insieme ad Alexander Nevsky e La congiura dei Boiardi, tutti inediti nella penisola). Sebbene il grande pubblico lo immagini come un film di una lunghezza insostenibile, la pellicola dura, in realtà, solo 70 minuti.
Nel film di Salce un dirigente “illuminato” obbliga i suoi dipendenti, tra cui il povero ragioniere, a reiterate visioni di quella pellicola (av ricordato che Salce non potè utilizzare il film originale e, pertanto, lo rinominò Kotiomkin, trasformò Eisenstein in Einstein e ricreò alcuni spezzoni esemplari da proiettare nel cinecircolo aziendale) fino a provocare la ribellione dei sottoposti (una ribellione che risulta essere una versione caricaturale ed umoristica di quella dei marinai di Odessa), per l’occasione guidata proprio da Fantozzi. E’ una situazione tutt’altro che sciocca: in qualche modo il regista e il comico ligure mettono in scena una situazione tipica dell’Italia dell’epoca in cui una media borghesia snobistica, orientata a sinistra, infligge costanti sermoni sulla grandezza della cultura socialista, ad una classe piccolo borghese scettica ed irritata. E’ una situazione che purtroppo si ripete, in Italia, fino ai nostri giorni, a distanza di 25 anni (circa) dalla caduta del muro di Berlino. A quello stato di cose il regista ha il coraggio di rispondere con insolito coraggio, mettendo in scena una radicale satira di quel genere culturale che afflisse buona parte degli anni settanta, trovando terreno fertile soprattutto nei cosiddetti cineforum e cinema d’essai. Ovviamente in quelle sale passavano numerosi, indiscutibili capolavori (percepiti come tali ancora oggi) ma anche un’enorme quantità di paccottiglia il cui unico merito era quello di esaltare la cultura comunista/egualitaria esistente al di là della cortina di ferro oppure di proporre un linguaggio filmico scomposto e disordinato (si pensi a tutto Godard) quale allegoria di una auspicata rivoluzione da mettere in atto nelle strutture sociali, sempre guardando a Mosca come a un faro di civiltà. L’esplosivo episodio presente ne Il secondo tragico Fantozzi e l’enorme successo che arrise alla pellicola sono pertanto i segni liberatori di quella cultura borghese rimasta immune dal verbo socialcomunista e felice, finalmente, di poterne ridere.
Non solo Fantozzi e compagni si ribellano, ma sequestrano il dirigente cinefilo e lo obbligano a sorbirsi, per tre giorni, le proiezioni di film (si tratta di Giovannona Coscialunga, L’esorciccio e La polizia s’incazza; quest’ultimo è un titolo di fantasia) che appartenevano all’altra sponda filmica, quella conservatrice e, a tratti, reazionaria, delle commedie erotiche e dei poliziotteschi.
Il dittico fantozziano mostra pertanto una classe dirigente italiana “illuminata” e socialisteggiante, dedita a forme ipocrite di solidarismo che le servono per meglio illudere e sfruttare l’esercito dei suoi dipendenti. Anche questa seconda puntata termina con il nostro antieroe ricevuto nel “sacrario” del megadirigente il quale, in modo paternalistico, lo perdona delle nuove malefatte e lo riassume in un ruolo surreale (quello di parafulmine) e punitivo.

Salce riprende la situazione chiave di Romanzo popolare (un notevole successo commerciale) in L’anatra all’arancia (dic. 1975; 100 min.), adattando allo schermo, insieme a Bernardino Zapponi,  la commedia di William Douglas Home intitolata The Secretary Bird (1967), partendo dalla versione francese di Marc Gilbert Sauvajon rinominata Le canard a l'orange.
Ritroviamo il consueto triangolo amoroso nel quale il ricco pubblicitario Ugo Tognazzi si finge uomo moderno e comprensivo allorché scopre che la moglie, Monica Vitti, lo tradisce con un ricco e sofisticato francese (John Richardson). Il marito invita il rivale per un ultimo weekend a casa propria e “intrattiene” la nuova coppia mentre amoreggia con la propria vistosa segretatia (Barbara Bouchet). L’intenzione è quella di far ingelosire la moglie e di liquidare il suo amante; nonostante le evidenti indecisioni della consorte, il progetto sembra fallire e, quando ormai l’uomo si ritiene battuto, la donna ritorna da lui.
Il film-commedia, pressoché interamente ambientato nella residenza dei coniugi, è condotto in maniera brillante da Salce e dai suoi bravissimi interpreti. Rimane tuttavia un esibizione abbastanza scolastica e prevedibile. A differenza del film di Monicelli dell’anno precedente, in cui l’ambientazione popolare era strepitosa e costituiva l’elemento vincente del racconto, nel lavoro di Salce siamo sostanzialemte sulle tavole dell’eterno palcoscenico delle farse familiari risalenti alla tradizione francese ottocentesca (la pochade di Georges Feydeau) e i personaggi appaiono astratti ed atemporali come tutta la narrazione. Anche l’ambizione “modernista” di Tognazzi, realmente sentita in Romanzo popolare, è in questo caso un mero stragemma per attirare l’amante nella propria abitazione e poterlo demotivare attraverso i più bizzarri accorgimenti. Dunque un elegante film che finge di calarsi nell’atmosfera degli anni settanta (invano Salce inserisce alcuni telegiornali catastrofici per caratterizzare il periodo) ma che mette in scena l’eterna battaglia dei sessi, chiudedo con un inno all’indissolubilità del matrimonio, tipico di quel teatro arcaico ma decisamente anacronistico se riferito alla metà del decennio in questione. Non a caso il film di Monicelli concludeva in maniera antitetica.
Rimane all’attivo del film la bravura degli interpreti e la vivace scrittura del testo teatrale.
L’anatra all’arancia ottiene un ottimo successo commerciale.

testo scritto nel nov. 2013