Sequestro di persona,  Vergogna schifosi! e Tò è morta la nonna!

 I protagonisti, Pelle di bandito, Barbagia, Sequestro di persona, La morte ha fatto l’uovo, Più tardi Claire più tardi, Vergogna schifosi!, Delitto al circolo del tennis, L’arcangelo, Tò è morta la nonna!, Senza sapere niente di lei: sequestri e “rivoluzione” (1968-69)

                  “Il banditismo non è che la spia di una condizione di
                  arretratezza e di malessere..
                  Il no radicale alle strutture della società borghese
                  inducono alcuni a vedere in Graziano e nel banditismo
                  un elemento di sovversione, un esempio per la
                  guerriglia”
                  voce fuori campo, Barbagia (1969)

Per il proprio esordio, Marcello Fondato sceglie di dirigere un insolito giallo con evidenti implicazioni politiche. Ne I protagonisti (feb. 1968; 100 min; il titolo sarà ripreso nel 1992 da un magnifico film di Altman) si narrano le disavventure di un quintetto di turisti annoiati in Sardegna (dalle parti di Nuoro) i quali, anziché andare semplicemente a caccia, riescono ad ottenere udienza (a pagamento) dal principale latitante della zona, il bandito Taddeu (Lou Castel), figura vagamente ispirata a quella del bandito Graziano Mesina. Da lontano li tengono d’occhio sia le forze di polizia, guidate da un solerte commissario (Gabriele Ferzetti), sia i militari. Mentre gli uni si dimostrano indulgenti e si limitano a controllare da lontano, gli altri invece decidono di sfruttare la situazione, cercando di individuare il nascondiglio del bandito. Il quintetto di “protagonisti” è diviso in due categorie: gli amanti dell’ordine (Jean Sorel e Sylva Koscina) e i simpatizzanti di sinistra (Luigi Pistilli, Maurizio Bonuglia e Pamela Tiffin) i quali si riconoscono per la propensione all’amore libero (Bonuglia intreccia apertamente effusioni amorose con entrambe le donne del gruppo) e per un generale senso di frustrazione.
Nella seconda parte, allorché i militari scalano la montagna e attaccano i banditi (evidente il rimando alle situazioni di Salvatore Giuliano, Rosi, 1961), i due “progressisti”, nascosti in cima ai monti, arrivano a sparare sugli odiati militari (sicuri che la colpa, poi, ricadrà sui banditi), incoraggiati in ciò dal bandito Taddeu (la presenza di Castel, icona del cinema rivoluzionario dell’epoca, dopo I pugni in tasca, 1965, è un evidente segnale del carattere vagamente rivoluzionario che si vuole attribuire al brigante).
Nel finale scopriamo che due sono le vittime tra i soldati senza però che Fondato chiarisca chi abbia sparato su di loro. I nostri ”eroi” ne escono vivi, ben protetti dai militari mentre il bandito riesce a sfuggire (la rivoluzione continua... ). Nelle ultime battute la radio (i media al servizio del sistema) raccontano tutta un’altra storia: “alcuni turisti, scoperto per caso il nascondiglio del bandito, hanno prontamente avvisato le forze dell’ordine...”. Il sistema dell’informazione cerca di nascondere l’inquietante trasformazione politica della borghesia italiana verso una generica insoffeenza delle regole, attraverso una notizia tanto falsa quanto rassicurante: la gente comune continua ad essere dalla parte delle forze dell’ordine...
La pellicola di Fondato, alquanto inverosimile se presa alla lettera, costituisce una riflessione interessante sulla situazione sociopolitica alle porte del “sessantotto”. C’è una vasta area borghese, annoiata e alla ricerca di facili trasgressioni, che ammira chiunque si ponga in una stuazione di contrasto nei confronti delle odiate autorità; ad essa si oppone un’altra area - la cosiddetta “maggioranza silenziosa” - che invece preferirebbe eliminatre tutti questi elementi di disordine (il film si apre su una festicciola di matrice fascista cui partecipa Jean Sorel). Tra le forze dell’ordine si segnala invece la radicale antitesi tra il carattere comprensivo della polizia (tendenzialmente sensibile alle richieste delle sinistre) rispetto al carattare intransigente e repressivo dei militari, i quali non esitano a mettere a repntaglio la vita degli incauti turisti pur di catturare Taddeu. A tutto ciò va aggiunto che la produzione/distribuzione è affidata alla Italnoleggio cinematografica, un ente egemonizzato dal Pci.
La recitazione è efficace come pure l’ambintazione in una Sardegna spoglia e rocciosa, mentre la musica di Bacalov, che riprende apertamente alcune celebri vocaboli de La sagra della primavera (Stravinski, 1913), possiede la capacità di tenere alta la tensione e il senso dell’attesa.
L’intreccio poliziesco è, in questo caso, un pretesto (come lo era in Salvatore Giuliano) per delineare una visione politica articolata e complessa: lo scenario è nuovamente (dopo il periodo 1943-48) quello di una feroce contrapposizione frontale tra socialcomunisti e conservatori, giocata ad ogni livello. L’universo della trasgressione, erotica o banditesca, tiene banco nel campo dei progressisti - gente un po’ velleitaria, spesso di origini borghesi, votata al nuovo ad ogni costo - cui si contrappone la sfera dei conservatori decisa a rimanere fedele alla tradizione ed alle istituzioni del sistema liberal-capitalistico. Inutile aggiungere che l’autore guarda con maggiore simpatia al “nuovo che avanza”, non tanto perché coincida realmente con l’ideologia marxista (il decennio seguente illustrerà le continue tensioni esistenti tra sinistra ufficiale ed “extraparlamentare”), quanto perché è utile a creare disordine e a sovvertire un solido sistema di valori borghesi che argina l’avanzata delle sinistre.
Il successo commerciale fu assai modesto.

Lo stesso tema viene affrontato da Piero Livi nel suo film d’esordio, Pelle di bandito (set. 1969; 104 min), basato su una sceneggiatura propria e di Giuliano Cazzedda e Delia La Bruna ed apertamente ispirato alle gesta del bandito Graziano Mesina, rinominato Mariano Di Linna (Ugo Cardea). Vi si raccontano le sue recenti gesta, la fuga dal carcere di Sassari in pieno giorno, insieme con lo spagnolo Pedro (Giuliano Disperati), la fuga in taxi, i sequestri, gli scontri con la polizia (sempre descritta con antipatia, quasi si trattasse del “nemico”), la morte dell’amico spagnolo ed infine la sua cattura (tutt’altro che definitiva, considerando il prosieguo dell’esistenza di Mesina).
La pellicola sceglie l’estetica del neorealismo, tra volti nuovi, squarci documentaristici, attori non professionisti presi dal luogo, fotografia in bianco e nero e ambientazione nelle terre sarde. Coerentemente con quello stile, il punto di vista è pertanto decisamente collocato a sinistra con uno sguardo giustificazionista che ritrae il bandito come un mezzo eroe le cui gesta sono determinate dalla diffusa povertà e dalle prepotenze della classe padronale (i latifondisti e i proprietari dei fondi). I dialoghi, oggi quasi inascoltabili (ma anche allora numerose furono le critiche che definirono il film “inaccettabile”), offrono innumerevoli spunti di riflessioni di impronta marxista sul presunto rapporto tra strutture economiche liberalcapitalistiche e reazioni violente, concepite nel classico rapporto di causa-effetto. E’ importante ricordare che in quegli anni perfino Feltrinelli, in cerca di un proprio esercito rivoluzionario, si recò in Sardegna per valutare l’ipotesi di una Cuba nostrana, con forze rivoluzionarie affidate alla guida del carismatico bandito Mesina. In tal senso appare tutt’altro che casuale l’interesse che numerosi cineasti di sinistra dimostrano, in questo periodo, per il banditismo sardo.
In una logica meramente filmica va rilevato che la pellicola è piuttosto tediosa (come la gran parte del cinema neorealista classico) ed inoltre incoerente poiché non riesce ad evitare il romanzetto amoroso con il bandito che rischia più volte di essere catturato pur di far visita all’amata Stefania (Mavì) e che anzi si immagina venga preso dalla polizia proprio nell’abitazione di quest’ultima (unica vicenda di fanrtasia in un film molto fedele alle azioni di Mesina del 1966-67).
Pelle di bandito viene presentato al festival cinematografico di Venezia del 1969, a riprova dell’interesse che si vuole creare intorno a questa problematica. Il pubblico, più saggiamente, diserta le sale in cui la pellicola viene programmata. Gli incassi furono irrisori.

Nello stesso mese esce anche Barbagia. La società del malessere (set. 1969; 90 min.) di Lizzani, anch’esso incentrato sulle gesta di Graziano Mesina. Il titolo riprende quello del libro (1968) del giornalista sardo Giuseppe Fiori, in seguito senatore nella sinistra indipendente ed autore di una biografia (1989) di Enrico Berlinguer e del primo libro (Il venditore, 1995) in cui si attaccava frontalmente Silvio Berlusconi.
Il film di Lizzani è simile a quello di Livi (gli eventi raccontati sono pressoché gli stessi; manca solo la vicenda amorosa sostituita da un’allegra serata dei banditi con donnine compiacenti), altrettanto tedioso e brutto, ed allo stesso modo apertamente schierato con il bandito, descritto come un sorta di eroe rivoluzionario le cui azioni sono il portato di una società ingiusta e diseguale. Si arriva al ridicolo di sequestrati che fanno amicizia con i sequestratori, di cui sembrano condividere le quotidiane problematiche, mentre i banditi si atteggiano addirittura a povere vittime del sistema e a zelanti “lavoratori” del crimine. In una delirante sequenza il povero Terence Hill (completamente fuori parte) racconta al pubblico la dura vita del sequestratore, sempre tra i monti, oberato da enormi spese “professionali” (acquisto di armi, il costo del mantenimento dei sequestrati) e sostanzialmente povero come quando faceva il pecoraio. L’intero finale è costituito da un’interminabile sparatoria tra forze dell’ordine e banditi, negli aspri paesaggi montagnosi della Barbagia e rimanda ai coevi, spettacolari western italiani (a riprova dello scarso realismo della pellicola nel suo insieme, al di là delle pretese di ricostruzione documentaristica che si affacciano qua e là nella narrazione)
La pellicola è oggi francamente inguardabile ed è sostanzialmente un interessante reperto di un’epoca in cui la sinistra cercava alleati a 360 gradi e arruolava nelle sue fila chiunque, tra i proletari e gli emarginati, trasgredisse le regole e si ribellasse, aggredendo la classe media. Ovviamente la pellicola descrive solo l’esistenza dei abnditi e si guarda bene dal descrivere, anche sommariamente, le sofferenze delle vittime prese in ostaggio per lunghi periodi o dei familiari costretti a vendere ogni loro proprietà per pagare il riscatto. Per completare il quadro fazioso ci sono poi le forze dell’ordine e i rappresentanti della borghesia, ritratti con l’evidente antipatia e il gelido distacco riservato al “nemico di classe”.
Dopo Svegliati e uccidi (1966) e Banditi a Milano (1968), Barbagia conclude la trilogia criminale di Lizzani, animata da intenti pseudogiornalistici che nascondono intenzioni semplicemente propagandistiche. Tuttavia mentre le prime due pellicole possedevano pregi oggettivi (le ambientazioni suggestive, vicende più differenziate, ottimi attori, commenti musicali incisivi), nella terza non si trova niente di salvabile, a cominciare dal cast sbagliato (gli inespressivi Terence Hill e Don Backy nel ruolo dello “spagnolo”), fino alla narrazione ripetitiva e spesso retorica. Non ci viene risparmiato neppure il riferimento alla Spagna franchista di cui lo “spagnolo” sarebbe un fuoriuscito per ragioni politiche (così da giustificare le sue scelte criminali) ed il ritratto della dolente madre del bandito che difende il povero figlio con argomenti impossibili (la morte violenta di un altro suo figlio).
Gli incassi sono appena buoni, ma sono solo la quinta parte di quanto ottenuto da Banditi a Milano (un clamoroso successo della stagione 1967-68).

L’argomento del banditismo sardo viene affrontato con maggiore sobrietà e realismo in Sequestro di persona (mar. 1968; 90 min.), opera seconda di Gianfranco Mingozzi su un soggetto di Ugo Pirro. Si tratta certamente del migliore film realizzato su questo delicato tema.
Vi si racconta il sequestro di Francesco Marras (Pier Luigi Aprà), il cui padre (Ennio Balbo) è costretto a vendere tutte le proprie terre “a mare” all’ambiguo Osilo (Frank Wolff), il quale finge di aiutarlo, mentre si scoprirà essere il vero capo della banda criminale. La famiglia non vuole parlare con la polizia e si fa aiutare soprattutto da Gavino (Franco Nero), amico di famiglia e futura vittima della anonima sequestri. Siamo dalle parti di Nuoro, all’interno di un contesto sociale in cui è palese la diffidenza nelle autorità statali. Il punto di vista esterno, continentale se si vuole (quello dello spettatore) è affidato a Cristina (Charlotte Rampling), la fidanzata di Francesco, la quale, non riuscendo a comprendere ed anzi disapprovando le dinamiche di quel contesto, denuncia il sequestro alla polizia e diviene, di fatto, la causa della morte di Francesco (avvenuto durante uno scontro a fuoco tra banditi e forze dell’ordine). Il racconto è però incentrato sulla lunga, solitaria e attenta indagine di Gavino il quale non tarda a comprendere chi è il mandante dell’operazione. Pur di smascherarlo non esita a farsi sequestrare ed a raccontare le reali dinamiche agli stupefatti sequestratori - poveri pastori che, supportati dalla tacita complicità dei loro paesani, avevano abbandonato le greggi per questa attività ben più lucrosa - i quali venivano “retribuiti” con una minima parte dei riscatti mentre la fetta più grande andava agli speculatori rispettabili del borgo come Osilo.
Nell’assurdo finale, la parte più suggestiva ma anche realisticamente più debole dell’intreccio, i banditi affidano Osilo alla vendetta privata di Gavino e del padre del ragazzo defunto mentre l’inorridita Cristina abbandona la scena...
Se, a differenza dei film di Fondato, Lizzani e Livi, la pellicola sembra dapprima non mitizzare i banditi, sembra evitare la loro “eroicizzazione” in nome dei principi egualitari, anche perchè tali banditi rimangono nell’ombra fino all’ultimissima parte del racconto, giunti allo scioglimento Mingozzi e Pirro scadono nei consueti stereotipi marxisti, addebitando alla povertà diffusa la criminalità dei pastori e imputando ai borghesi cittadini le colpe più gravi. Perfino nel settore malavitoso, questi ultimi continano ad essere i “padroni”, gli sfruttatori...
Peccato per questi esiti banali poiché altrove il film è ben condotto, ambientato con sensibilità tra inediti paesaggi rocciosi e villaggi silenziosi, nonché girato con mano sicura sia nella costruzione dell’intreccio, sia nella sua scansione narrativa “in crescendo”. Gli attori sono tutti convincenti e ben amalgamati così come perfettamente illustrata è l’estraneità di una società civile diffidente e timorosa nei confronti delle istituzioni repubblicane, sentite come appartenenti a un mondo lontano e inidoneo a risolvere i loro problemi.
Certamente sgradevole la sequenza iniziale in cui la fiat 124 spider di Francesco piomba a piena velocità su un branco di pecore ammazzandone un paio e lasciandone alcune sofferenti sulla strada, segno evidente di tempi differenti in cui la sensibilità generale per il mondo animale era assai più modesta. In ogni caso un gran brutto inizio che poteva essere girato in modo differente, evitando quelle inutili crudeltà.
La pellicola riscosse un ottimo successo.

Giunto al terzo lungometraggio, Giulio Questi si cimenta n un ambizioso giallo politico che approda ad esiti disastrosi. In La morte ha fatto l’uovo (gen. 1968, 90 min.) si racconta in fondo il solito triangolo: Marco (uno spaesato Jean Louis Trintignant) ha sposato la ricca Anna (Gina Lollobrigida), proprietaria di un allevamento di polli, ma ama la giovane Gabry (Ewa Aulin). Lo vediamo all’inizio del film sgozzare una prostituta in una camera d’albergo (la cosa si ripeterà nel corso del racconto) ma al fattaccio non seguono indagini poliziesche di alcun tipo. Intanto Gabry, cugina di Anna e in accordo segreto con l’amante Mondaini (Jean Sobieski), pensa ad eliminare i parenti per diventare l’unica padrona: la coppia criminale ammazza Anna con l’intento di far ricadere la colpa su Marco; quest’ultimo, compreso il complotto, deluso si suicida. Nel finale scopriamo che le uccisioni delle prostitute erano solo delle simulazioni...
Il film, sbilanciato tra dramma coniugale e intreccio poliziesco, in realtà possiede un’unica ragion d’essere: mettere in scena un atto d’accusa contro la borghesia industriale italiana, cinica, avida e spietata. Il racconto sottolinea il fatto che Marco ed Anna hanno automatizzato la fabbrica, licenziando tutti gli operai, i quali guardano in cagnesco dalle finestre e ogni tanto rompono qualche vetro. Intanto ai livelli alti dell’universo industriale, descritti con evidente disprezzo, si gioca la partita criminale tra Mondaini e Marco. Per completare il quadro Questi, coadiuvato in sede di sceneggiatura da Franco Arcalli, descrive il vuoto esistenziale della coppia in crisi secondo i tipici moduli antonioniani (per l’ambientazione il film rimanda soprattutto a Deserto rosso, 1964), con lunghe sequenze in cui ne ritrae la pochezza, culminanti nell’immancabile grande festa borghese con annesso gioco erotico. La ciliegina sulla torta la mette la colonna sonora di Bruno Maderna, all’epoca una firma importantissima dello stravagante panorama delle avanguardie musicali (oggi pressoché dimenticato), con un commento sonoro urticante, fatto dai soliti clangori ritmati (per lo più affidati al pianoforte), atematici e organizzati secondo canoni matematici. Le sonorità ricordano le musiche di Bartok, ma senza l’invenzione tematica e l’organizzazione tonale o modale di quest’ultimo. L’effetto del commento sonoro (era sperimentale anche in Deserto rosso) consiste nell’ulteriore allontanamento degli spettatori dallo schermo, nella impossibilità di qualunque meccanismo di empatia e immedesimazione, processo che approda ad uno sguardo freddo su personaggi scostanti e quasi insopportabili (di fatto due moriranno e gli altri due finiranno in carcere).
La morte ha fatto l’uovo è insomma l’ennesimo, sofisticato e noioso requiem nei confronti della borghesia produttiva italiana da parte di una nomenclatura “progressista” presuntuosa e sermoneggiante.
La pellicola ebbe un discreto successo commerciale.

Implicazioni politiche sembrano trasparire dall’altrettanto fallimentare Più tardi Claire più tardi (giu. 1968, 90 min), quarta fatica di Brunello Rondi. Completamente ambientato in un’elegante residenza toscana abitata da una vasta famiglia di inglesi benestanti intorno al 1910, il film racconta, nella prima parte (quasi un prologo), il misterioso omicidio di Claire, la padrona di casa (Elga Andersen) e nella seconda - un anno dopo - l’introduzione ad opera di George, il padrone di casa (Gary Merrill), di Ann (sempre Elga Andersen), quasi una sosia di Claire. L’uomo afferma in pubblico di volerla sposare ed in privato di averla portata in quella casa con l’intento provocatorio di suscitare nuovamente l’istinto omicida in chi aveva ucciso la prima moglie. Tuttavia nel colpo di scena finale scopriamo che il mandante dell’omicidio era stato lo stesso marito, deciso a vendicare le infedeltà di Claire. La rivelazione conclusiva, tuttavia, viene accolta con ipocrito scetticismo dal piccolo esercito di parenti (tra cui si distingue Rossella Falk), tutti legati da interessi materiali e da piccole trasgressioni ai quali non si vuole rinunciare.
Rondi cerca insomma di descrivere una società alto borghese corrotta, mendace, pronta a coprire l’omicidio. L’invettiva contro la classe dominante, alquanto stereotipata, viene condotta con interminabili dialoghi libreschi in questo maldestro dramma teatrale trasposto in immagini. Per farlo, più che alla Christie cui sembrerebbe rimandare il contesto (un luogo chiuso popolato da inglesi, un omicido irrisolto, una vasta schiera di sospettati), Rondi guarda ad Hitchcock di cui in sostanza riadatta due film: Vertigo (1958) e soprattutto Rebecca la prima moglie (1940). Come nel film tratto dal romanzo di Daphne Du Maurier, Rondi ci mostra un marito apparentemente affranto dalla perdita della consorte, marito il quale è invece il vero assassino che cerca di nascondersi dietro un secondo fidanzamento.
La pellicola è un contenitore vuoto, popolato di gesti inutili e dialoghi senza interesse, il quale, tuttavia, si avvale di una interessante colonna sonora di Giovanni Fusco. Quest’ultimo compone una serie di brani cameristici, affidati al flauto (di Gazzelloni), al pianoforte e al cembalo, che stendono sulle immagini un intreccio di sonorità neobarocche e novecentesche, inquiete e spesso aspre, che contengono anche reminiscenze della partitura più bella del compositore ossia quella scritta per Hiroshima mon amour (1959).
Il film circolò pochissimo.

Con Vergogna schifosi! (gen. 1969; 100 min.), Mauro Severino, al proprio esordio come regista (coadiuvato da Giuseppe d’Agata per la sceneggiatura), coniuga giallo e affresco politico con esiti appena discreti. Ciononostante il film contiene elementi d indubbio interesse.
A Milano, sei anni dopo un atto semicriminale (il trafugamento del cadavere di un amico, morto in circostanze poco chiare), Andrea, Lea e Vanni (Roberto Bisacco, Marilia Branco, Daniel Sola), tre personaggi dell’alta borghesia, si ritrovano ricattati da un misterioso individuo che spedisce loro una fotografia compromettente e chiede la somma di otto milioni. Il terzetto reincontra Carletto (Lino Capolicchio), un vecchio amico dell’epoca in questione, ora stravagante pittore (allestisce uan delirante mostra di quadri informali, secondo il “gusto” dell’epoca), e si convince che sia proprio lui il ricattatore. Tutta la parte centrale del film gira a vuoto, non approfondisce l’intreccio giallo e offre un ritratto della Milano del 1968 tra un’alta borghesia annoiata, descritta in modo manieristico (ripensando all’Antonioni della tetralogia di inizio decennio) e un manipolo di rivoluzionari anarcoidi alquanto velleitari (tra cui il “pittore” Carletto) che scherzano molto su bombe da mettere qua e là (e purtroppo il 12 dicembre di quel 1969, una bomba scoppierà realmente, proprio a Milano... ). Pertanto il racconto tralascia i risvolti inquietanti senza guadagnare alcunché da una generica descrizione di una Milano estiva, deserta e imbambolata in cui si aggirano esclusivamente borghesi sciocchi e marxisti della domenica. Nella conclusione, decisamente valida, la pellicola riprende quota: il terzetto, impaurito, decide di eliminare l’incauto scocciatore con un abile stratagemma (finirà giù da un balcone...) mentre il successivo ascolto di un nastro inciso da Carletto rivela che il suo ricatto era solo uno scherzo: l’uomo infatti non sapeva nulla del cadavere trafugato e aveva chiesto del denaro solo perchè la fotografa mostrava gli ex amici in una sorta di piccola orgia. L’anarchico ha scherzato col fuoco, mettendo a repentaglio il benessere faticosamente acquisito dei tre persomnaggi e ha pagato con la vita.
In queste riflessioni su una borghesia pronta a tutto pur di non perdere i privilegi acquisiti, c’è il lato migliore del racconto, l’aspetto più cinico e malinconico; esso, in fondo, prelude ad una stagione di duri scontri di classe, tra stragi e terrorismo, in cui ciascuna parte in conflitto userà qualunque mezzo pur di non affondare. Senza saperlo Severino è profetico allorché inquadra una classe dirigente pronta a sacrificare anche i propri ex amici (o ad ammazzare compatrioti innocenti, a piazza Fontana... ) pur di non rischiare il proprio benessere, messo in discussione dal montare di un giovanilismo marxista confuso negli obiettivi ma contagioso nel suo rapido diffondersi tra tutte le classi sociali e, come tale, difficile da arginare. Inoltre non può non risaltare il fatto che a giocare con la minaccia delle bombe (o del ricatto al sistema costituito) ci si rimette le penne: l’anarchico Valpreda, infatti, verrà incolpato dell’attentato di piazza Fontana anche se di bombe si limitava per lo più a parlare, come il nostro Carletto.
L’espediente finale  illumina a ritroso un film poco soddisfacente, pieno d tempi morti e di dialoghi soporiferi, in cui il tentativo di rifarsi alla peotica di Antonioni, senza possederne le particolari doti di immaginazione poetica, conduce verso esiti modesti. Il titolo viene addirittura reinterpretato: esso non indica solo l’incipit della lettera del ricattatore, bensì anche (e sopratuttto) un giudizio morale (anzi moralistico, considerando l’inverosimiglianza dei personaggi) dell’autore.
Oltre a questo curioso intreccio premonitore (quasi incredibile se si aggiunge che Carletto muore cadendo da una finestra come Pinelli...), rimane all’attivo del film una certa atmosfera lunare (lunghi silenzi, strade deserte, vivacità nei movimenti di macchina e nel taglio delle inquadrature) e una colonna sonora distaccata e semiumoristica di Ennio Morricone basata su una nenia (un girotondo) di carattere ipnotico. Tra l’altro quest’ultimo elemento lo si ritroverà qualche mese dopo nella colonna sonora de L’uccello dalle pume di cristallo come pure l’efficace trovata di Severino di descrivere la morte di Carletto, lanciando dal balcone una macchina da presa in funzione. Dario Argento doveva avere apprezzato questo film poiché ne riprenderà un terzo elemento ossia le riuninoni al cimitero (a volte in una cappella mortuaria) dei tre protagonisti, ambientazione che ritornerà in alcune situazioni chiave de Il gatto a nove code (1971).
Il successo commerciale del film di Severino è buono.

Un altro giallo di tono contestatario è Delitto al circolo del tennis (dic. 1969; 90 min.), opera seconda di Franco Rossetti, in cui si racconta il profondo odio che separa due generazioni. Il titolo è lo stesso di un breve racconto (1927) di Moravia, ma non vi sono altri elementi in comune.
Negli ambienti dell’alta borghesia pisana (la città toscana si vede solo una volta e male), una figlia (Angela McDonald) vuole distruggere il padre (Chris Avram), importante professore universitario, inserito ai livelli più alti della politica. Arruola pertanto il suo assistente (Roberto Bisacco) nonché proprio fidanzato e la giovanissima amante clandestina (Anna Gael) del padre. Quest’ultima si finge morta nello studio del professore il quale, preso dal panico, chiede all’assistente di far scomparire il cadavere. Da quel momento il terzetto semicriminale studia, da lontano, l’abisso di disperazione in cui è piombata la loro vittima. Nel finale chiarificatore, ma anche ellittico, assistiamo ad un’enigmatica pacificazione tra padre e figlia i quali si scrutano a lungo senza parlarsi.
Non un vero e proprio giallo, quindi (di delitti neanche l’ombra), come erroneamente prometteva il titolo vagamente ispirato ai polizieschi di Agatha Christie (ma durante la lavorazione il film si chiamava, in modo più appropriato, “La rabbia dentro”, alludendo, semmai, a I pugni  in tasca, Bellocchio, 1965). Al contrario il film si situa all’incrocio tra l’opera prima del regista piacentino e Il laureato (Nichols, 1967), tra relazioni sessuali trasgressive, toni fotografici sfumati (di Vittorio Storaro) e delicate canzoni pop. L’insieme risulta oggi mortalmente noioso tra dialoghi sconclusionati e vuote lungaggini (per raggiungere i fatidici 90 min.): un inutile dramma da camera (anche se la seconda parte è ambientata tra boschi e marine) con soli quattro personaggi, nessun esterno urbano, nessuna divagazione atta a rendere più realistico lo stravagante girotondo.
Gli incassi furono discreti.

Un altro titolo che possiede sfumature vagamente politiche è Interrabang (dic. 1969; 93 min.) di Giuliano Biagetti, su sceneggiatura di Luciano Lucignani e Giorgio Mariuzzo. Vi si narra la gita in barca di un gruppo di agiati borghesi: Fabrizio (Umberto Orsini), fotografo di successo è una sorta di padre padrone; intorno a lui gravitano la moglie Anna (Beba Loncar), la modella-amante Maregalit (Soshana Cohen) e la cognata saccente Valeria (Haydée Politoff). Con una scusa (in realtà seguendo un piano segretamente stabilito), Fabrizio abbandona nei pressi di un’isola le compagne e va a altrove con la scusa di cercare benzina. Le tre donne incontrano sull’isolotto Marco (Corrado Pani), un  uomo affascinante che si autodefinisce un poeta solitario e che seduce ed ammazza Anna e Maregalit. In seguito il nuovo venuto, d’accordo con l’astiosa Valeria, ammazza anche Fabrizio: in tal modo la cognata, che aveva mostrato un aperto disperezzo per i ricchi parenti, pensa di essersi impossessata dei loro beni; in realtà quello cui abbiamo assistito è stata una semplice commedia: i morti “resuscitano” ed irridono l’aspirante assassina la quale, stupita e furente, perde il controllo di sè e cade, finendo tra le eliche del motoscafo.
La pellicola, per quanto ben recitata e commentata da una scanzonata e briosa colonna sonora di Berto Pisano (in sintonia con il carattere semiumoristico dei colpi di scena finali), gira abbastanza a vuoto nella lunghissima prima parte, tra evidenti reminiscenze de L’avventura e di Blow Up (Antonioni 1960; 1966). I numerosi colpi di scena della seconda parte però rianimano la vicenda e la rendono abbastanza interessante. La cognata invidiosa, simbolo di una sinistra radicale e supponente, parla a vanvera di questioni culturali per mostrare la propria presunta superiorità e intanto cova un profondo odio per il benessere dei parenti. Ella medita di eliminarli ma viene sconfitta dalla superiore sagacia delle loro vittime che avevano intuito in anticipo il suo gioco ed avevano “comprato” il suo sicario offrendogli un compenso migliore. Valeria oltre è smascherata e sconfitta: il suo ribellismo è meschino risentimento che arriva a trasformarsi in un piano criminale di cui, però, finisce con l’essere l’unica vittima.
Biagetti pertanto rovescia all’ultimo gli stereotipi del cinema della cosiddetta alienazione o se si preferisce della borghesia “in crisi”: dietro quel vacuo frasario intellettuale si nasconde solo un desiderio di vendetta che, peraltro, non trova soddisfazione. La borghesia produttiva, rappresentata da Fabrizio, non appare affatto in crisi ed anzi sembra decisa a vender cara la pelle. I rivoluzionari di casa nostra sono avvertiti...
Il titolo allude ad un bizzarro e cerebrale ciondolo (riunisce punto interrogativo ed esclamativo) che Valeria si porta al collo e che definisce “il segno del dubbio, dell’incertezza di noi tutti, dell’incertezza di questa nostra epoca, dell’incertezza del mondo...”, utilizzando le consuete, fumose formule moderniste ed astratte dietro le quali si celano le pulsioni violente degli scontenti. Interrabang è pertanto un film politico controcorrente, conservatore e scettico intorno ai sermoni di quella nuova, presuntuosa gioventù che da qualche anno sembra intenzionata a rifondare il mondo.
Il film ottenne incassi discreti.

La miscela di commedia e poliziesco si ritrova anche ne L’arcangelo (apr. 1969; 100 min.), inconsueta pellicola di Giorgio Capitani (sceneggiata con Steno, Castellani e altri) completamente affidata all’estro di Vittorio Gassman.
Quest’ultimo interpreta l’avvocato Bertuccia, un professionista fallito che si arrabatta con mille sotterfugi per tirare a campare. Il nostro eroe viene preso di mira dalla bella Gloria (Pamela Tiffin) la quale gli fa credere più volte di avere ammazzato il proprio amante-padrone, l’industriale Tarocchi Roda (Adolfo Celi). Bertuccia le dà corda ed anzi la inganna a sua volta: ad ogni confessione l’avvocato anziché tutelare la cliente, chama la polizia e un amico fotografo (Carlo delle Piane), nella speranza di acchiappare finalmente una causa rilevante. Il gioco dura veramente troppo e stanca, nonostante la consueta bravura di Gassman, per giungere al prevedibile finale: Gloria - che, come è evidente, sta prendendo tutti per il naso - d’accordo con la moglie (Irina Demick) tradita dell’industriale, elimina realmente l’amante facendo ricadere la colpa su Bertuccia.
La pellicola, ambientata in una Milano convenzionale (tra duomo, piazza San Babila e il castello), risula un mezzo disastro: la commedia non diverte quasi mai (gli unici momenti umoristici sono affidati alle disavventure del povero fotografo, vittima delle stolte iniziative del Bertuccia), il giallo appare fin dall’inizio ripetitivo, prevedibile e pretestuoso e l’intreccio non sorprende, nonostante il dispendio di colpi di scena. All’attivo rimane soltanto la prestazione degli attori, tutti bravi (c’è anche Laura Antonelli in una piccola parte). Per il resto, si mette in scena la consueta battaglia dei sessi ove la vittoria completa della compagine femminile ai danni di un team maschile del tutto inebetito, appare del tutto allineata con i tempi nuovi e le rivoluzioni culturali in corso.

Monicelli si isnerisce nel filone con una sfortunata e poco riuscita commedia nera, Tò, è morta la nonna! (ott. 1969; 90 min.), basata su un soggetto di Luisa Montagnana. La pellicola, priva di attori di rilievo (i nomi più noti sono quelli di Carole André, Ray Lovelock e Valentina Cortese), mette in scena un macabro girotondo intorno alla salma della nonna di una ricca casata industriale. Per il funerale si ritrova l’intera famiglia e, in vista dell’eredità, si scatenano litigi di ogni genere cui seguono una serie di omicidi. Non sopravvive quasi nessuno e nelle ultime immagini il nonno balla felice con la governante mentre dalla finestra si vede una sfilata di carri funebri in partenza dalla villa.
L’intento è quello di creare un racconto satirico in cui si mostri la pochezza della borghesia imprenditoriale italiana: il soggetto è dunque perfettamente “alla moda” e non mancano figure giovanili di contestatori (Ray Lovelock) e perfino citazioni dal libretoto rosso di Mao. Il problema è che questo film corale, senza protagonisti, è anche senz’anima: dialoghi noiosi, pretese critiche velleitarie, ripetitività delle situazioni, carattere teatrale dell’insieme (il film si svolge interamente nella suddetta villa). Di notevole ci sono solo alcune inquadrature ben costruite e la conclusione surreale (il ballo dei due anziani) che verrà rirpeso da Pasolini nel finale del suo terribile Salò (1975), per certi aspetti (un luogo unico, una sequela di uccisioni, un gelido disacco dalla materia narrata, una buona dose di humour nero) somigliante a questo film di Monicelli.
Fin dal titolo l’autore vorrebbe creare un film sarcastico sull’ipocrisia dei rapporti familiari nell’era del capitalismo: la commedia della finzione cela odi antichi e i protagonisti riflettono sempre e solo sul mezzo di eliminare i parenti che fanno ombra. Ciononostante l’inconsistenza delle figure, tutte troppo simili tra loro, l’astio con cui vengono descritti e l’evidente faziosità di regista e soggettista porta l’operina al naufragio. Dopo I pugni in tasca (Bellocchio, 1965), Il laureato (Nichols, 1967) e dopo i disordini del ’68, non c’è nulla di più convenzionale che mettere in scena questi vuoti rituali antifamiliari e antiborghesi (si tratta in fondo di un conformismo che si pretende anticonformista...), senza avere qualche idea originale con cui sorreggerli. I film incentrati sulla contestazione antisistema hanno dato vita ormai ad un genere di consumo come gli altri. Inoltre questo sparare a zero sulla classe imprenditoriale italiana, antico italico vizio che risale addirittura a certi prodotti del cinema populista del ventennio fascismo e che poi attraversa tutto il cosiddetto neorealismo e il cinema politico degli anni sessanta (anche in forme sofisticate come tutto il cosdddetto cinema dell’incomunicabilità), è un atteggiameto francamente risibile se si pensa che la stessa industria cinematografica italiana (di cui la pellicola di Monicelli è un risultato, peraltro, tutt’altro che pregevole), così brillante in quel periodo, si basava appunto sugli sforzi di imprenditori non dissimili da quelli descritti in questa villa di mezzi deficienti.
Monicelli tenta poi di coniugare la materia con le geometrie del giallo inglese con evidente riferimento ai romanzi della Christie: in particolare sembra di assistere ad un edizione nostrana di Dieci piccoli indiani (1945), con la differenza però che non c’è nessuna tensione, nessun colpo di scena finale e che autori dei delitti sono un po’ tutti i personaggi del girotondo.
In definitiva, Tò è morta la nonna!, un solenne fiasco commerciale (allora anche i critici presero le distanze dal film; ad es. Mino Argentieri su Rinascita, la rivista del Pci, parla di “anticonformismo effervescente e falso”) è solo un interessante documento d’epoca che si rivede senza entusiasmo. Inutili appaiono le rivalutazioni postume.

Riguardo a Senza sapere niente di lei (nov. 1969; 95 min.) Comencini dichiara: "come attrice Paola Pitagora mi piaceva molto e ho fatto il film per lei". Ed infatti la pellicola - sceneggiata dall’autore con Leonviola, Suso Cecchi D’Amico, Raffaele La Capria ed altri - inizia come un giallo di investigazione su un fitto intreccio degno di tanti romanzi di Agatha Christie per poi arenarsi in un complicato e lacunoso ritratto femminile, sfiorando il film teatrale (tutta la seconda parte è un lungo dialogo a due). L’autore sembra più affascinato dalla sensualità innocente, quasi infantile, dell’attrice (che ritrae in pose ricche di sensualità) che non dal suo personaggio di donna instabile ai confini con la pazzia. In tal senso il film è poco riuscito, sebbene contenga elementi di interesse: oltre all’interpretazione della Pitagora, anche l’ambientazione in una Milano periferica, fredda e nebbiosa.
L’avvocato Brà (Philippe Leroy), impiegato presso una compagnia di assicurazioni, indaga sulla morte sospetta di una cliente: egli pensa che ci sia qualcosa di nascosto in quel decesso improvviso (per il quale la compagnia dovrà pagare agli eredi 300 milioni). Il nocciolo del mistero ruota intorno a Cinzia (Paola Pitagora) che rimase con la madre (la donna deceduta) nella serata in cui avvenne il fatto. Brà la cerca, la trova, se ne innamora (corrisposto), se la porta a casa e, tra un effusione e l’altra, la interroga. Scoperto il gioco, la ragazza si sente tradita e tenta addirittura il suicidio. Nel frattempo Brà pensa di avere appurato che la donna si è volontariamente suicidata (così racconta ) e che quindi l’assicurazione non deve pagare alcunché. Nello sviluppo del racconto però si scopre che è stata proprio Cinzia ad ucciderla con un’iniezione, su richiesta della donna. Brà è deluso su tutta la linea: l’assicurazione dovrà pagare e l’amante finirà in prigione mentre quest’ultima, vistasi ancora una volta tradita (o comunque non protetta) dall’amato, decide di suicidarsi in auto con lui.
L’intreccio misterioso, abbastanza curato nella prima parte del racconto (quella in cui comapiono tutti i parenti della vittima, divisi su tutto e già in lite per la forte somma che arriverà dall’assicurazione) e arricchito da un’interessante colonna sonora di Morricone, passa nello sfondo con l’inizio della relazione tra Brà e Cinzia. La pellicola assume i toni di un dramma passionale contorto e reso imprevedibile dall’instabilità psichica della bella giovane il cui carattere ondivago e sbarazzino risulta abbastanza gratuito e immotivato.
La pellicola anticipa in qualche modo l’interesse crescente che il cinema politico mostrerà negli anni settanta (e oltre) per i disadattati ed i “matti” (si pensi a Bellocchio, Giordana, Loach), ovviamente percepiti alla Rousseau, come il prodotto di un sistema ingiusto...
Il successo del film fu buono.