Cosa avete fatto a Solange? e Chi l'ha vista morire?

Cosa avete fatto a Solange?, Chi l’ha vista morire? e Non si sevizia un paperino: un “indeciso” e due voci fuori dal coro (1972)

          L'aborto clandestino - dicevano - provocava ogni anno in Italia la     morte di 25 mila donne. Per questo fu reso legale e assistito (nel     1978). Ma era vero quel dato? No, era del tutto assurdo. E ci    voleva poco a capirlo… Dall'Annuario Statistico del 1974 risulta infatti che le donne in età feconda decedute nell'anno 1972, furono in tutto 15.116. Già il fatto che le morti totali siano la metà delle presunte morti per aborto parla chiaro. Ma poi si scopre che di quelle 15 mila solo 409 risultavano morte di gravidanza o parto.
          Antonio Socci, sul quotidiano Libero (6-1-2008)

Il bel film di Massimo Dallamano Cosa avete fatto a Solange? (marzo 1972; min.), basato su una sceneggiatura scritta dal regista con Bruno Di Geronimo, ricalca l’intreccio narrativo de L’uccello dalle piume di cristallo.
In un college femminile cattolico situato a Londra due allieve diciassettenni vengono barbaramente trucidate: l’assassino nerovestito le giustizia infilando loro un lungo coltello nella vagina. La loro compagna Elisabeth (Christine Galbo) ha visto qualcosa, ma stenta a mettere a fuoco l’immagine dell’assassino; inoltre commette l’errore di dirlo a tutti cosicché finisce ammazzata. La polizia indaga alacremente e indaga anche il professor Rosseni (Fabio Testi), docente delle ragazze morte e amante della testimone. Dopo la morte di una contadina che praticava aborti clandestini la verità viene a galla: un gruppo di ragazze allegre, solita frequentare orgette con ragazzi più grandi, ha costretto l’amica Solange (Camille Keaton, nipote del celebre Buster) ad abortire ma le cose sono andate male e la ragazza ne è uscita psichicamente distrutta; suo padre, anche lui professore alla scuola, decide di smascherare le colpevoli e di ucciderle una per una.
Come si vede lo schema del racconto è identico a quello del film d’esordio di Argento: una serie di delitti inspiegabili, un testimone che ha visto qualcosa, un detective dilettante accanto alla solerte polizia. La colonna sonora di Morricone crea qualche ulteriore similitudine, anche se questa scritta per Dallamano, lirica e triste, appartiene più al Morricone “serio” de La califfa e di Giù la testa (Leone, 1971), pur non mancando qualche squarcio rumoristico posto a commento delle sequenze più crudeli. Ed infatti la pellicola di Dallamano possiede una stupefacente schizofrenia politica, che si duplica nello sforzo morriconiano.
In partenza il film imita Argento e quindi, più o meno consciamente, ne riprende la visione conservatrice e “risentita”. Il film anzi è tra quelli più crudeli e devastanti quanto a sadismo misogino: l’assassino uccide in modo atroce e anche simbolico, colpendo le vittime nel loro organo sessuale. E’ quella la loro colpa: avere scelto condotte amorali che, in ultima analisi, hanno provocato il disastro di Solange, il cui aborto malriuscito ha annullato la sua intelligenza mal utilizzata. La stessa contadina, mentre agisce su di lei, ironizza intorno alla sua condotta libertina. La swinging London si è nuovamente trasformata (dopo gli esempi della Lucertola di Fulci e di Tutti i colori del buio di Martino) in un paesaggio autunnale di infinita tristezza (l’ambientazione estremamente curata è un elemento fondamentale della “tinta” scura del film). Le orgette ci sono ancora ma sono fuori campo; Dallamano non le descrive, evita di inscenare variopinte, goliardiche festicciole mentre mette in scena con cura le loro tragiche conseguenze. Il dato reazionario è dunque ben evidente.
Qui però finiscono le “consonanze” col filone argentiano poiché gli omicidi non sono ora rituali lugubri e compiaciuti, bensì momenti di insopportabile crudeltà al punto che lo stesso regista stenta a raccontarli con sequenze lunghe e particolareggiate mentre si limita a suggerire l’evento traumatico. In una magnifica sequenza il regista abbandona la vittima nel momento della penetrazione mortale e confonde il suo urlo con quello di Elisabeth che si sveglia da un terribile incubo, dando vita a un esempio di notevole montaggio creativo e di un’intensa sensibilità narrativa che rimanda al celebre montaggio dell’assassinio del bambino in C’era una volta il West (in quel caso lo sparo si confondeva con il fishio del treno della sequenza subito sucessiva). Dallamano insomma dimostra di non condividere l’ambiguo compiacimento con il quale i suoi colleghi descrivono le morti femminili. Pur avvenendo in un modo tanto esplicito (la penetrazione con un lungo coltello), pur possedendo riferimenti morali così evidenti (la punizione si configura come una sorta di contrappasso dantesco), le esecuzioni intorno alla povera Solange sono innervate da uno spirito crepuscolare e angoscioso che le atmosfere autunnali di una Londra indaffarata e distante si incaricano di sottolineare (bellissima in tal senso la sequenza nel parco con Rosseni e la moglie, sdraiati sull’erba, che riflettono sul misterioso movente dell’assassino).
Procedendo verso la soluzione, non così difficile da scoprire visto che un indizio si trova addirittura nel titolo, appare sempre più evidente che il racconto tende ad approdare verso una visione addirittura modernista, laddove indica la pratica dell’aborto clandestino quale motivo dell’intera sequenza di morti tragiche. Il film chiude dunque su una nota estremamente ambigua: la visione è certamente misogina, le fanciulle sono descritte come ragazze poco intelligenti, alla ricerca di piaceri futili che le trascina verso un pericoloso disordine etico che sta alla radice di ogni successivo, delittuoso evento; ma l’incidente di Solange finisce con lo spostare l’attenzione del pubblico italiano sulla scottante problematica dell’aborto clandestino e dei suoi rischi, una tematica al centro di una furioso dibattito nella penisola, già alle prese con una legge divorzista contestata dal mondo cattolico la quale, di lì a due anni, sarà al centro di un decisivo referendum abrogativo.
Cosa avete fatto a Solange? è dunque una pellicola assai complessa che si colloca in una bizzarra no man’s land di confine: vi si ritrovano gli atteggiamenti di rivalsa misogina, propri del sanguinario giallo italiano, accanto a un accenno (non del tutto convinto e comunque poco insistito) di “denuncia civile” nei confronti della pericolosa pratica dell’aborto illegale. Il lungo cammino verso la legalizzazione dell’aborto in Italia (1978; legge 194) troverà il proprio principale argomento di sostegno - un argomento fazioso e stupido, lungamente sbandierato comunque dai suoi fautori - nella manifesta volontà di voler evitare incidenti come quello occorso a Solange ovvero alle giovani “costrette” (si fa per dire) a ricorrere all’interruzione di gravidanza secondo modalità clandestine, dense di incognite.
Va però aggiunto - al di là delle questioni interne al film - che l’aborto diventa una (triste) necessità implicita e conseguente alla grande trasformazione antropologica degli anni sessanta: la rivoluzione sessuale rende, in effetti, assurda l’idea di concepire, partorire e crescere esseri umani generati nel capriccio di una notte di divertimenti sessuali.
Il film di Dallamano ebbe un notevole e meritato successo: oltre alle perfette location, alla melodiosa colonna sonora di Morricone e a un intreccio ben costruito, vanno ricordati la scelta di attori e caratteristi convincenti e la serrata concatenazione degli episodi che coinvolge senza perdersi, neppure per un attimo, in vie secondarie, tempi morti o eventi inutili alla narrazione. D’altro canto manca qualunque genialità alla pellicola per poterne parlare nei termini di un capolavoro o di un film di alta suggestione visiva ed emotiva. Dallamano è un regista esperto, sensibile e brillante, privo però dell’estro visionario e terrificante del fondatore del genere.

Dopo l’originale Corta notte delle bambole di vetro (1971; vedi), Aldo Lado conferma il proprio talento nel notevole Chi l’ha vista morire? (maggio 1972; 95 min.; locandina), thriller girato interamente in una Venezia autunnale e nebbiosa basandosi su una sceneggiatura di Massimo d’Avack e Francesco Barilli. Lado conferma la propria estraneità ideale all’universo argentiano: se il film procede ancora tenendo ben presente, a livello stilistico, il modello dell’Uccello dalle piume di cristallo, la visione sociopolitica si conferma invece antitetica. Lado e il suo produttore Enzo Doria firmano una storia nettamente orientata in direzione antiborghese e anticlericale poiché nella pellicola tutti i ricchi sono presenze meschine e malvage: tra di loro si annida il colpevole - uno squilibrato che uccide bambine dai capelli rossi perché gli ricordano l’odiata madre - colpevole che è addirittura un sacerdote (un ottimo Alessandro Haber, per la gioia del Vaticano... ), fratello di un potente mecenate locale (Adolfo Celi) che lo protegge fino all’ultimo. La polizia appare totalmente incapace di risolvere alcunché, viene apertamente sbeffeggiata nel ritratto di uno stupido commissario che, guarda caso, assomiglia al povero Calabresi (che verrà giustiziato a Milano proprio nel mese in cui il film esce nelle sale italiane). Dunque una polizia imbecille, ricconi depravati dediti a orgette (è questo il loro segreto, scoperto nel finale) e uniti in un cameratismo settario come i potenti di Praga della Corta notte, l’artista (George Lazenby, ex Bond dello sfortunato Al servizio segreto di sua maestà, 1969) - emblema del consueto umanitarismo progressista - come vittima designata che indaga sulla terribile morte della propria figlioletta (la solita Nicoletta Elmi).
Il film di Lado è dunque lontanissimo da ogni sadismo misogino mentre i delitti riguardano povere bambine e vengono lasciati il più possibile fuori campo trattandosi di eventi sconcertanti. D’altro canto tutto il resto si sviluppa secondo modelli argentiani poiché l’assassino, travestito da vecchietta nerovestita (evidente l’allusione allo sdoppiamento di Anthony Perkins in Psycho, 1960; vedi), uccide oltre alle bambine suddette (evidente pure il riferimento al celebre M - Il mostro di Dusseldorf, Lang, 1931, sottolineato da alcune citazioni visive), anche una serie di pericolosi testimoni che sono sul punto di tradirlo secondo le consuete modalità terrorizzanti: da antologia è l’uccisione della bella Ginevra (Dominique Boschero) in un cinema veneziano, ma anche l’aggressione alla compagna del protagonista (Anita Strindberg) e tutto il finale nella sagrestia sono pagine inquietanti, condotte con mano sicura.
A livello generale va notato che la narrazione procede con ritmo serrato e avvincente, che gli attori sono tutti validi, che i dialoghi sono ben scritti, che non vi sono tempi morti o episodi inutili e che le svolte narrative sono numerose e abbastanza impreviste.
Chi l’ha vista morire? è insomma un piccolo classico ingiustamente misconosciuto al quale contribuisce in modo determinante la magnifica colonna sonora di Morricone, la più bella composta dal musicista per un giallo dai tempi dell’ Uccello dalle piume di cristallo. Come per il modello argentiano, anche ora la fanno da padrone la cantilene infantili e i coretti di bambini che puntualmente preannunciano l’entrata in scena della perfida “vecchietta” cui si accompagna spesso un uso vivacissimo della camera a mano e del montaggio alternato. Lado sa valorizzare al massimo gli interventi sonori, come accadeva nell’opera prima di Argento, lavorando sull’intermittenza del commento sonoro, fatto esplodere all’improvviso, come pure fatto sparire senza preavviso, secondo schemi che certificano l’intervento forte di un autore che vuole plasmare in modo estremamente personale il flusso delle immagini. Il tutto calato in una Venezia labirintica e sconosciuta, fatta di piccoli campi, di cunicoli tortuosi, di bar anonimi e di negozietti ordinari.

Altrettanto “fuori registro” appare Non si sevizia un paperino (settembre 1972; 110 min.; fotobusta), thriller di Lucio Fulci, sceneggiato dal regista con Roberto Gianviti e Gianfranco Clerici, nel quale appare evidente il tentativo di rifare il bel film di Lado (passato pressoché inosservato), cambiandogli radicalmente la cornice narrativa. Anche in questo caso il racconto si colloca al di fuori della visione conservatrice e antimodernista che permea la maggior parte dei film argentiani. Fulci ricopia Lado sia nella scenggiatura, sia nella visione sociopolitico di tipo nettamente progressista; d’altronde egli non appartiene alla nuova ondata di registi italiani (Argento, Martino, Di Leo, Bazzoni, Ercoli) che ha esordito alla regia intorno alla seconda metà degli anni sessanta: Fulci è ormai un veterano che ha firmato la prima regia nel 1959 e che ha fiancheggiato tutta la trasformazione modernista degli anni sessanta con le sue commedie musicali e satiriche. Dunque si trova abbastanza spaesato nelle trame reazionarie di Argento come si era già notato nella sua deludente e crepuscolare Lucertola (1971; vedi). Per questo Paperino recluta nuovamente la Bolkan, le affianca la Bouchet, Thomas Milian e Irene Papas e con questo ricco cast rigira il giallo dei bambini ammazzati ambientandolo in un “arretrato” paesino della Puglia che rinomina Accendura (si tratta in realtà di Monte Sant’Angelo, vicino, Manfredonia, non lontano da Foggia). L’assassino è ancora un sacerdote (Marc Porel) psicopatico e probabilmente pedofilo il quale elimina una lunga serie di poveri bambini prima di venire scoperto dal solito giornalista smaliziato (Milian), aiutato dalla bella ex drogata Bouchet, mentre la polizia, come al solito, arranca.
La pellicola, girata con sicuro mestiere ma indubbiamente oggi sopravvalutata (come il resto della modesta filmografia fulciana), si colloca assai al di sotto del lavoro di Lado: gli manca innanzitutto una potente colonna sonora morriconiana e un’ambientazione di grande forza espressiva come quella veneziana mentre i particolari più crudeli e agghiaccianti inerenti le uccisioni degli innocenti - saggiamente tenuti fuori campo da Lado - vengono invece mostrati senza troppe remore. Fulci inoltre accentua in modo provocatorio le tesi progressiste di Lado fino a rendere il film insopportabile ad ogni spettatore che non condivide il facile e manicheo “illuminismo” modernista.
Fin dalle prime immagini Fulci ci racconta una precisa antitesi: quella tra un universo rurale che considera antiquato, rozzo e ignorante e alcuni elementi emblematici del razionalismo progressista. Così vediamo l’imponente cavalcavia autostradale contrapporsi ai riti di una fattucchiera locale (la Bolkan) e ai divertimenti sempliciotti di ragazzini del posto; in seguito l’opposizione si fa sempre più accentuata contrapponendo il mondo ultramoderno della Bouchet (in esilio da Milano) e l’arguzia del giornalista Milian, anch’egli in trasferta dalla capitale industriale della penisola (unica incongruenza è averne fatto un reporter de “La Notte”, quotidiano notoriamente di destra) al mondo dei paesani dipinti dapprima come poveri bifolchi, poi addirittura come un branco di superstiziosi fanatici che non esita a trasformarsi in squadraccia nella orribile sequenza in cui la “maciara” Bolkan - ritenuta colpevole delle morti dei bambini - viene uccisa a sprangate mentre rieccheggia nell’aria una canzone sentimentale intonata da Ornella Vanoni. La donna - ridotta a una maschera di sangue - si trascina fin sulla provinciale dove inutilmente chiede aiuto alle numerose auto di passaggio, abitate da famigliole indifferenti.
Insomma Fulci si colloca nell’alveo di quel cinema italiano di sinistra che - fin dalla seconda metà degli anni quaranta - ha trattato con sommo disprezzo la cultura meridionale, colpevole di essere troppo conservatrice e impermeabile alle “magnifiche” novità dell’ugualitarismo socialisteggiante, insomma di non votare per i partiti della sinistra. La sua pittura macchiettistica di un sud credulone e fanatico si spinge realmente troppo lontano, fino a resuscitare il vecchio argomento della caccia alle streghe, sempre buono quando si tratta di attaccare i retaggi cattolici della penisola, e a farne il perno di tutta la narrazione centrale. Un perno tra l’altro totalmente fuorviante rispetto all’intreccio reale, pretestuoso ed anche piuttosto prolisso, che serve essenzialmente agli autori per creare un quadro denigratorio delle popolazioni pugliesi. Il nome del paesino viene modificato anche perché gli abitanti reali di Monte Sant’Angelo - sede tra l’altro di un antichissimo santuario dedicato a San Michele - come peraltro gli abitanti di qualunque altra località, si sarebbero ribellati a questa ridicola descrizione fulciana che trova tuttavia tanti estimatori nell’universo assai astratto e ideologizzato dei critici cinematografici. Certamente la sequenza della mattanza della strega è girata con grande estro, ma si tratta di talento sprecato o meglio posto al servizio di una causa sbagliata.
Il culmine ideologico lo si tocca con le sequenze finali quando viene svelata l’identità dell’omicida: il custode spirituale del paesino, rappresentante della “reazionaria” chiesa cattolica, si rivela invece un perfido assassino di bambini che però non sfugge all’acuta indagine del giornalista e della vamp milanesi, due pesci fuor d’acqua in quella realtà rurale. Ancora una volta una grande sequenza come quella conclusiva (la scazzottata e la caduta nel vuoto del sacerdote con spiegazione che avviene attraverso perfetti, lancinanti flashback “puntillisti”) è ancora un buon esempio di talento sprecato poiché inserito in un contesto narrativo inaccettabile per il suo saccente moralismo e per la sistematica deformazione macchiettistica di una precisa realtà culturale.
La terza sequenza famosa - quella iniziale in cui la Bouchet ostenta la propria nudità di fronte a un perplesso bambino (che finirà poco dopo ammazzato) - sancisce in modo definitivo la totale estraneità di questa pellicola all’universo argentiano: la donna si diverte a provocare il dodicenne secondo modalità “hippy” incompatibili con la realtà meridionale in cui vive lo spaesato ragazzino. Mostrarsi completamente nuda per far colpo su un giovanissimo fa parte dell’infantilismo tipico della cosiddetta “rivoluzione sessuale” e della stagione del free love. L’evidente compiaciuta condiscendenza degli autori nei confronti di questa sciocca e traumatizzante bravata definisce in modo inequivoco la loro posizione politica (tra l’altro la sequenza causerà un procedimento giudiziario nei confronti di Fulci, accusato di aver fatto recitare un bambino al cospetto di una donna nuda; il regista verrà prosciolto poiché dimosterà che la Bouchet e il bambino non avevano recitato insieme; la sequenza è infatti organizzata in rigidi campi e controcampi).
Nessun sadismo misogino quindi, nessuna vittima femminile (la strega viene uccisa per altri motivi, non inerenti alla sessualità) e, al contrario, una protagonista ricca, bella, emancipata, provocatoria, “spostata” e contestatrice: la vittima ideale del cinema argentiano è diventata addirittura la detective che riesce a incastrare il prete psicopatico. Il “giocattolo” insomma - pur partecipando esteriormente al filone argentiano - è stato smontato nelle sue componenti e rimontato a rovescio.
In ogni caso Non si sevizia un paperino appare principalmente il parente povero di Chi l’ha vista morire?: In quest’ultimo almeno l’attacco alle classi cattoliche e borghesi vantava maggiore finezza di particolari e minore insistenza didascalica, mentre il film nel suo insieme si avvaleva di un gran numero di sequenze magistrali. La pellicola di Fulci, tutta sostenuta da un buon mestiere (brave la Bolkan, la Bouchet, la Papas, Milian come pure tutti i caratteristi), offre tuttavia solo un paio di sequenze realmente memorabili (quelle già commentate), non sviluppa alcuna appassionante detection (l’assassino viene scoperto di punto in bianco per un dettaglio secondario; non vi è alcuna progressione drammatica) mentre non poche sono le inutili lungaggini (soprattutto relative all’episodio centrale della “maciara”).
Nella sua concezione generale il Paperino fulciano può anche venire riletto come il più netto rovesciamento di Reazione a catena (1971, vedi) di Mario Bava poiché in entrambi i casi si narra l’opposizione totale di modernismo e conservazione, ma con valutazioni antitetiche: nel film di Fulci i moderni milanesi portano un ordine logico in un mondo brutale e arretrato laddove in quello di Bava erano i moderni speculatori a portare orrore e morte nel quadro di una natura incontaminata.