Caccia tragica e Natale al campo 119

Caccia tragica e Natale al campo 119: le due Italie (1947)

                      "Ieri eravate voi i banditi..."
                      (Daniela, Caccia tragica)
                       

Dopo il documentario Giorni di gloria, lavoro di montaggio di materiali altrui, Caccia tragica (80 min.) costituisce il vero film d'esordio di Giuseppe de Santis. Conclusa l'importante collaborazione in qualita' di aiuto regista nel film di Vergano (primi mesi del 1946), il cineasta ciociaro ottiene a sua volta i finanziamenti dall'ANPI per una pellicola che mostri la situazione precaria delle cooperative agricole nella bassa padana, strette tra i debiti, il padronato che le considera una concorrenza abusiva e la criminalita'. Il risultato (presentato con successo alla mostra di Venezia nel settembre 1947) e' sorprendente e si puo' tranquillamente considerare il migliore lungomeraggio della lunga e disomogenea carriera di De Santis nonche' una tra le cose piu' significative del periodo. L'esordiente non sfugge alla scontato e propagandistico manicheismo che vuole tutto il bene con il popolo (i contadini della cooperativa nel caso specifico) e tutto il male con i padroni e gli ex fascisti. Pero', come avveniva nell'unica altra pellicola compiuta e condivisivbile finora apparsa sull'argomento, Due lettere anonime di Camerini, De Santis riesce a mettere in scena in entrambe le fazioni, l'un contro l'altra armate, anziche' penose marionette, dei protagonisti a tutto tondo, credibili e dotati di una loro particolare umanita' (pur con alcune eccezioni). Inoltre l'autore evita le secche dell'improvvisazione e del "neorealismo" piu' sperimentale di Rossellini per affidarsi ad una solida e ben costruita sceneggiatura (prodotta da un  piccolo ìesercito di scrittori tra i quali Alvaro, Lizzani, Antonioni e Zavattini) in cui le reazioni dei personaggi emergono quale prodotto di situazioni stringenti, memori del noir americano. Concisione narrativa hollywoodiana e lirismo tutto italiano propongono, per la prima volta, una delle "ricette" vincenti del nostro futuro cinema; basti pensare che almeno due capolavori posteriori quali Salvatore Giuliano (Rosi 1961) e Novecento (Bertolucci, 1976) in alcune scene di massa (le donne in piazza a Montelepre,  i contadini assiepati sugli argini del Po) sembrano ricordarsi e citare proprio l' "antico" Caccia tragica.

Nel film sono individuabili quattro parti: la rapina, l'interrogatorio, la caccia e lo scontro finale. La prima sezione si apre sui paesaggi contadini della bassa padana (le valli di Comacchio), restituiti con documentaristica efficacia, la medesima presente nelle scene all'aria aperta di Il sole sorge ancora al quale aveva infatti collaborato anche De Santis. Il dinamismo dell'incipit (un camion in movimento che porta i sussidi governativi a una cooperativa in difficolta', Michele e Giovanna che si baciano, i commenti dei comprimari, l'originale uso della gru finalizzato ad enfatizzare la presenza dei realistici fondali) anticipa la qualita' principale della narrazione ovvero un'incalzante e densa concisione memore dei noir americani; la fulminea sequenza della rapina, nella quale i banditi fanno due vittime, ne e' un'ulteriore conferma. La giovane viene presa in ostaggio e tra i rapinatori Michele riconosce Alberto, suo ex compagno di prigionia in un lager tedesco, ora invece unitosi a una banda di ex fascisti ed ex nazisti. La situazione inattesa rispecchia con franchezza un panorama sociale dominato dalla miseria, nel quale la confusione ideologica e il connesso sbandamento morale poteva facilmente portare un individuo a collocarsi quasi per caso in un campo (le cooperative "comuniste") o in quello opposto (le bande criminali composte da reduci frustrati); per Alberto il caso si chiama Daniela detta Lili' Marlene, un tempo collaborazionista, alla quale egli si e' legato sentimentalmente, finendo per condividerne le eversive scelte esistenziali.
La seconda parte inizia con il solenne arrivo dei cadaveri alla cooperativa agricola: l'entusiasmo iniziale (si attendono i soldi necessari a salvare la giovane impresa dagli artigli dei creditori) si traforma in panico e sincero orrore di fronte alla scoperta dell'accaduto. Sopra una colonna sonora cupa e pulsante De Santis mischia abilmente le esplosioni delle mine con la felicita' popolare dapprima, con la disperazione subito dopo mentre gli stacchi della mdp sovrappongono immagini in movimento ad altre immagini in movimento, dando luogo ad un'ammirevole, dinamica sequenza, ricca di pathos. Il claustrofobico episodio dell'interrogatorio mostra Michele tacere, nonostante le pressioni dei contadini avviliti, mentre tra le baracche della cooperativa scoppiano tafferugli tra gli uomini dei padroni che sequestrano il bestiame e i braccianti, primo segno esplicito di quello scontro tra due Italie il quale costituisce il nucleo essenziale del racconto.
Il cuore della pellicola e' occupato dalla lunga caccia posta in essere dai contadini nei confronti dei fuorilegge in fuga. D'ora in poi De Santis narra in montaggio alternato le vicende degli uni e degli altri: da un lato l'universo dei "buoni sentimenti" (la definizione e' quella sprezzante di Daniela), intriso di umana solidarieta' (tutti i contadini della provincia si muovono ora all'unisono per stanare i banditi); dall'altro l'autoambulanza dei fuggiaschi nella quale un manipolo di vinti cerca una propria assurda rivalsa. Tra questi ultimi, mentre il tedesco e' il solito ottuso sadico, Daniela invece, dopo aver subito l'umiliazione del forzato taglio di capelli inflitto dai partigiani alle amiche dei fascisti, cova una rabbia cocente, un tormento che in parte motiva il suo agire dissennato. La crudelta' dei rapinatori tocca il suo apice nella sequenza in cui, dopo aver accolto sull'autoambulanza un ferito, Daniela, in preda ad un attacco isterico, scaraventa la barella con il malcapitato fuori dall'auto in corsa. Giunti a destinazione i banditi si ricongiungono ai segreti mandanti della rapina: i due padroni, creditori nei confronti dell'odiata cooperativa. La svolta narrativa coglie relativamente di sorpresa: se inserisce un nuovo elemento nella trama del complicato ed avvincente giallo d'azione, d'altro lato l'artificiosa identificazione di padroni e criminali porta troppo allo scoperto il retroterra ideologico della pellicola.
Nella sezione finale le due fazioni vengono alla resa dei conti: i banditi assediati in un casolare-fortino (come in un western) affrontano i contadini ritratti, al loro apparire nella radura, da splendidi e sontuosi movimenti di macchina orizzontali (se ne ricordera' Bertolucci in Novecento), segni linguistici volti ad indicare un auspicato dinamismo rivoluzionario in questa nuova, emergente classe sociale. Il dialogo tra Daniela e il capo della cooperativa costituisce il momento cuominante della pellicola: due Italie che si odiano sono a confronto, l'una al tramonto dopo un ventennio, l'altra al suo sorgere: "ieri eravate voi i banditi" afferma Daniela alludendo alla Resistenza e mostrando il relativismo di ogni definizione, il cui senso in definitiva si fonda sulla totalita' di cui fa parte ovvero sul tipo di  sistema politico in auge e sui suoi valori dominanti. L'Italia della forza, del profitto e del cinismo contro l'Italia dei "buoni sentimenti" e dell'ugualitarismo: la guerra civile in un certo senso continua, sebbene i rapporti di forze si siano ora capovolti (parlando ad Alberto, Daniela ribadisce la propria appartenenza ad un preciso e vasto sistema ideologico-politico allorche' afferma: "attraverso me, tu sei allacciato con tanti altri legami. Ne' io, ne' tu possiamo spezzare questa catena"). La storia dei decenni successivi dimostrera' che le idee dell'Italia del ventennio, tralasciando i loro contenuti piu' apertamente antidemocratici e razzisti, continueranno ad operare, seppure minoritarie, dentro la nuova Italia repubblicana, dapprima nello scellerato partito golpista e nel piu' ragionevole partito piduista (gli anni sessanta e settanta) per poi trovare una sorta di accomodamento negli anni del craxismo, prima di riemergere compiutamente nel bipolarismo degli anni novanta. L'episodio conclusivo di Caccia tragica illumina con realistica forza e con appropriati dialoghi questa radicale contraddizione insita nel tessuto sociale italiano.
Dopo la bella sequenza del treno dei reduci (ancora un episodio caratterizzato da "rivoluzionarie" immagini in movimento) durante la quale Alberto sfoga il proprio tormento in un improvvisato comizio (ma le argomentazioni sono stereotipate, cercando come sempre di scaricare le responsabilita' personali sul contesto sociale), nel prevedibile e didascalico epilogo egli si redime uccidendo Daniela. Nel breve "processo popolare" di fronte ai contadini (processo nel quale si respira l'aria del tempo, con le sue "giustizie" sommarie e profondamentre ingiuste nella loro casualita' e spesso gratuita') egli viene assolto e ricondotto sulla retta via
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Vi sono due Italie anche nel mediocre film di Pietro Francisci, Natale al campo 119 (dicembre 1947; 85 min.) ma in un senso del tutto differente. Il regista, nato a Roma nel 1906, autore fino a quel momento di pochi, saltuari film, tenta l’affresco nazionale nostalgico e dolente attraverso una sceneggiatura cui collaborano Giuseppe Amato, Vittorio De Sica, Aldo Fabrizi ed altri e che conta su un cast eccezionale (oltre a Fabrizi e De Sica anche Girotti, Peppino de Filippo, Campanini, Rabagliati, la Mercader ecc.) che fa ottenere  un buon successo alla pellicola.
Vi si affronta il delicato tema degli italiani ancora prigionieri in Texas durante il Natale 1945 (proprio in quel dicembre 1945 gli alleati riconsegnano alle autorità italiane l’amministrazione dell’esercito; gli italiani internati nei campi statunitensi tornano in patria poco dopo). Inutile dire che i “carcerieri”, a parte qualche scaramuccia con il burbero sergente di guardia (Adolfo Celi), vengono descritti con simpatia, appaiono oltremodo comprensivi e anzi si definiscono “prigionieri” anch’essi in quanto obbligati a rimanere lontani dalle loro famiglie, esattamente come il piccolo gruppetto di italiani.
Questi ultimi rievocano a turno le proprie vicende personali, dando luogo a un film a episodi, ognuno dei quali ambientato, in modo cartolinesco, in una importante città italiana (Milano, Venezia, Roma, Napoli, Firenze), con immancabile sottofondo di canzoni popolari. In questo contesto zuccheroso e troppo sentimentale, basato sulla nostalgica rievocazione di vicende quasi sempre precedenti al conflitto, appaiono di colpo, a tratti, frammenti di cruda realtà: a Firenze la protagonista cammina sul lungo Arno che mostra, come in un incubo, le spaventose ferite dei bombardamenti (le case sul fiume sono ridotte a cumuli di macerie); nei dialoghi di un internato triestino si allude con amarezza alla situazione drammatica (l’incombente minaccia titina) in cui vive il porto giuliano. Sono pochi accenni, piccole folgorazioni che mostrano la coesistenza di due Italie: una solo sognata, banale e popolata di stereotipi, nonché precedente la tragedia e l’altra dolorosa, fatta di lacerazioni e di situazioni irrisolte che popolano il duro presente. In tal senso la cornice della narrazione (il contesto “americano”, di gran lunga la parte migliore della pellicola) per quanto risolta in modo conciliante nei confronti della superpotenza dalla quale dipendono i destini della penisola, non può far dimenticare che quegli uomini, a otto mesi dalla fine delle ostilità, sono ancora confinati in un campo di prigionia nel lontano Texas.
Sullo stesso scabroso argomento il cinema italiano ritorna solo un’altra volta con Texas ‘46 (2001) di Giorgio Serafini, un lavoro di taglio teatrale e televisivo altrettanto deludente e stucchevole nonostante qualche timido tentativo di difesa del punto di vista dell’italiano qualunque, travolto in un tragico e incomprensibile valzer di alleanze, armistizi, cobelligeranze e dichiarazioni di guerra.