Cuori senza frontiere e Parigi è sempre Parigi

Cuori senza frontiere, E’ più facile che un cammello... , Signori, in carrozza!, Parigi è sempre Parigi, Il diavolo in convento e Domani è un altro giorno: tragedie, sermoni, favole e farse (1950-51)

                “... dopo la seconda guerra mondiale... il confine   fu arretrato di una trentina di km fino ai        sobborghi orientali della città [Gorizia],       escludendo la linea ferroviaria transalpina con la   stazione di Montesanto e le frazioni di Salcano,    San Pietro e Vertoiba. Il comune fu così ridotto a  due quinti del suo territorio e perdette il 15%       della sua popolazione. ... oltre il confine gli        Jugoslavi fondavano la città gemella di Nova       Gorica...”.
                AAVV, Friuli Venezia Giulia (Touring Club       Italiano, 1982)

La Venezia Giulia, come è noto, vive tra il 1945 e il 1948 una situazione di tragica incertezza, situazione che invece si protrae fino al 1954 per Trieste. Nel capoluogo del Friuli la guerra finirà solo allora, quando la popolazione avrà finalmente la certezza di poter tornare sotto l’amministrazione italiana e potrà considerare scongiurato il pericolo di divenire parte della Jugoslavia di Tito.
Furono anni luttuosi nei quali le forze di occupazione slovene e croate si abbandonarono a ogni genere di vendetta, strage, pulizia etnica, infoibamento e quant’altro. In particolare nel maggio- giugno 1945, durante i tristemente famosi quaranta giorni di occupazione di Trieste e Gorizia, le truppe titine massacrarono migliaia di civili a vario titolo (ex fascisti, aderenti ai partiti italiani, carabinieri, poliziotti e componenti della GdF) per potere spezzare la resistenza della popolazione nei confronti dei nuovi occupanti.
Purtroppo nel periodo 1945-48 le truppe jugoslave, protette da Stalin, trovarono completo appoggio nella sciagurata politica antiitaliana del partito comunista di Togliatti il quale si adoperò fattivamente per favorire il passaggio di Trieste agli slavi.
Questa materia drammatica e scottante, ancora in piena evoluzione nel 1950, viene trattata con indecente leggerezza ed evidente faziosità da Luigi Zampa nel mediocrissimo Cuori senza frontiere (settembre 1950; 90 min.), pellicola prodotta dalla solita Lux e sceneggiata da Piero Tellini e Stefano Terra. Vi si racconta di un immaginario picolo paese che viene spaccato in due dalla linea Morgan (la linea del confine provvisorio, stabilito da una commissione interalleata che divise la zona A amministrata dagli angloamericani, dalla zona B abbandonata - seppur provvisoriamente - alla Jugoslavia). Il riferimento palese è ovviamente a Gorizia, che venne realmente divisa in due città autonome (nasceva allora Nova Gorica).
Regista e sceneggiatori trattano la materia con il piglio leggero della commedia quasi umoristica, per poi virare bruscamente nelle ultime sequenze verso un dramma cupo e strappalacrime che culmina nella morte del piccolo Pasqualino (Enzo Stajola, già protagonsita di Ladri di biciclette). Senza troppa fantasia gli autori raccontano delle problematiche tipiche di una popolazione spaccata in due dall’oggi al domani da un confine artificioso; raccontano di bambini divisi che si lanciano pietre “lungo il confine”; del solito triangolo amoroso - mai così superficialmente abbozzato - tra uno scampato alle persecuzioni comuniste (Raf Vallone), un fiero comunista di origini slave e una bamboleggiante e ottusa Donata (Gina Lollobrigida; basti dire che in una sequenza promette amore eterno a Vallone e in quella successiva varca la frontiera slava - con la famiglia - per ricongiungersi al precedente fidanzato... ); raccontano infine dei sacerdoti cacciati dalla zona comunista, dei piccoli furti e delle liti continue che avvengno lungo il confine e lasciano largo spazio al gruppo di bambini ai quali vengono affidati deliranti e del tutto inappropriati dialoghi sulle questioni sociopolitiche derivanti dalla divisione del paesino (in un’atmosfera di fastidiosa inverosimiglianza).
La pellicola è scadente da qualunque punto la si voglia considerare. Ciò che più la rende insopportabile, consiste però nel fatto di avere propinato agli Italiani una visione semirosea di un gravissimo problema nazionale, inventando la presenza di una sostanziosa parte (nel racconto sembra essere la metà esatta della popolazione) che preferisce passare in Jugoslavia, in omaggio alla propria fede comunista. Questo clima da Peppone e Don Camillo (i libri di Guareschi sono già stati editi) è profondamente manipolatorio nei confronti della realtà storica. In quelle zone gli slavi erano una minoranza e anche gli strati italiani filocomunsiti divennero presto poca cosa di fronte alle crudeltà titine e al taglio meramente nazionalistico che andava assumendo l’annesione della Venezia Giulia. Basti dire che nelle elezioni comunali triestine del 1949 i partiti filo slavi raccolgono poche migliaia di voti rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione la quale, pur votando per differenti partiti, si schiera compattamente nel fronte italiano. Questo voler addolcire lo scontro e voler mostrare entro un’aura di sostanziale simpatia il mondo comunista slavo, arricchito da un foltissimo  umero di “entusiasti” Italiani, è una menzogna politica grave. Tanto più che nel 1950 non solo erano note le crudeltà del 1945 (gli infoibamenti innanzitutto), ma era perfino noto che gli sfortunati comunisti italiani che avevano fatto l’errore di passare dall’altra parte nell’epoca staliniana della Jugoslavia, ora si trovavano in larga parte nei lager, controllati con sospetto come simpatizzanti di una potenza (l’URSS) di colpo divenuta nemica.
Con il film di Zampa siamo insomma di fronte alla consueta ambiguità dei settori massonici piemontesi: la Lux Film porta avanti una politica di fraterna simpatia con le forze comuniste, pur cercando di distinguersi da esse. Si veda tra l’altro con quanta antipatia vengono descritti i politici nazionalisti italiani che giungono nel paesino per fornire un sostegno attivo in una fase tanto delicata: gli autori, tanto comprensivi con i comunisti italiani passati con la Jugoslavia, li ritraggono come un gruppo di ciarlatani e di mestatori, interessati a strumentalizzare le disgrazie degli abitanti locali.
Insomma la Lux porta avanti in ambito filmico la stessa ambigua politica editoriale della torinese Einaudi, la quale pubblicherà addirittura i testi di Gramsci e la storia del Partito comunista italiano (in cinque ponderosi volumi) redatta da Paolo Spriano, storico ufficiale del partito di Togliatti (una storia, tra l’altro, in cui, neppure una volta, vengono citati i quotidiani rapporti che legavano strettamente i dirigenti comunisti e l’ambasciatore sovietico a Roma... ). Einaudi e Lux prendono appena le distanze dal totalitarismo sovietico e non esitano a offrire il loro concreto e prestigioso contributo alla causa del PCI le cui origini, tra l’altro, si intersecano con la storia della città di Torino (dove operarono Gramsci e Togliatti). Il falsificante film di Zampa si inserisce a pieno titolo in questo atteggiamento di ambiguità politica dei settori “colti” della città piemontese.
La critica militante nicchia di fronte a questa favoletta edulcorata e parla in genere di sproporzione tra argomento e realizzazione. In ogni caso non ricopre di insulti il lavoro come aveva fatto invece con l’ottimo film di Bonnard dedicato a Pola ovvero La città dolente (1949; vedi) nel quale la tragedia dell’esodo veniva affrontata senza infingimenti. Per certi versi si può perfino pensare che questo filmetto complessivamente rassicurante (un bambino muore, è vero, ma si ricordi che si è trattato solo di un incidente di fronte al quale le due fazioni in lotta ritrovano addirittura un’inaspettata sintonia) sia stato girato proprio con l’intento di contrastare la pellicola di Bonnard e altre possibili iniziative culturali di matrice anticomunista che avessero per argomento il delicato tema dei confini orientali
Altrettanto scadente risulta il pressoché coevo E’ più facile che un cammello (ottobre 1950, 81 min), una coproduzione italofrancese nella quale Zampa mette in immagini un soggetto di Zavattini, sceneggiato da Suso Cecchi d’Amico (che lo definirà in seguito “un brutto film”), Vitaliano Brancati e altri.
Il racconto configura un banale rovesciamento del graffiante dramma Lazzaro (1928) di Pirandello nel quale Diego Spina, timorato e credente, finisce sotto un auto, muore e “resuscita”, tornando nell’al di qua armato di un feroce scetticismo e di un’incontenibile rabbia poiché nell’al di là si è trovato di fronte al nulla. Per l’intera esistenza dunque ha indossato invano la “maschera” remissiva dell’uomo timorato di Dio, sopportando ogni genere di ingiustizia, e ora viene il momento della resa dei conti. Questo testo aspro e cattivo viene ribaltato dal buonista Zavattini che immagina l’egoista industriale Carlo Bacchi (Jean Gabin) il quale, dopo avere vissuto all’insegna del più sfrenato individualismo, muore sotto un camion e in Paradiso gli danno dodici ore per rimediare a un’esistenza di ribalderie peraltro tutte piuttosto comuni: dongiovannismo, avidità, disattenzione nei rapporti familiari, sfruttamento della mano d’opera. Così torna in vita e ci ammorba per il resto del film con l’insulso desiderio di fare del bene al primo che capita. La pellicola - nel quale viene sprecato un ottimo cast (oltre a Gabin ci sono Elli Parvo, Antonella Lualdi, Mariella Lotti, Paola Borboni e Dante Maggio; le musiche sono di Rota) - appare dunque sciocca nei contenuti e stucchevole nell’elaborazione.
Va invece notato come essa - segnata fin nel moralistico titolo dalla visione classista e ugualitaria, tipica della cultura cattocomunista - si trovi in perfetta sintonia con le pellicole del periodo antiborghese dell’era fascista (alle quali aveva ampiamente contribuito lo Zavattini sceneggiatore): l’universo aristocratico e altoborghese che circonda il protagonista è ritratto come un covo di ottusi perdigiorno, naturalmente inclini all’inganno e allo sfruttamento del prossimo, mentre la sfera piccolo borghese appare moralmente sana, fattiva e decisa a non farsi “contaminare”.
Il pubblico punisce questo zuccheroso sermone, boicottandolo.
L’infelice periodo creativa che attraversa Luigi Zampa viene confermato nel mediocre Signori, in carrozza! (ottobre 1951, 100 min.) dove, quanto meno, il regista accantona tematiche troppo alte (morali o politiche) per dedicarsi a personaggi e situazioni tipiche della farsa. Il soggetto, piuttosto ovvio, racconta del macchinista Vincenzo (Aldo Fabrizi) il quale, in servizio sulla tratta Roma-Parigi, è sposato (con due figli) nella capitale italiana mentre convive amabilmente con la bella vedova Ginette (Sophie Desmarets) in quella francese. La vicenda tuttavia non si incentra sui due differenti tipi di coabitazione, sulle motivazioni dell’insolita scelta del protagonista o sul suo rapporto con le differenti “mogli” (questioni appena accennate); al contrario gli sceneggiatori (Age Scarpelli, Maccari, Brancati e altri) concentrano unicamente sul rapporto che il ferroviere intrattiene con l’invadente, insopportabile cognato Gennaro (Peppino De Filippo), un ladruncolo profittatore che ciondola da anni nella casa romana di Vincenzo e che, dopo un piccolo furto, taglia la corda e lo segue a Parigi, riuscendo a istallarsi nell’abitazione di Ginette. Dopo tutti gli equivoci del caso (la moglie romana giunge inattesa a Parigi e scopre gli altarini), un frettoloso lieto fine aggiusta tutto: Vincenzo rinuncia alla vedova e la moglie (Vera Nandi) caccia l’inutile fratello da casa.
Come anticipato, il film è terribilmente monocorde poiché offre esclusivamente una serie di duetti - assai poco comici in quanto sempre prevedibili nei loro contenuti - tra Fabrizi e De Filippo. I due attori - in altre occasioni ottimi interpreti di figure a tutto tondo -richiesti di una prestazione esclusivamente farsesca, risultano svalutati oltre che noiosamente ripetitivi. Tolto il perenne scontro tra l’infaticabile ferroviere romano e lo scroccone napoletano, resta poco altro. Ovviamente gli autori non si lasciano sfuggire il contesto parigino (la pellicola, che oltralpe esce col titolo Rome - Paris - Rome, è una coproduzione italo-francese sotto l’egida Lux film) e documentano la vita quotidiana della capitale francese in alcune interessanti e a loro modo preziose immagini turistiche (il Louvre, place de la Concorde, l’Opèra) mentre le serate, trascorse nei locali notturni, offrono l’occasione per contrabbandare qualche immagine più audace del solito.
Si può dire che con queste coproduzioni italo francesi si mettono le basi di quel fiorire di “documentari” che, a partire dal celebre Europa di notte (Blasetti, 1959), con il pretesto di far conoscere gli spettacoli più stravaganti e sensuali delle capitali europee e americane, funzioneranno da testa di ponte del futuro cinema erotico, il cui vero esordio coincide con la fine degli anni sessanta.
L’argomento della bigamia troverà invece trattazioni più riuscite in film successivi che in una certa misura si rifanno alla pellicola di Zampa. Franco Rossi, ne Il seduttore (1954) con Alberto Sordi, ricopia la sequenza dei ristoranti (una delle migliori del film) durante la quale Vincenzo è costretto a cenare contemporaneamente in due locali attigui (in uno c’è la moglie con un corteggiatore parigino; nell’altro Ginette e Gennaro). Germi trasforma il ferroviere in un violinista (U. Tognazzi) nel più serioso L’immorale (anch’esso una produzione italo-francese) mentre con Professione bigamo (1970) dell’austriaco Antel (che si firma François Legrand), siamo di fronte a un vero e proprio remake (più sfaccettato e divertente) con Buzzanca macchinista impegnato sulla tratta Roma - Monaco (Baviera).

Il lavoro di Zampa possiede numerosi punti in comune con l’opera seconda di Luciano Emmer, Parigi è sempre Parigi (novembre 1951; 89 min.): ritroviamo la capitale francese e Aldo Fabrizi quale protagonista all’interno di una coproduzione italo - francese; inoltre identica appare l’attenzione per le bellezze artistico - urbanistiche della capitale d’oltralpe come per le “bellezze naturali” che animano la vita notturna dei tabarin. Ulteriore assonanza consiste nel fatto che anche Emmer, come Zampa, sembra perdersi nei troppi stimoli offerti dalla realtà francese: se Zampa vive nel biennio 1950-51 un periodo decisamente infelice della propria carriera di cineasta, anche Emmer accusa un netto cedimento nei confronti dell’opera d’esordio Domenica d’agosto, cedimento reso tanto più evidente dalla palese somiglianza dei due lavori. Infatti Parigi è sempre Parigi (che in Francia esce col titolo Paris est toujours Paris, senza destare alcun interesse) potrebbe tranquillamente intitolarsi “Una domenica a Parigi”.
Emmer, colto un buon successo con l’opera prima, decide di replicare più in grande. Riunisce i medesimi sceneggiatori (Sergio Amidei, Giulio Macchi, Ennio Flaiano), affida le musiche ancora a Roman Vlad e tra gli attori riconferma Marcello Mastroianni, Franco Interlenghi (ancora nel ruolo dell’amoroso ingenuo) e Ave Ninchi. La vicenda è strutturata in modo simile: un gruppo di personaggi, riuniti dal caso in una comitiva, vivono la loro grande giornata a Parigi. Il film dunque si frammenta - come nell’opera precedente - in una serie di microstorie, più o meno interessanti. Qui però finiscono le affinità e iniziano le differenze, tutte in negativo. Gli attori sono ora professionisti ben noti e viene quindi a mancare quel gioco di integrazione tra attori e gente presa dalla strada che costituiva un dei punti di forza di Domenica d’agosto. Inoltre l’attenzione degli autori si sposta quasi immediatamente sulla scoppiettante realtà parigina la quale finisce ben presto per mettere in ombra i personaggi dei quali ci si dimentica di tracciare un credibile profilo psicologico; si intuisce solo che si tratta di piccolo borghesi in vacanza. Se ancora nella fase iniziale (la mattinata e il pomeriggio) esiste un timido tentativo di delineazione dei caratteri, questo evapora totalmente nella terribile seconda sezione (la serata), monopolizzata dall’illustrazione dei numeri musicali e di rivista presenti nei locali notturni (la parte del leone la fa un giovane Yves Montand che canta Les feuilles mortes). A quel punto il film diviene un pretesto per mostrare ed elogiare l’industria dello spettacolo parigina nella quale si dissolvono i singoli italiani. Anche sotto questo aspetto appare evidente la somiglianza con Signori, in carrozza!
Bisogna tuttavia rilevare che Emmer, Amidei e amici hanno saputo intuire e ben criticare non tanto la sciocca ricerca dell’opulenza e del consumo a tutti i costi che sembra a tratti pervadere la giornata della comitiva, bensì l’esistenza di una vera e propria, imponente industria del tempo libero la quale diverrà, nei decenni a venire, uno dei segni più stupidi della società occidentale. Questo gruppo di italiani un po’ imbranati, un po’ ingenui viene trascinata nella mattinata in una corsa senza soste attraverso i luoghi più caratteristici di Parigi (esilarante una visita a tempo di marcia del Louvre, narrata dalla voce fuori campo mentre la mdp si blocca alle soglie dell’immenso palazzo francese) e durante la serata in un analogo tour de force dei locali notturni. Nulla viene spiegato o compreso, né potrebbe essere altrimenti: sradicati dal proprio ambiente, sballottati in una folle giornata, questi romani vivono Parigi come una realtà esotica e stravagante, curiosano qua e là e restano complessivamente interdetti. Di fronte a questa palese strumentalizzazione dell’esistenza delle persone, ridotte a numeri su un autobus in corsa e assillati dall’esigenza di “poter dire di aver visto”, appaiono più intelligenti quei personaggi i quali rimangono se stessi, impermeabili alle “bellezze” parigine che in definitiva non possono realmente comprendere e decisi a divertirsi a modo loro. C’è allora il giovane (Franco Interlenghi) che passa una giornata sentimentale con una graziosa edicolante conosciuta per caso; ci sono gli inguaribili corteggiatori di donne alla disprata ricerca di una storiella erotica, c’è la fidanzatina riottosa (Lucia Bosé), scocciata dal dover perder tempo col Louvre anziché potersi dedicare alle vetrine, ai negozi e allo shopping.
Insomma sta nascendo l’industria della “curiosità organizzata” nel quale il ceto piccolo e medio borghese sprecherà enormi risorse ed energie negli anni a venire, deciso a invadere ogni angolo del pianeta pur senza avere i mezzi culturali per comprendere (ossia per collocare in un contesto significativo) ciò che va visionando. Non tutti però ne sentono per adesso tale necessità cosicché gli uomini preferiscono lo sport di sempre (la caccia alla preda femminile) e le donne quello inerente alla propria avvenenza (vetrine significa oggetti destinati a rendere più seducente la propria figura). In questo conflitto tra la ridicola baraonda delle visite organizzate e il raffermarsi dei più arcaici e naturali istinti, si trova la componente più sagage del modesto film di Emmer.
Quando poi si va a esaminare le singole storie, nessua di esse possiede caratteri di interesse e di autenticità. Marcello (Marcello Matroianni) passa il tempo a litigare con la fidanzata (Lucia Bosé), ma gli argomenti appaiono artificiosi; Andrea (Aldo fabrizi) si ostina a cercare locali di spogliarello ma il suo amico francese, il presunto barone Raffaele d’Amore (Giuseppe Porelli), nonostante viva a Parigi da anni, non sembra conoscerne alcuno (questa vicenda, che occupa l’intera seconda parte, è la più sciocca, anche perché totalmente inverosimile) e i due (con altri al seguito) si trascinano stancamente nei posti più insensati: al loro posto chiunque avrebbe semplicemente chiedere a un tassista. Anche la storiella amorosa tra il giovane Franco e la ragazza dell’edicola è gracile e manierata.
Non stupisce allora che, nonostante Parigi, i suoi locali e un cast di tutto rispetto, il pubblico italiano abbia sostanzialmente snobbato l’opera seconda di Luciano Emmer.
Rimane all’attivo del film quello stesso clima esuberante e vitale che caratterizzava Domenica d’agosto: questi italiani “nuovi” - dimenticata la tragedia bellica - sono ansiosi di godersi l’esistenza in tutti i suoi colori, da quelli sciocchi degli artificiosi tour “culturali” a quelli istintivi del consueto gallismo, a quelli più delicati della passione amorosa a tutti i costi (Franco si innamora in fondo della prima che incontra), vissuta in una cornice indimenticabile. L’esistenza è tornata a essere “facile” ed Emmer ci racconta questa  felicità lieve e aproblematica che già gli aveva causato le aspre critiche degli intellettuali “impegnati” nella rivoluzione marxista. Con questo film semituristico, la sua uscita dall’universo del film “d’autore” è definitiva e d’ora in poi le riviste cinematografiche più austere parleranno poco di lui e sempre come di un autore secondario.
Il cinema di Emmer non induce desolata riprovazione e quindi non serve.

Il secondo film girato da Nunzio Malasomma nel dopoguerra è Il diavolo in convento (gennaio 1951; 85 min.) che conta al proprio attivo la presenza del grande attore di teatro Gilberto Govi e si ispira alla novella Il miracolo di Mario Amendola (sceneggiato tra gli altri dallo stesso Malasomma e da Govi). La pellicola - girata in Liguria, tra l’abbazia di San Fruttuoso e la vicina Camogli - è una favoletta inverosimile che si può tranquillamente accostare a E’ più facile che un cammello... di Zampa e in generale alla poetica di Zavattini.
Il racconto parte in modo realistico e con un certo coraggio nel mostrare la crudele determinazione degli angloamericani: gli alleati infatti bombardano Camogli e un’ottantina di persone, già rifugiatesi nel vicino convento di San Fruttuoso, vi rimangono avendo perso tutto. Frate Angelo (Gilberto Govi) se ne fa carico, li accoglie infrangendo le regole dell’abbazia e nasconde la loro esistenza perfino al priore. Poi dal 1945 si passa repentinamente al 1951 e si pretende che gli ottanta sfollati siano ancora lì, “nascosti” alle autorità religiose a causa dei ritardi nella ricostruzione delle loro abitazioni. Gli uomini vanno a pesca, ovvero lavorano normalmente; ciononostante nessuno si è mosso da quella sede disagiata. Tutto quello che segue è altrettanto assurdo e poco interessante: giungono autorità ecclesiastiche che scoprono gli sfollati; un industriale avrebbe addirittura acquistato dal Vaticano l’antico convento per farne un albergo di lusso (un mero pretesto per far proseguire l’azione poiché appare bizzarro che la Santa Sede venda monasteri medievali a chi intende farne luoghi di villeggiatura); le inefficienti autorità locali si schierano con l’industriale. Di contro frate Angelo si oppone come può, dapprima fingendo la presenza di epidemie contagiose per allontanare i nuovi venuti, poi simulando un miracolo; dopo tanta confusione Dio lo soccorre con un reale prodigio (un bambino muto riacquista la voce), piegando così le profane intenzioni di politici e capitalisti.
La vicenda è dunque stereotipata nel suo buonismo antiproduttivista (l’industriale è il diavolo, aiutato da una segretaria che non esita a sedurre il leader dei pescatori per ottenere ciò che vuole) e priva di interesse; le location sono poco valorizzate da inquadrature piatte e sempre identiche; il notevole cast (oltre a Govi, ci sono Carlo Ninchi, Mariella Lotti, Ave Ninchi, Mario Pisu) è impossibilitato a farsi valere mentre un soffio di poesia si affaccia solamente nella sequenza finale del falso, poi vero, miracolo.
Pubblico e critica si occupano assai poco di questo sconcertante prodotto.

Alla grigia categoria dei sermoni appartiene anche Domani è un altro giorno (gennaio 1951; 100 min.) con il quale il regista di origini russe Léonide Moguy (ma sostanzialmente attivo in Francia fin dagli anni trenta) cerca di replicare l’enorme successo colto circa un anno prima con Domani è troppo tardi (1950). La vicenda (il soggetto è del regista mentre alla sceneggiatura collaborano Domenico Meccoli, Oreste Biancoli ed altri) prende in esame la scottante tematica del suicidio e la illustra in tre esempi che non riescono a fuoriuscire dagli schemi del facile fotoromanzo.
A Roma quattro donne decidono di suicidarsi (solo una vi riesce) per motivi differenti: una ragazza napoletana (Anna Maria Ferrero), finita nel gorgo della prostituizione, cerca invano di sfuggire al suo protettore (Arnoldo Foà) e, disperata, si getta dalla finestra. Un’anziana signora (De Liguoro), che gestisce una piccola pensione familiare, soffre di solitudine e trova conforto in un cagnolino; quando quest’ultimo muore, avvelenato dai pensionanti, la donna si suicida. Una giovane (Anna Maria Pierangeli) dell’alta borghesia, trascurata dalla insensibile madre (Galletti), viene messa incinta da un mediocre seduttore e decide di tenersi il bambino; la madre fa di tutto per convincerla a sbarazzarsene (si discute apertamente di aborto) e poi glielo nasconde, cercando di farle credere che sia morto in uno sciagurato incidente. La giovane tenta allora il suicidio, ma viene salvata appena in tempo. Nella cornice narrativa un medico (Aldo Silvani) accorre in soccorso delle poverette, portandosi dietro un’aspirante suicida con la quale discute delle bellezze della vita, dei suoi alti e bassi, delle sofferenze cui seguono, spesso, gioie inattese.
Insomma il lavoro è totalmente inverosimile proprio perché manca di ogni naturalezza cui si sostituisce una sorta di andamento saggistico nel quale ognuna delle vicende vorrebbe essere esemplificativa di una precisa, ricorrente tipologia: le miserie dei vicoli di Napoli, l’intolleranza che serpeggia in un gruppo di pensionanti e le meschinità di una frivola (come di consueto) alta borghesia sono i tre contesti nei quali si sviluppa la decisione fatale di troncare un’esistenza priva di luce. Come sempre le colpe vengono addebitate agli ambienti mentre i singoli vengono descritti come vittime incolpevoli della malasorte, secondo una “logica” cara al materialsmo marxista. Film sostanzialmente desolato - anche se tre aspiranti suicide su quattro si salveranno - popolato di figure inerti e fastidiose, Domani è un alro giorno sprofonda nella peggiore retorica proprio in quel suo collocare artificiosamente cause e motivi nei contesti gelidi e anaffettivi che circondano le quattro protagoniste. Il mondo è dunque tetro, gelido e invivibile, le tematiche dell’alienazione e della solitudine sono alle porte (d’altronde Cronaca di un amore di Antonioni è già uscito) e l’auspicio è quello, assai banale, di una maggiore comprensione recoproca che, da sola, potrebbe evitare quelle angosciose decisioni. Insomma, come in ogni film programmaticamente desolato, la tesi di fondo è quella di una generica accusa al sistema sociale di cui, in maniera implicita, si caldeggia una radicale riforma in quanto in contesti più “solidali” nessuna delle quattro donne avrebbe deciso di togliersi la vita.
L’effetto complessivo rimane quello di un affresco basato su fragili e pretestuose motivazioni, derivanti dalla descrizione monocromatica dell’universo umano.
In definitiva sciagure possono capitare a tutti (quelle del film poi sono particolarmente comuni) ma non tutti decidono di suicidarsi, come è ovvio. Pertanto le motivazioni ultime di tali insani gesti vanno ricercati nelle problematiche caratteriali del singolo e non tanto nei contesti in cui questi si trova ad agire. Come sempre bisogna innanzitutto ricordarsi delle diversità che ci separano e ci rendono tipi individuali, anziché battere sempre il disgraziato chiodo dell’ugualitarismo e del deteminismo ambientale. Quest’ultima logica, tanto diffusa purtroppo nelle arti narrative, finisce col rendere numerose pellicole (in genere quelle più “impegnate”), anch’esse, un po’ tutte uguali e ugualmente noiose.