Come persi la gierra, L'eroe della strada, Molti sogni per le strade, Proibito rubare e Il barone Carlo Mazza: l'epoca dei furti (1947-48)
“Dopo la parola qualunque noi abbiamo reso celebre una frase…:vogliamo che nessuno ci rompa più i coglioni….E’ certo che Stalin, Hitler, Mussolini, Churchill,
Ciang-Kai-sceck, Roosevelt sono dei gran rompicoglioni…..Dal loro disaccordo nasce il fatto che noi siamo stati travolti in una guerra di cui non ci fregava assolutamente nulla. “
(Guglielmo Giannini, <Le Vespe> 15 gennaio 1947)
Carlo Borghesio nasce a Torino il 24 giugno 1905. Negli anni trenta dopo aver scritto alcune sceneggiature ed aver collaborato come aiuto regista esordisce con Due milioni per un sorriso (1939; coregia
di Mario Soldati). Nel periodo 1940-44 firma una pellicola l'anno; nel dopoguerra riprende l’attività di regista con una trilogia di film imperniati sulla comicità stralunata di Erminio Macario, sceneggiati da una ricorrente
piccola equipe di scrittori (tra cui Mario Monicelli e Steno) e arricchiti dalla musica di Nino Rota, film ai quali arride un enorme successo commerciale. Come persi la guerra
(dicembre 1947; 80 min.) ci racconta le peripezie dell’eterno soldato Leo Bianchetti. Inizia allo scoccare della guerra d’Etiopia (ottobre 1935) e termina negli anni del dopoguerra, quando il protagonista stanco di divise (le ha portare quasi tutte, da quelle italiane, a quelle coloniali, spagnole, tedesche e americane) riesce a trovare lavoro solo presso i pompieri: una nuova divisa lo attende. La pellicola è tra le poche a descrivere con audace coerenza il punto di vista del popolo, obbligato a scendere in battaglia per motivazioni che gli sfuggono completamente. L’Italia fascista distoglie parte delle proprie limitate limitate risorse dal miglioramento della qualità della vita in patria e le sperpera nella pericolosa avventura etiopica per semplice politica di potenza (l’Etiopia è un arido deserto che non offre alcuna risorsa naturale di importanza capitale; si pensi alla notevole differenza costituita dall’Iraq degli anni duemila dove si combatte per il controllo di uno dei massimi giacimenti petroliferi del pianeta) e mobilita quasi mezzo milione di italiani nelle assolate distese confinanti con le colonie eritree e somale. Bianchetti obbedisce e in seguito va in Spagna, in Albania, in Africa, in Grecia, passa attraverso l’8 settembre, viene obbligato alla cobelligeranza dagli americani (autunno 1943), poi alla adesione alla RSI senza riuscire a far propria alcuna delle motivazioni che spingono dapprima il fascismo in quelle avventure internazionali, poi le molteplici fazioni in lotta nella guerra civile italiana (1943-45).
Semplice popolano in un’Italia teatro di battaglia di eserciti stranieri, il malcapitato cerca ogni volta di salvare la pelle accontentando gli ufficiale di turno e simulando una condivisione di ideologie politiche che
sente estranee. Il cinema di Borghesio-Macario aderisce dunque in modo compiuto e intelligente alla visione dell’Uomo qualunque: la lotta per il Potere riguarda minoranze politiche le quali strumentalizzano il popolo mediante
costruzioni ideologiche mendaci. La pellicola, sebbene piuttosto fiacca e ripetitiva, possiede il merito di illuminare questa censurata verità: la gente comune è attendista, costituisce quella ampia e maggioritaria “zona
grigia” defeliciana che aspetta con ansia che la bufera passi per potere tornare alle proprie quotidiane preoccupazioni in contesti politici i quali finiscono per riflettersi in maniera modesta (quando non si intraprendano
avventure belliche) nelle abitudini e incombenze di ogni giorno. Borghesio non risparmia nessuno: tedeschi e americani, repubblichini e partigiani sostanzialmente si equivalgono mentre nel finale Macario può chiudere “in
bellezza” chiedendosi smarrito: “ma questa guerra in definitiva l’abbiamo vinta o persa?” facendo così del sarcasmo su uno scenario italiano talmente frammentato e litigioso da avere un gruppo o un partito alleato con ciascuna
delle potenze straniere in campo. Se il linguaggio filmico è modesto, va però ricordato il notevole contributo musicale di Nino Rota, contributo che in più occasioni “ruba” la scena alle immagini balorde e governate da una
comicità che stenta a decollare. Così nella lunga azione di sabotaggio messa in opera da Macario “cobelligerante” ai danni dei tedeschi la musica alterna aerei motivetti rossiniani per gli italiani ai possenti, wagneriani temi
di Siegfried e del Patto (dal monumentale Ring nibelungico, 1850-76), ad accenni di boogie; nel finale si inserisce perfino la Marsigliese. Il caos militare si riflette in quello sonoro ove culture antitetiche si
confrontano nell’accostamento di suoni tanto lontani tra loro. In particolare suona decisamente acuta la citazione del tema del Patto: in Wagner si trattava del patto tradito da Wotan che, fattosi costruire il Walhalla, rifiuta
di pagare i Giganti Fafner e Fasolt; nell’Italia del 1943 invece il riferimento è al generale, ripetuto tradimento consumatosi tra Italiani e Tedeschi prima e dopo l’8 settembre (fin dall’inizio del “Patto” d’acciaio Hitler
tradisce gli accordi segreti presi con Mussolini e anziché attendere il 1942, scatena la guerra in Polonia già nel settembre 1939 ponendo l’Italia in una situazione di grave difficoltà politico-militare).
L'eroe della strada (86 min; settembre 1948), secondo pannello del trittico (cui seguirà Come scopersi l'America, 1950) è una commedia brillante strutturata in una serie di microepisodi con al centro il disoccupato e
generoso Felice Manetti e tenuta insieme dalla vicenda affettuosa che lo lega alla misera Giulietta la quale lo scambia per un milionario senza che il protagonista la distolga da questa illusione. Macario imita con grazia
Charlot e Borghesio, tra una citazione di The Kid (1921) e un'altra di Modern Times (1935), sostanzialmente modella il racconto su City Lights (1931). Accanto alla garbata vena sentimentale il film
approfondisce l'aggressiva e insolita visione politica aderente alla concezione del coevo movimento dell'Uomo Qualunque. Il disoccupato cronico Felice e il simpatico ladro Gaetano espongono una filosofia scettica intorno al
valore delle ideologie: nostalgici fascisti e zelanti comunisti appaiono come gente fanatica e violenta, professionisti della politica (l'episodio dell'agitatore stipendiato), il cui unico compito è seminare il disordine per
favorire l'ascesa al potere del proprio gruppo politico. In questo scenario tormentato, nonché dominato dalla miseria e dalla disoccupazione, non resta che l'italiana filosofia dell'arrangiarsi e del simulare per cavarsela
senza troppi lividi. L'eroe della strada è quindi un film anomalo nel panorama di quegli anni, un lavoro apertamente critico ed anzi satirico nei confronti delle pellicole "neorealiste". Una presa di posizione così apertamente anticomunista, una descrizione tanto aspra delle maniere violente e ottuse dei "compagni" (si veda il pestaggio in fabbrica di un operaio colpevole di essere un ammiratore del padrone), tanto piu' efficace in quanto contrapposta ai modi delicati e al carattere sognatore di Felice, rende Borghesio una voce decisamente fuori dal coro (ed infatti al clamoroso esito commerciale fa riscontro un totale disinteresse della critica italiana). Lo conferma inoltre l'audacia, quasi unica, nel criticare frontalmente l' "amico americano" nella magnifica sequenza della diva che porta aiuti in una casa di poveracci (ovvero di Giulietta): la natura freddamente propagandistica di questo genere di operazioni viene finalmente stigmatizzata con un sarcasmo tagliente (la donna getta malamente i pacchi, attenta solo a farsi filmare tra grandi sorrisi) che merita ammirazione e che è sufficiente a rendere importante la pellicola in quanto portatrice di numerosi momenti di coraggiosa e lucida sincerità.
Il film, diviso in tanti episodi compiuti, senza essere un capolavoro possiede tuttavia una sua innegabile grazia sostenuta da un lato dalla naturale simpatia di Macario e di Carlo Ninchi (l'amico
Gaetano), dalla ricca varietà delle situazioni poste in essere ed infine dalla scoppiettante colonna sonora di Rota. Nella prima sezione Felice, sotto processo per vagabondaggio, viene salvato da Gaetano che testimonia a suo
favore: appena esibisce (false) credenziali di capo partigiano il processo si risolve a favore dell'imputato. E' una prima stoccata contro una Resistenza fatta da pochi e divenuta facile proprietà di tutti, nonche' contro
l'eterno vizio di prostrarsi davanti ai vincitori di turno. Anche alla mensa per sinistrati le cose non vanno come dovrebbero: un nugolo di finti poveracci in coda per la minestra viene messa in fuga da Gaetano che annuncia che
entro la giornata verrà cambiata la lira in una nuova moneta. La comicità del film nasce a ridosso delle situazioni politiche del momento ed oggi appare a tratti di difficile comprensione per lo spettatore ignaro dei temi
dibattuti nei primi anni del dopoguerra. In particolare si parlò a lungo di cambiare la moneta, così da obbligare i profittatori di guerra a uscire allo scoperto (costringendoli ad esibire i loro illeciti capitali accumulati
nel momento del cambio): la sinistra era favorevole ma le forze conservatrici riuscirono a evitare l'operazione. Alla mensa profughi dunque numerosi sono i ricchi che temono il cambio della lira. Per una serie di
disavventure Felice scende dall'auto dell'industriale Zanotti e, in quel frangente, conosce Giulietta, dedita al contrabbando di sigarette, la quale lo scambia per il noto capitalista. Felice, lusingato, glielo lascia credere.
Inizia così, come in City Lights, l'affettuosa amicizia tra i due protagonisti. La colonna sonora di Rota commenta in modo appropriato evocando un clima sonoro da opera buffa: un saltellante leitmotiv dominato dai legni si lega alla figura di Felice mentre un motivo accorato agli archi indica il suo sentimento amoroso nei confronti della giovane. L'arrivo alla casa di Giulietta della diva americana, con al seguito il codazzo della stampa, introduce la sequenza più coraggiosa e anticonformista: i pacchi dono USA vengono lanciati con disprezzo dalla donna circondata da un baraccone mediatico consenziente e servile. Per un attimo sembra già di vedere le star hollywoodiane e le carovane circensi della Dolce vita (1960). Gli
aiuti sono una maschera del nuovo potere paternalista, utili a esso (alla sua economia e alla sua immagine di nazione amica) quanto ai beneficati: in poche altre pellicole ciò risalta con tanta esplicita durezza. Negli
episodi successivi va in scena la propaganda politica: dapprima un agitatore di sinistra assolda il confuso Felice come spalla, poi un manipolo di comunisti lo paga per imbrattare i muri di scritte e simboli inneggianti al PCI;
in entrambi i casi l'imbranato e apolitico Felice fallisce e viene rincorso da gente infuriata. Questi due capitoletti mostrano un'Italia ancora divisa in agguerrite fazioni di fronte alle quali Felice e il suo amico Gaetano
rappresentano quella gente qualunque, disinteressata a un dibattito ideologico che viene percepito come lotta per il potere di minoranze professionali e stipendiate, e quindi come un fatto ininfluente nella vita quotidiana dei
singoli. In fondo l'amara e disillusa morale compare verso la fine quando Gaetano rimprovera il suo candido amico con le parole "il mondo è disonesto e tu sei l'unico a fare il fesso". Nel terzo episodio
"politico" Felice in fabbrica rischia di essere picchiato da una minoranza operaia decisa a imporre con la forza l'odio di classe contro il padrone: non gli resta che simulare uno zelante monologo marxista, farsi
licenziare e tornare nuovamente sulla strada. Anche questa raffigurazione di un universo operaio illiberale e dogmatico, tiranneggiato da uomini di partito, è inconsueta e trasgredisce lo stereotipo diffuso del simpatico
lavoratore, docile e impotente vittima del capitale. Nella parte conclusiva Felice, travestito da brigadiere della celere per procurarsi le costose medicine necessarie al bimbo di Giulietta, finisce pestato dai dimostranti
di uno sciopero e poi arrestato; uscito di galera ancora nuove delusioni lo attendono: il marito di Giulietta è tornato dai campi di concentramento; l'organetto regalatogli da Gaetano suona solo canzoni fasciste (Felice,
nuovamente inseguito da una folla furiosa, lo definisce argutamente "organetto epurato") e infine il protagonista, dopo essere salito su un elegante auto rubata dall'amico, si ritrova ancora una volta nei guai,
inseguito dalla polizia. Il comportamento ingenuo di Felice illumina per contrasto un contesto sociale duro e conflittuale nel quale il remissivo protagonista è destinato a ripetute sconfitte.
Rispetto alla garbata commedia di Borghesio il nuovo film di Camerini, Molti sogni per le strade
(90 min, ottobre 1948), appare scadente soprattutto a causa di una sceneggiatura (firmata dall'autore con Piero Tellini) raffazzonata e piena di contraddizioni. I due film sono accomunati nel loro vertere intorno al furto quale espediente inteso a risolvere la situazione di miseria e di disoccupazione in cui si trovano i personaggi; e per la verità la pellicola di Camerini possiede anche numerosi punti di contatto con Ladri di biciclette.
Ma nella grottesca vicenda di Paolo e Linda (un mediocre Girotti nella figura del disoccupato disperato e la solita, insopportabile Magnani vociante che replica in peggio il ruolo della Angelina di Zampa) ovvero una lunga
giornata a bordo di un auto rubata alla forsennata ricerca di un ricettatore prima dell'improbabile lieto fine, quasi ogni episodio appare inverosimile e male orchestrato. Facciamo degli esempi: gli squattrinati coniugi, dopo
tante esitazioni, ottengono un pacco di suppli' caldi per la cena ma giunti a casa non li mangiano e mettono a letto il bambino digiuno; Paolo ruba una macchina poi, con un vigile nei dintorni, scatena una rissa pubblica solo
per non farci salire la moglie; sempre per non farsi notare irrompe a tutta velocita', sotto gli occhi dei carabinieri, tra la folla che assiste a un comizio politico di sinistra, viene alle mani con i dimostranti e ovviamente
finisce in questura; fugge da una trattoria per non pagare 60 miserabili lire (il conto di quattro aranciate), pur sapendo che lì vicino ci sono due vigili in motocicletta; nella fuga rocambolesca (resa con goffe accelerazioni
della pellicola) rischia la vita propria, di moglie e figlio per evitare l'arresto che comporterebbe pene miti (considerata la modestia dei reati); la generica briosa e saltellante colonna sonora di Rota commenta
indifferentememnte situazioni di commedia e situazioni tese e drammatiche come quest'ultima evidenziando un uso generico e confuso del commento musicale; pochi momenti dopo invece Paolo miracolosamente possiede i soldi per far
salire il bambino su una giostra; infine solo quando glielo spiega un malvivente l'ottuso protagonista (forse non e' un caso che nessuno lo assuma in una realtà filmica nella quale appare evidente che la disoccupazione è un
problema solo per alcuni, laddove la realtà sociale, per quanto problematica, sembra in via di normalizzazione come mostrano le immagini iniziali e finali di una città assorbita dal quotidiano viavai della gente che lavora) si
rende conto che il furto dell'auto porterà alla rovina il suo piu' caro amico, gestore del garage dal quale egli ha sottratto la vettura. E si potrebbe continuare. La pazienza dello spettatore e' messa a dura prova da una
sceneggiatura tanto superficiale. Per il resto predomina il gusto della caricatura e del macchiettismo piu' spinto (si veda l'episodio del ricettatore che si converte e chiede di essere confessato al pranzo di battesimo del
nipote) teso a svuotare di ogni contenuto il brutto film, girato inoltre senza la minima ricercatezza stilistica. Per quanto discutibili possano essere le qualità del coevo film desichiano, il naturale confronto con Molti sogni
per le strade mette ulteriormente in risalto l'originalita' e la sincera ispirazione che innervano comunque la vicenda dell'attacchino Antonio e di suo figlio Bruno.
Anche l'opera d'esordio di Luigi Comencini,
Proibito rubare (85 min., settembre 1948) parla di ladri ovvero di ragazzi napoletani cresciuti nella miseria e nell'abbandono i quali non conoscono altri mezzi di sopravvivenza. I personaggi sono vicini ai
protagonisti del desichiano Sciuscia' sebbene l'autore adotti una vena lieve e quasi comica per raccontare una vicenda che, in ogni caso, non conosce gli sviluppi tragici e artificiosi del film di due anni prima.
Luigi Comencini nasce a Salo' l'8 giugno 1916. Amico di Alberto Lattuada collabora allo sviluppo della Cineteca Italiana a Milano; dopo essersi laureato in architettura si dedica al giornalismo e scrive qualche
sceneggiatura. Firma il primo cortometraggio, La novelletta, nel 1937 cui segue nel 1946 Bambini in citta'. Il suo primo lungometraggio lo scrive con Suso cecchi d'Amico e Armando Curcio e lo gira con arguzia e passione nei
vicoli di Napoli. La vicenda e' quello di Don Pietro che si commuove per la poverta' degli sbandati ragazzi partenopei e decide di edificare per loro una Citta' dei ragazzi. Le adesioni non mancano ma sono in realta'
opportunistiche: un gruppo di ladruncoli non sa dove nascondere una consistente refurtiva ed usa il ricovero del missionario come paravento. Passano i mesi e i ragazzi si affezionano realmente al nuovo stile di vita fino al
punto di abbandonare la strada e scegliere nel patetico finale l'onesta esistenza proposta loro dall'uomo di chiesa. Nella prima parte la pellicola risente di un'ambientazione generica e di un machiettismo poco
condivisibile. La storia decolla realmente grazie alla commovente figura di Peppinello il quale non esita a vendere di nascosto la refurtiva per aiutare (segretamente) il generoso progetto di don Pietro. La colonna sonora di
Rota segnata da un tema brioso e da una nobile e mesta melodia, il sofferto dilemma del ragazzino, l'ostinata determinazione del missionario sono i punti di forza di un film gradevole nel suo insieme sebbene superficiale nella
narrazione e prevedibile nel didascalico e improbabile lieto fine. Comencini sa tuttavia organizzare il ritmo del racconto impostando un crescendo che sfocia nell'apice della sequenza del pestaggio di Peppinello e della rissa
conseguente alla scoperta della sparizione della refurtiva: in essa tutti i nodi vengono al pettine in modo drammatico. La rapida catarsi costituita dalla "predica" finale del protagonista sa smuovere gli animi ed
approda allo zuccheroso finale. Sebbene in modo semplicistico l'autore illumina con efficacia a tratti quasi documentaristica (gli scugnizzi sono interpretati da ragazzi realmente "sottratti" alla vita quotidiana di
Napoli) una situazione di miseria diffusa e sebbene l'opera appaia acerba e spesso prigioniera degli stereotipi, tuttavia vi si respira un sentimento di sincerita' non banale e nobilmente controllato nell'evitare volgari
forzature spettacolari. Forse anche a causa di questa sua sobrieta' l'opera non ebbe alcun successo commerciale e l'autore sara' costretto a ripiegare per qualche tempo su lavori meno ambiziosi.
Sempre a Napoli si svolge un’altra storia di povertà, anche in questo caso narrata in uno stile di commedia che vira ora verso il film canterino, ora verso la farsa pura e semplice. Si tratta de
Il barone Carlo Mazza
(novembre 1948; 85 min.), pellicola di Guido Brignone (inattivo dal 1945), basata su una sceneggiatura di Michele Galdieri e Fulvio Palmieri, cucita addosso alle modeste qualità comiche de Nino Taranto (il suddetto barone è una delle ricorrenti machiette create per il palcoscnico dall’attore napoletano). Tutto gira attorno allo spiantato barone Mazza il quale vive di espedienti e abita una misera soffitta di quello che era il palazzo dei suoi avi. Perso anche quest’ultimo alloggio, il nobile accetta un matrimonio finto con la spregiudicata Rosa Pezza (una Silvana Pampanini particolarmente inespressiva), motivato da complicati calcoli riguardanti un’ingente eredità. La donna ovviamente snobba il finto marito e passa le proprie serate con differenti corteggiatori, facendo sfigurare l’aristocratico il quale, esasperato, ritrova l’orgoglio dei propri antenati guerrieri e si separa dalla consorte occasionale. Quest’ultima parte allora per il Messico, alla ricerca di un vecchio amante.
Il banale intreccio, la cui assurdità sembra, a tratti, voler imitare alcune commedie surreali del Capra degli anni trenta (in particolare L’eterna illusione, 1938), si riduce a una serie di scenette prevedibili e
costruite senza il minimo entusiasmo. La comicità latita, le canzonette bloccano la già quasi inesistente narrazione mentre l’ambientazione partenopea si riduce agli accenti dialettali in quanto il film si svolge quasi
interamente in generici interni. Il lavoro, nonostante tutto, ebbe un discreto successo commerciale.
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