Ultimo mondo cannibale, Cannibal Holocaust, La montagna del dio cannibale, L’isola degli uomini pesce, Il fiume del grande caimano, Zombie 2, Paura nella
città dei morti viventi, Mangiati vivi!, Incubo sulla città contaminata, Alien 2, Apocalypse domani, Antropophagus, Zombi Holocaust, Le notti del terrore: una natura primordiale e terrificante (1977-80)
Ruggero Deodato inaugura con Ultimo mondo cannibale (feb. 1977; 90 min.) il cosiddetto genere dei cannibal movie. Il racconto è incentrato su quattro
occidentali che, nella giungla asiatica, rimangono in balia di una tribù cannibale con usanze primitive. Due muoiono subito, uno (Ivan Rassimov) scompare presto e Robert (Massimo Foschi) rimane solo, viene catturato,
imprigionato in uno scenario da incubo che parzialmente potrebbe avere ispirato il finale di Apocalypse Now (Coppola, 1979), fugge, rischia di essere nuovamente ripreso e alla fine riesce a salvarsi. Il film possiede
notevoli qualità: organizzato come un racconto classico – se si vuole come un western all’italiana, con il protagonista che sfida il gruppo, viene imprigioanto, fugge e (parzialmente) si vendica (uccide uno dei cannibali e ne
addenta le viscere per suggestionare gli altri) – si basa sull’eterno schema del singolo ignaro e civile, bloccato in una situazione orrorifica ed atroce. Non diversamente dalla protagonista di Suspiria o dai personaggio de La notte dei morti viventi (Romero,
1969), Robert è circondato da figure animate da una disgustosa e gioconda
malvagità di cui non sospettava neppure l’esistenza. Pertanto il film mette in scena la sfida dell’uomo occidentale nei confronti di un ignoto spaventoso ed estremo. Quella di Robert è un’infinita odissea che lo vede prigioniero nell’antro dei mostri (al posto di Polifemo) prima di riguadagnare la sua Itaca (l’aereo abbandonato all’inizio del film); in mezzo c’è una sequela inarrestabile di eventi truculenti che portano il protagonista al limite delle proprie capacità. Il film mostra una realtà sconosciuta al pubblico occidentale, un mondo in cui si scuoiano enormi coccodrilli per cena quando non c’è un occidentale da mettere sul falò: la morte è quotidianamente dietro l’angolo per queste popolazioni selvagge e arretrate.
Dal punto di vista figurativo Ultimo mondo cannibale offre squarci naturali di grande suggestione, paragonabili a quelli di Aguirre (Herzog, 1972) e Apocalypse Now (1979) ed è interessante l’associazione continua tra la bellezza della giungla e il senso di morte che la pervade (la sequenza del serpente che ingoia un’iguana o dei coccodrilli che danno al caccia agli umani). In un’epoca artefatta come quella odierna, dove il mondo si pretende ridotto a un semplice, turistico luna park, questo genere di pellicole indigeste ha il merito di ricordare le differenze non omologabili presenti ai quattro angoli del pianeta. Non a caso in differenti dialoghi i personaggi vagheggiano il ritorno ai loro confort californiani, confort che appartengono, realmente, ad un altro pianeta.
La descrizione dell’ “altro”, incomprensibile e terrificante, si concretizza in una massa di ominidi indefferenziata e minacciosa di sicuro effetto, certamente più paurosa di zombie e streghe, in quanto presenza
maggiormente realistica, appartenente ad un passato arcaico del genere umano. Nel contesto politico dell’epoca il film suona “scorretto” e controcorrente: le scene di violenza sugli animali e degli animali tra loro, anzichè una
ricerca di realismo forte, appare un affronto a quell’ugualitarismo pacifico che ormai coinvolge persino le bestie mentre la pittura di un universo amorale e feroce in cui il forte domina il debole e l’uomo governa la donna, al
di là e al di fuori delle oziose discussioni “illuminate”, appare quasi una provocazione alla logica del prevalente umanitarismo socialista. L’orrore evocato dal colonnello Kurtz nel finale di Apocalypse si dispiega compiutamente in
Cannibal Holocaust
(feb 1980; 90 min.), sempre di Deodato, seconda incursione dell’autore in un presunto mondo cannibale il quale diviene soprattutto metafora di una visione del mondo selvaggia e brutale. La pellicola spinge all’estremo la propia tesi, come raramente è stato dato vedere (il paragone immediato è con un altro film maledetto come il Salò di Pasolini) e perviene ad un film di una durezza quasi insopportabile, ma proprio per questo fortemente comunicativa e, pertanto, quasi unica.
Una spedizione di soccorso si inoltra nella giungla amazzonica (il film è stato girato a Leticia, punta sud della Colombia, adagiata sul Rio delle Amazzoni, al confine col Brasile) alla ricerca di quattro famosi esploratori
scomparsi due mesi prima; questi ultimi stavano girando un reportage sulle popolazioni cannibali per un network di New York. Dopo innumerevoli peripezie la spedizione ritrova i cadaveri dei quartetto e i filmati delle loro riprese. Giunti a metà film inizia un secondo racconto, esclusivamente basato sui filmati ritrovati. In essi facciamo la conoscenza dei quattro esploratori i quali si rivelano essere dei criminali che falsificano la realtà in modo crudele pur di ottenere un certo tipo di materiale scioccante per il pubblico casalingo delle televisoni. Il punto estremo viene toccato con l’episodio di una indios catturata, seviziata ed uccisa dai quattro; poi impalata e da loro “scoperta” come se si trattasse di una violenza perpetrata dagli indios. Questi ultimi, peraltro, non sono da meno dei loro “folli” visitatori e in breve tempo li ammazzano e se li mangiano.
Cannibal Holocaust è girato con un forte taglio documentaristico il cui forte senso di realtà annichilisce lo spettatore e lo impressiona profondamente. La violenza e la sopraffazione sono la regola della vita nella giungla dove, per cibarsi, si ammazzano quotidianamente animali, dove ci si contende il territorio tra differenti tribù – lo scontro di due di esse presso il fiume ricorda da vicino lo scontro delle scimmie per l’acqua di 2001 (Kubrick, 1969), un film che si colloca sulla sessa lunghezza d’onda di Cannibal Holocaust – e dove chi infrange le regole viene punito in modo selvaggio (la tortura e l’uccisione di una presunta adultera, ad opera di un indio). La visione di Deodato è quella prevalente in Kubrick e in Coppola: l’esistenza è una perenne e spietata lotta in cui i valori morali sono un lusso che non ci si può permettere nel momento in cui si torna ad “assaporare” le regole dell’esistenza “arcaica”. Anche l’uccisione di alcuni animali, mostrata nel film, è perfettamente in linea con l’affresco che si vuole creare, produce sequenze aspre e quasi insopportabili, ma necessarie per illustrare le regole vigenti in luoghi tanto primitivi. Le enormi polemiche su questo punto (il film fu addirittrua sequestrato a Milano e bloccato in un procedimento giudiziario per tre anni) sono assurde: in quel periodo, molto meno attento alle questioni animaliste e verdi, era frequente avere animali uccisi sui set: senza andare troppo lontano, basta ricordare il bue vivo macellato in Novecento, le rane uccise nello stesso film, il maiale vivo macellato ne L’albero
degli zoccoli e il toro ucciso in Apocalypse. In tutti i casi l’animale veniva ucciso per precise e fondate finalità espressive (e in seguito veniva probabilmente cucinato... ); in quei casi, tuttavia, non ci furono
polemiche, e tanto meno sequestri. Non si capisce in cosa differiscano le uccisioni in Cannibal Holocaust. A meno che non si tratti di una questione più generale e politica: il film, oggi oggetto di culto, venne salutato
dai soliti giornaloni progressisti con recensioni vicine all’insulto; questi sacerdoti del solidarismo universale si trovavano di fronte uno dei film più aspri mai realizzati (accanto a quelli di Kubrick, che la critica
progressista ha sempre “falsificato” e letto “al contrario”, per difendersi) in cui si metteva a fuoco la visione dell’esistenza come lotta perenne, nella solco di Hobbes e Nietzsche. Infastiditi da tanta novità hanno forse
voluto denunciare la presunta immoralità di una pellicola così radicalmente contraria alla loro tranquillizzante visione del mondo. La dolcissima musica di Ortolani aggiunge un tocco sinistro all’insieme: un contrasto
ricercato tra la dolcezza dei suoni, creati dell’uomo, e la brutale lotta cui è obbligato per sopravvivwe nella giungla, costituiscono una miscela di incredibile efficacia, simile a quella ottenuta da Argento ne L’uccello
dalle piume di cristallo (la nenia di Morricone abbinata al sadismo del serial killer.). La pellicola affronta anche il rapporto tra spettacolo e spettatore in relazione all’esposizione della violenza e perviene a
considerazioni radicali: la rappresentazione iperrealista della sofferenza di uomini e animali è ciò che i quattro avventurieri creano, filmano e vendono in parallelo con quanto sta facendo la troupe di Deodato a Leticia.
Entrambi soddisfano quella shadenfreude o gioia per le disgrazie altrui che si annida spesso nel fondo della natura umana e che è uno dei più potenti e segreti motori della società dello spettacolo nel suo complesso. Nel creare e riprodurre una violenza che vuole sembrare (ed a tratti è) vera Deodato si avventura nei meandri dell’orrore insito nell’animo ed il succeso planetario del suo film – i filmati del quartetto, dunque non sono andati al macero come deciso dai dirigenti del network - ne è la migliore ed indiscutibile conferma. Certamente quei filmati sono stati visti in sala cinematografica da un pubblico che aveva scelto di vederli mentre nessuna televisione sembra, per ora, in grado di riproporli tra le tranquille mura domestiche dove regnano prodotti artefatti e rassicuranti. In tal senso Cannibal Holocaust,
nato proprio negli anni che segnano lo spartiacque tra era cinematografica ed era televisiva, testimonia l’audace, onirica e spaziale libertà che possedeva un tempo la creazione filmica cui è seguita l’epoca degli annichilenti
prodotti d’intratttenimento concepiti per la quiete domestica, regno incontrastato dell’animo femminile ossia dell’eros.
Sergio Martino si inserisce nel filone inaugurato da Deodato con La montagna del dio cannibale
(giu 1978; 100 min.), pellicola che vanta soprattutto la presenza di una scatenata Ursula Andress. La vicenda è prevedibile in ogni sua svolta narrativa e risulta decisamente noiosa. La solita spedizione di soccorso, voluta
da Susan (Ursula Andress insieme a Stacy Keach cui si aggiunge Claudio Cassinelli), cerca in un’isola maledetta il marito della protagonista. Troveranno invece i cannibali: muoiono quasi tutti; la Andress e Cassinelli sono i
soli a salvarsi. La pellicola per quanto scontata, fotografata in modo generico, incapace di valorizzare appieno i meravigliosi paesaggi e accompagnata da una mediocre colonna sonora, riesce tutavia ad interessare per la
bravura dei protagonisti i quali affrontano con notevole sprezzo del pericolo sequenze assai spettacolari: la Andress viene avvolta da un pitone, Cassinelli maneggia un paio di serpenti alquanto irritati, la coppia, poi, si
getta in fiumi poco raccomandabili e naviga su insidiose rapide. Inoltre il regista inserisce alcune crudeli scene di animali, di forte impatto naturalistico. Manca però quella visione complessiva che rende i fim di Deodato
anche una riflessione sulla natura umana: qui prevale l’avventura fumettistica (c’è addirittura la scoperta di una miniera di uranio) basata su personaggi privi di psicologie attendibili e sulla consueta scempiaggine dei nativi
che, nel finale, non esitano a eleggere la Andress loro divinità (seguono lunghi e prevedibili rituali, utili a mostare l’attrice in tutto il suo naturale splendore).
Poco dopo Martino gira ai caraibi un pessimo rifacimento de L’isola del dottor Moreau, (romanzo di H.G. Wells del 1896; ultima versione filmica: l’omonima pellicola di Don Taylor con Burt Lancaster del 1977) ne
L’isola degli uomini pesce (gen.1979; 100 min.). Nel 1891 un gruppo di naufraghi, guidati da Claudio Cassinelli approda in un’isola misteriosa e vulcanica gestita da un perfido dottore (Richard Johnson) il quale ha
schiavizzato il solito scienziato folle (Joseph Cotten) che, novello Frankestein, crea uomini pesce (identici a quelli de Il mostro della laguna nera, Arnold, 1955), congiungendo cadaveri e tessuti di animali. Dopo varie, tediose vicende i mostri si ribellano ai loro padroni e li ammazzano mentre il vulcano si scatena, incendiando abitazioni e creando il panico. Il protagonista e la bella figlia dello scienziato (Barbara Bach) si salvano.
La pellicola è senza interesse da ogni punto di vista: attori goffi, paesaggi poco valorizzati, mostri ridicoli, trama inconsistente, musica ordinaria, effetti raccapriccianti banali e suspense assente,. Apparivano già vecchi i film gotici d Bava degli anni sessant; figuriamoci questa fiacca rivisitazione del cinema horror della Hammer film degli anni cinquanta.
Il film fu un fiasco. Martino gira, con lo stesso cast, Il fiume del grande caimano (set. 1979; 90 min.), un evidente clone de Lo squalo (Spielberg, 1975) la cui qualità è di poco milgiore di quella del film precedente.
Uno spregiudicato affarista apre il Paradise House, un parco nel cuore della giungla, con la collaborazione della tribù dei Kuma. Nelle acque del fiume però si trova anche un gigantseco caimano che fa strage di turisti. I
Kuma, credendo si tratti di una maledizione divina causata dall’apertura del parco degli Americani, “scende sul sentiero di guerra” e fa strage di villeggianti, nella speranza di calmare l’ira del “dio caimano”. Invano il
reporter Claudio Cassinelli aveva cercato di scongiurare la carneficina. Si salveranno in pochi dopo che il giornalista, insieme all’amica Barbara Bach, avranno ammazzato il grosso rettile, nello stesso modo in cui Richard
Dreyfuss uccide lo squalo nel celebre film di Spielberg. L’ambientazione è questa volta più suggestiva e l’intreccio ben costruito, in un crescendo di tensione abilmente manipolato. Purtroppo il caimano - ovvero il cuore
stesso del racconto - è un penoso, rigido pupazzo e tutte le sequenze in cui compare risultano disastrose. La suspense costruita nelle sequenze di contorno va pertanto a infrangersi di fronte a questa imperdonabile manchevolezza, derivante dagli scarsi mezzi di produzione. Peccato poichè personaggi e ambientazione erano validi (seppur non originali) ed anche la rivolta dei Kuna costituiva uno snodo narrativo interessante. Per certi aspetti Il fume del grande caimano, per quanto derivato da Lo squalo,
anticipa il romanzo di Crichton e il film Jurassic Park (Spielberg, 1993). Il film di Martino ribadisce la diffidenza dell’autore nei confronti della natura in tutti i suoi aspetti. Gli animali della giungla sono e
rimangono incontrollabili ed invano gli occidentali credono di poterli gestire a piacimento per finalità modeste e materialiste come quelle di un parco di divertimenti; inoltre le popolazioni locali, legate ad una concezione
animistica del mondo, ovvero prescientifica, sono anch’esse parte di quella natura incontrollabile ed enigmatica, pronta a rivoltarsi all’uomo occidentale e alle sue granitiche certezze. Lo scettico giornalista, uomo di buon
senso che anticipa lo scienziato (Sam Neill) di Jurassic Park, guarda fin dall’inizio con sospetto all’arrogante progetto di Mel Ferrer e ne individua immediatamente i punti deboli. Un po’ come nel contemporaneo Apocalypse now (1979), l’uomo che si avventura con leggerezza nell’ignoto universo della giungla si scontra con un mondo primordiale e crudele, di cui ha perso memoria e dal quale esce sconfitto poichè applica a quel mondo le tranquillizzanti categorie della civiltà avanzata dove l’uomo interagisce essenzialmene con macchine e marchingegni di propria creazione e dove l’imprevisto è stato quasi eliminato. Il cinema di Martino, Deodato e Fulci ricorda agli spettatori che esistono ancora vaste zone del globo in cui prevale un universo selvaggio e imprevedibile del quale è necessario diffidare. Ricorda inoltre che le astratte categorie umanistiche e animalistiche (ecologiche) di derivazione massonica, egemoni nel “civile” e un po’ artificioso vecchio mondo, non valgono in queste ambienti ancora in larga parte estranei alla cultura europea e americana.
Nel 1978 esce in Italia la versione argentiana di Zombie (Romero, 1978), con qualche taglio e soprattutto un’aggressiva e trascinante colonna sonora dei Goblin (assai migliore di quella originale). Il successo è notevole ed apre la via a numerose imitazioni.
Fulci esordisce nell’horror con Zombie 2 (ago 1979; 90 min.), pellicola nata di getto dopo il trionfo italiano di Zombie (Romero, 1978). Se l’idea è quella – i morti viventi e tutto il loro repertorio – la trattazione è assai differente ed approda a una pellicola di discreto valore.
Si inizia a New York, con una visionaria e magnifica sequenza, parzialmente ispirata alle atmosfere sospese e magiche di Nosferatu (Herzog, 1978): una nave senza equipaggio arriva nella baia di New York, al cospetto delle torri gemelle: porta con sè un terrificante carico di morte. Poi lo scenario diviene quello caraibico dove il fenomeno è iniziato: un quarteto di avventurieri, mossi da differenti motivi, giunge nell’immaginaria isola di Matul dove un dottore cerca di fronteggiare da solo un’ecatombe. I morti sorgono dalle tombe e sono orrendi, assai più di quelli romeriani. Se le situazioni narrative sono modeste e non val la pena neppure raccontarle (non si salverà quasi nessuno degli incauti visitatori), quello che affascina nella pellicola è l’atmosfera equatoriale, polverosa e calda, con questi morti viventi che escono lentamente dalla terra e si avventano sugli umani, divorandoli. C’è poi la celebre sequenza dell’occhio trafitto di Olga Karlatos (ad opera di uno zombie particolarmente sadico) che mette a dura prova la resistenza dello spettatore. Purtroppo le musiche non sono eccelse e non riecono a creare quella miscela memorabile che segna ad esempio tanto cinema argentiano, nonchè il recente film di Romero.
Tra gli attori si ricorda Tisa Farrow (sorella di Mia) mentre tra le sequenze desta stupore quella dello zombie (in realtà un addestratore di squali) che cerca di mordere uno squalo. Indimenticabile è anche il finale con la
sfilata di zombie che camminano sul ponte di Brooklyn, determinati a portare morte e distruzione nel cuore dell’impero. Zombie 2 è un contenitore amorfo che si accende di tanto in tanto con bagliori improvvisi - pagine meramente oniriche - per poi tornare alla consueta, mediocre routine.
In tal senso è un film assai vicino al cinema visionario di Argento: per entrambi i cineasti la creazione di un orrore “poetico” (si pensi innanzitutto a Suspiria), in cui bellezza e ripugnanza siano inscindibili, è il fine ultimo.
La pellicola ottiene un enorme, inatteso successo, quasi superiore a quello del film di Romero. L’anno successivo Fulci gira Paura nella città dei morti viventi (ago 1980, 95 min.), pellicola in cui cerca di
fondere le qualità migiori di Sette note in nero (1977) e Zombie 2, senza riuscirvi. Una medium (Katriona MacKoll) e un giornalista (Christopher George) indagano su una città fantasma (sembra non stia sulle
carte...) in cui un prete (Fabrizio Jovine) si è impiccato aprendo le porte dell’inferno. Da quel momento spettri con le sembianze di zombie (capaci di apparire e scomparire a piacimento) scorrazzano per il paese ammazzando chi
capita. Nel finale il giornalista sfida il sacerdote redivivo, entra nella sua tomba e lo “uccide” con un palo a forma di croce: Tutti gli spettri sembrano scomparire di colpo ma...
Come si nota la vicenda è assurda oltre che inverosimile. Il puzzle ben calibrato di Sette note in nero lascia il posto a una serie di episodi scollegati la cui unica finalità è costruire situazioni paradossali e truculente. Anche rispetto all’intreccio più convenzionale di Zombie 2,
di cui in fondo il film è una replica, la narrazione ora appare intermittente e sconclusionata: i personaggi sono figure astratta di cui non sappiamo la storia, nè tanto meno comprendiamo le motivazioni; gli attori sono tutti
scadenti e i dialoghi sono insignificanti e prevedibili. Paura, tuttavia, si lascia guardare volentieri per le sue qualità figurative, in tal senso migliori di Zombie 2; infatti Fulci è impegnato a creare
atmosfere oniriche: gli ordinati e deserti paesaggi urbani di Savannah (Georgia), la città fantasma, inquadrati con fantasia, inondati di nebbie e sonorizzati da un soundtrack che prende ad esempio il rock progressivo dei
Goblin di Suspiria, divengono i reali protagonisti del racconto. Certamente Fulci tenne conto del recente Fog (gen. 1980) di John Carpenter che possiede numerosi punti di contatto con Paura nella città...:
in entrambi i casi si parla di una città maledetta i cui abitanti, in un passato remoto, si erano macchiati di orribili violenze ai danni di presunte streghe. Dal punto di vista dell’invenzione filmica
invece le sequenze più tenebrose risultano poco originali: l’episodio dei vermi riprende quello di Suspiria, la discesa nella tomba ci riporta al Gatto a nove code mentre l’uccisione dello spettro ricorda la morte della strega ancora in Suspiria.
La colonna sonora ricicla in parte il carillon di Sette note in nero. Fulci si conferma autore visionario ma poco capace, nell’ambito dell’horror, di costruire storie coerenti e capaci di assorbire l’attenzione dello
spettatore il quale si trova di fronte una collana di episodi privi di continuità e di logica. John Carpenter riprenderà l’idea della cttà fantasma e demoniaca nel notevole Seme della follia (1994). Paura nella città dei morti viventi ottenne ugualmente enormi incassi, anche se inferiori a quelli di Zombie 2.
Lenzi torna al genere avventuroso-orrorifico con Mangiati vivi! (mar.1980; 90 min.), una discreta pellicola che prende ispirazione oltre che da Ultimo mondo cannibale e da Zombie 2, da Apocalypse Now (Coppola,
1979) di cui ripete lo schema narrativo e la filosofia scettico-nichilista di marca hobbesiana. Nè appaiono fuori luogo i continui riferimenti al Vietnam del protagonista, guerra crudele che in qualche modo appare una conferma
storica di quella cinica visione del mondo. Dopo l’immancabile prologo a New York la nostra coppia di eroi - il veterano del Vietnam Mark (Robert Kerman) e Sheila (Janet Agren) - si avventura in Guinea (in realtà in Sri
Lanka) lungo un fiume nella giungla, alla ricerca del regno del folle Jonas (Ivan Rassimov) la cui setta antimodernista ed “ecologica” tiene in ostaggio Diana (Paola Senatore), sorella di Sheila. Il problema è che il
villaggio, ben difeso, è circondato da orde di cannibali che rendono difficilissimo arrivarci e fuggirne. Dopo le peripezie d’obbligo (un paio di aiutanti vengono divorati dai cannibali) la coppia riesce a raggiungere la meta,
versione pauperistica ed erotica di quello del regno di Kurtz/Marlon Brando, dal quale riuscirannao a fuggire solo al prezzo di gravissime perdite (la sorella e molti altri finiranno in pasto ai cannibali). Lenzi dirige con
ottimo senso del ritmo, restituisce paesaggi suggestivi, sceglie attori convincenti e motiva (nei dialoghi) le atrocità di ogni genere (su uomini e animali) con il consueto rinvio alla legge del più forte, lo stesso che reggeva
il ben altrimenti artistico Apocalypse Now. Come sottotesto abbiamo numerose scene erotiche in cui si riafferma la supremazia dell’uomo e la validità della società patriarcale, ormai in pericolo nell’Occidente
modernista. Il guerriero Mark è l’unica ancòra di salvezza per Sheila e Diana in quell’universo selvaggio mentre Ivan tiene in pugno una setta in cui le donne hanno funzioni meramente decorative e legate al soddisfacimento
sessuale. Anche gli squartamenti atroci in cui incappano soprattutto belle fanciulle rimandano all’ossessione argentiana per il corpo femminile, mutilato proprio perchè iribelle al dettato tradizionale. Gli orrori del genere
cannibalico, posti a ridosso della fine di un decennio chiave, non sono altro che amplificazioni di quelle tendenze inaugurate all’inizio degli anni settanta: in queste pellicole, in cui è evidente il taglio surreale ed
onirico, siamo di fronte a versioni stravolte di film avventurosi solitamente dedicati ai più giovani (si pensi ai cicli salgariani), poichè in esse il corpo femminile viene fatto a pezzi all’interno di una vendetta fantastica
e irreale nei confronti di qualcosa su cui l’universo maschile sta perdendo la totale padronanza. Nè va dimenticato che registi e sceneggiatori sono in stragrande maggioranza uomini. Questi generi filmici - argentiani,
romeriani e cannibalici - sono infatti rigorosamente ideati per un pubblico maschile, ideale destinatario di quell’onirico e quasi nostalgico messaggio. Il passaggio agli anni ottanta, televisivi e ballerini, moderni e
consumisti, segna la fine di questi generi cinematografici assolutamente “inguardabili” tra le mura domestiche (numerosi di questi film, infatti, non vi sono arrivati), luogo storicamente legato al predominio femminile. Il
cinema, a partire da questo decennio, viene progettato per la televisione e i generi estremi, visionari e onirici, scelti esclusivamente da un pubblico maschile, divengono marginali, improduttivi ed inutili.
Qualche mese dopo esce Incubo sulla città contaminata
(ott.1980; 90 min.) in cui Lenzi rimodula l’idea degli zombi, li trasforma in creature contaminate da radiazioni atomiche, sfigurate e fortissime, veloci e intelligenti (ossia l’opposto dei sonnolenti e ottusi morti viventi), nonchè assetate di sangue come vampiri.
Un esercito di questi esseri, provenienti da località ignote, assalta una metropoli (si tratta di una Madrid periferica e irriconoscibile) e in breve tempo diviene padrone del campo. Gli umani muoiono quasi tutti mentre nel
finale aperto un elicottrero con i soli tre sopravvissuti si allontana da un lunapark popolato di infetti. Lo schema narrativo è quello dei film di Romero con, in più, un abile struttura a incastri (numerose vicende vengono
raccontate in parallelo), un ritmo notevole, una pulsante e minacciosa colonna sonora di Cipriani e gli immancabili effetti truculenti. Tra gli attori, tutti convincenti, ci sono Hugo Stieglitz, Laura Trotter, Maria Rosaria
Omaggio (che isolata in una villa viene uccisa in una sequenza ricca di suspense, nello stile del primo Argento) e Mel Ferrer. L’ambientazione iniziale in una minuscola e un po’ squallida tv privata in cui, in uno spazio
risibile, abbondano ballerine danzanti a tempo di rock, ci ricorda che sono iniziati gli anni ottanta; nè appare casuale che Lenzi le faccia ammazzare tutte, con modalità truci, dai ferocissimi infetti, quasi a voler marcare la
distanza tra il decennio visionario che si è appena chiuso e quello (cinematograficamente) mediocre e “domestico” che sta iniziando. Ora per fare spettacolo bastano quattro soubrette svestite nel tinello di casa. Il film non
è esente da qualche ridicolo sermoncino ecologico (se ne incarica l’antipatica Laura Trotter) intorno alla catastrofe degli infetti, causata (si suppone) dal militarismo e dallo scarso rispetto della natura da parte degli
umani: un discorsetto insulso e dai fondamenti incerti, “intonato” non a caso dalla saccente protagonista femminile (le donne saranno, infatti, in prima linea su tutte le tematiche ecologiche, animaliste e naturaliste) di
fronte a un perplesso Hugo Steglitz. Forse non è neppure casuale che, dopo la crudele sequenza delle ballerine, Lenzi, nel finale, faccia precipitare Laura Trotter dall’elicottero quando è a un passo dalla salvezza...
L’enorme successo riscosso da Alien (R. Scott, 1979) genera Alien 2 - Sulla terra
(apr. 1980; 85 min.), inutile clone di Ciro Ippolito il quale, non avendo i mezzi per mettere in scena un film “spaziale”, colloca la maggior parte del racconto (ambientato negli Usa... ) nelle grotte di Castellana: in questi ambienti insoliti (l’idea non è poi malvagia e consente di vedere scenari di un certo interesse naturalistico) si muove un grupo di speleologi che verranno fatti a pezzi dal consueto mostro di origine ignota, secondo le medesime modalità (ma gli effeti speciali sono modesti) del film di Ridley Scott. Si salveranno solo un paio di personaggi che, usciti dalle grotte, scopriramnoo che il mondo è ormai spopolato (ma non si capisce dove siano finiti i cadaveri delle migliaia di vittime... ).
Tutto è mediocre in questo inutile clone: recitazione, dialoghi, snodi natrrativi e commento sonoro. Gli incassi furono assai limitati.
Antonio Margheriti si isnerisce nel filone con Apocalypse domani (ago. 1980; 100 min), curiosa e complessivamente riuscita miscela di racconto bellico, cannibal movie e film di zombi.
In un clima che rimanda al Cacciatore (Cimino, 1978) il capitano Hopper (John Steiner) salva due commilitoni - Bukovski (Lombardo Radice) e Thompson (Malik Farrakhan) - prigonieri dei vietcong, divenuti inspiegabilmente dei cannibali. Rientrato negli Usa in un clima mesto e disturbato (la delicata colonna sonora, basata sulle sonorità di una chitarra acustica, rimanda al magnifico tema di Myers che commenta il rientro di De Niro dal Vietnam), Hopper si trova presto al centro di un incubo senza fine: dapprima deve intervenire a favore dell’amico Bukovski poichè quest’ultimo, dopo essere andato a spasso per la città, mordendo e uccidendo chi gli capitava a tiro, si ritrova prigioniero in un supermercato e solo l’intervento del capitano riesce a calmarlo e a convincerlo a consegnarsi alla polizia (in una sequenza che anticipa situazioni di Rambo).
L’uomo però continua a mordere ignare vittime che divengono, a loro volta, cannibali invasati. L’epidemia si propaga e coinvolge anche l’ “equilibrato” Hopper, sua moglie, i vicini di casa (Cinzia de Carolis, la bimba de Il gatto a nove code),
i colleghi di lavoro ecc. Nel finale, dopo una vera e propria strage (tutti i “cannibali” vengono uccisi), a seguito di un conflitto a fuoco nelle fogne che ha riprodotto l’inferno vietnamita nella città statunitense, la
polizia crede di avere risolto il problema, ma non è così. Numerosi sono gli insospettabili contaminati ancora in circolazione. Girato con perfetto senso dello spettacolo, affidato ad attori efficaci e a scenari urbani tanto
anonimi quanto grigi e suggestivi, il film possiede una propria indubbia forza espressiva. Sebbene rimanga un prodotto a basso costo, quasi televisivo nella qualità delle inquadrature e piuttosto sommario e artificioso nelle
svolte narrative, esso ha il merito di raccontare il dilagare incontrollato dell’ ”orrore” profetizzato da Coppola e Brando nel celebre finale di Apocalypse Now. I veterani, sconvolti dalla giungla vietnamita, portano
con sè il virus di uno squilibrio e di una follia che invade e facilmente distrugge i pacifici scenari urbani. Quel morbo che contagia rapidamente una quantità di personaggi ordinari diviene il simbolo di una violenza diffusa
che, dai lontani scenari della guerra asiatica, dove il conflitto è stato fomentato dagli Usa in modo abbastanza gratuito (l’abbandono del Vietnam ai vietcong non provocherà di fatto alcuna crisi nell’egemonia globale degli
Stati Uniti), rientra in patria provocando danni incalcolabili. Senza esserne del tutto consapevole, Margheriti firma un suggestivo atto d’accusa contro il militarismo americano, e, così facendo, ispira e prepara il planetario
successo di Rambo (Kotcheff, 1982).
Dopo il raccapricciante Buio Omega, D’Amato cerca il bis con Antropophagus
(ago 1980; 95 min.). Un gruppo di turisti (tra cui Tisa Farrow sorella di Mia, una giovanissima Serena Grandi e Saverio Vallone figlio di Raf) si reca su un’isola deserta della Grecia (in realtà Sperlonga) per una vacanza che diviene presto un’ecatombe. Sull’isola impazza un cannibale (Luigi Montefiori; sua è la sceneggiatura) che uccide e divora gli sfortunati visitatori, fino a quando uno di loro riesce a fermarlo.
Nel film abbondano i tempi morti e le prolissità di ogni genere a causa di una sceneggiatura prevedibile in ogni sua svolta, viziata inoltre dai consueti gesti inverosimili ed assurdi dei personaggi i quali, anzichè cercare
di fuggire i pericoli, sembrano ostinarsi a cercare uno scontro con il mostro. Rimangono solo alcune scene di orrenda macelleria che, più che spaventare, disgustano. Girato con scarsi mezzi il racconto allinea una serie di
ammazzamenti, tutti piuttosto prevedibili. La qualità delle inquadrature è ordinaria e la musica, vagamente somigliante a quella dei Goblin, non aiuta. La disperata corsa per il bosco di una delle vittime rimanda a quella, ben
altrimenti efficace, dell’incipit di Suspiria.
Marino Girolami si cimenta nel suo primo horror con il pessimo Zombi Holocaust
(mar.1980; 90 min.) nel quale, per pudore, si firma Frank Martin. La pellicola è un clone di Zombie 2 (che, come is è detto, aveva incassato moltissimo) in cui nulla si salva: fotografia, attori, dialoghi, musiche, sceneggiatura, effetti speciali. Tutto è estremamente sciatto, mentre gli immancabili corpi sventrati aggungono disgusto alla noia.
Un chirurgo e un’antropologa di New York, impressionati da alcuni episodi di cannibalismo avvenuti nel loro ospedale, vanno alle Molucche indonesiane (il film però è girato nei dintorni di Roma... ) alla ricerca di una
spiegazione. Si imbattono in una tribù di cannibali e in un novello dottor Frankenstein che crea zombi, trapiantando un cervello “vivo” in corpi morti... La pellicola rimescola thriller (parte newyorchese), film gotico
(Hammer film), zombie, cannibal movie e perfino commedia erotica (genere in cui Girolami è stato un amestro) in un minestrone impersonale.
Tra le altre imitazioni di Zombi (Romero, 1978) troviamo il mediocre Le notti del terrore (ott. 1980; 80 min.) di Andrea Bianchi. Al posto del
supermercato americano c’è una villa di campagna circondata da zombie “etruschi”, assai più vivaci di quelli romeriani: sono veloci, utilizzano in modo appropriato clave, coltelli, asce e tronchi d’albero ed hanno un aspetto
terribilmente ripugnante, tipico di morti riemersi dalla terra. I loro volti sono coperti di vermi ed altri insetti poco raccomandabili (come già accadeva in Zombi 2 di Fulci). In breve tempo sterminano l’intera popolazione della villa, fatta di figure sfocate e senza interesse (il cast è realmente mediocre). Peccato perchè il repellente aspetto fisico di questi mostri, abbastanza originali, se completato da una sceneggiatura meno noiosa e da un cast più attraente avrebbe potuto approdare a un esito interessante. Anche la colonna sonora è scadente.
testo scritto nel gen. 2016
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