La damigella di Bard, Pensaci Giacomino,Trenta minuti d'amore

Tempo massimo, Amo solo te, Sette giorni all’altro mondo, La damigella di Bard, L’uomo che sorride, La cieca di Sorrento, Non ti conosco più, Il paraninfo, Fiat voluntas dei, Quei due, L’aria di continente, Amazzoni bianche, Pensaci Giacomino, Lo smemorato, Il re di denari, Darè un milione, Ma non è una cosa seria, Anonima Roylott, Joe il rosso, Trenta secondi d’amore e L’albero di Adamo: un popolo dinamico e un’aristocrazia oziosa (1934-36)

           Delegato: Lei è nervoso, signor Duscio, si calmi. Dunque:
          “Risulta a questo ufficio che la sedicente Milla Milord…Usa questo nome
          dal carnevale dello scorso anno, e lo denunziò, per la prima volta,
          in questa pensione Violetta di via Frattina — Prima si faceva chiamare,
          anche nei programmi dei teatri di varietà, Elsa Spada, e sotto questa
          denominazione fu implicata nel processo del Barone Pollicino, per falso in cambiali
          — Essa fu assolta per non provata reità, ma nel processo emerse che
          le sue vere generalità sono le seguenti: Nome, Concetta Càfiso, di padre ignoto
          e della fu Rosaria. — Età di allora, tre anni fa: ventidue anni. —
          Luogo di nascita: Valguarnera di Sicilia...”.
          Don Cola: (fuori di sé, scattando) Comu dissi?... Come ha detto?... Luogo di nascita...
          Delegato: (mettendogli il foglio sotto gli occhi) Valguarnera di Sicilia, legga
          Don Cola: (esterrefatto) Carrapipi!…
          Delegato: Caropepe, sissignori.
          Don Cola: Valguarnera Caropepe, in provincia di Caltanissetta?...
          Delegato: Per l’appunto.
          Don Cola: (come preso dalla tarantola, andando su e giù, con le mani in testa)
          Signuri mei, carrapipana!... ‘A cuntinintali, ‘a rumagnola, era di Carrapipi! ...
          M’ammazzu! ... Mi jettu di cca supira, a testa sutta!… Siciliana è!...
          N. Martoglio, L’aria del continente (atto III, scena IX)

Per il proprio esordio cinematografico Mario Mattoli scrive un soggetto leggero che si ispira apertamente alla screwball comedy americana. In Tempo massimo (nov. 1934; 80 min.) il regista racconta le disavventure di Giacomo, un timido e aristocratico professore di provincia (Vittorio De Sica), il quale si innamora di Emma, una giovane scapestrata (Milly), all’occasione anche paracadutista. Pur di conquistarla - strappandola ad un odioso rivale -  abbandonerà la propria reggia ovattata, la zia protettiva, la musica classica e diventerà sciatore, pianista di ragtime e automobilista spericolato. Nel turbinoso girotondo finale, ambientato per le vie di Milano (si possono vedere interessanti squarci cittadini, tra cui via San Marco ancora con la fossa del laghetto), utilizzerà ogni mezzo automobilistico (taxi, autobus) “preso in prestito” per arrivare ad interrompere la cerimonia nuziale dell’amata e a “rapirla”. Il brioso episodio conclusivo anticipa quello de Il laureato (Nichols, 1967), anche se in un contesto assai differente; peraltro appare improbabile che il regista hollywoodiano conoscesse questa pellicola italiana.
Lo schema narrativo utilizza l’abituale schema delle due coppie, una nobile e l’altra umile (Enrico Viarisio e Anna Magnani nel ruolo di una spregiudicata servetta), in uso fin dall’opera buffa settcentesca e lo piega ad una serie di equivoci e intrecci la cui unica finalità è giungere allo scapestrato finale in cui la corsa contro il tempo di Giacomo, inseguito da una tuirba di poliziotti, ricalca addirittura i finali dei film comici di Buster Keaton.
La pellicola, sufficientemente brillante da farsi perdonare la totale inverosimiglianza di personaggi e situazioni, appare interessante nel suo inquadrare la consueta ideologia fascista che anima la prima metà del decennio. Il modello umano rimane quello del piccolo borghese atletico, fattivo e aggiornato; l’aristocratico professore viene dunque redento dalla vivace parcadutista, amante del jazz. Si parla proprio di jazz (non di musica americana o ragtime) e lo si considera più interessante della musica della tradizione europea. Sebbene l’ingresso in Italia di jazzisti fosse pressoché vietato (il concerto di Armstrong a Torino nel 1935 è l’eccezione che conferma la regola; peraltro Torino, al confine con la “corrotta” Francia, era la città meno fascista della penisola), in questi anni di grande sintonia con la cultura americana il regime cerca di proporre il dinamismo statunitense come modello sociale. Sono anni in cui Mussolini collabora regolarmente con testate giornalistica del gruppo Hearst (il magnate poi ritratto da Welles nel celebre Quarto potere, 1941) ed in cui gli Usa sono stati governato, per oltre un decennio, da presidenti repubblicani (dal 1919 al 1933). Le cose cambieranno radicalmente dopo il 1936, quando la presidenza Roosevelt si schiererà contro le conquiste italiane in Africa; infatti nei film di fine decennio e del periodo bellico, discorsi positivi sul jazz non se ne troveranno più.
L’anno successivo Mattoli replica con Amo te sola (nov. 1935; 80 min.), pellicola in cui ritroviamo i medesimi attori e le consuete tematiche amorose, calate però in uno sfocato contesto risorgimentale. Il soggetto è tratto dall’operetta Il gatto in cantina (Firenze, 1930) del letterato Nando Vitali e del compositore Salvatore Allegra (di cui si ascoltano le musiche).
Nel 1848, a Firenze, il compositore napoletano Giovanni (Vittorio De Sica) ama Grazia (Milly); purtroppo la relazione sentimentale si interrompe poiché il giovane si ritrova immischiato nelle proteste di un gruppo di liberali. Imprigionato, viene esiliato. Qualche mese dopo, nel pieno della bufera antiassolutista, egli rientra in Toscana con l’amico Cesare (Carlo Ninchi) che ama insidiare soprattutto le mogli altrui. Ospiti presso la cugina di Grazia, Carlotta (Giuditta Rissone) e suo marito, il timoroso avvocato Piccoli (Viarisio), nascono equivoci a catena (temendo l’espansivo “Casanova”, l’avvocato presenza Grazia come propria moglie... ), poi felicemente risolti.
Come si nota è sempre il gioco delle due coppie, con in più il contesto ottocentesco messo in scena secondo mediocre modalità teatrali. Amo te sola procede stancamente e non possiede il moderno brio di Tempo massimo; al film manca, inoltre, la suggestiva ambientazione moderna e urbana del suo predecessore. Dialoghi prevedibili, qualche canzone inserita per allungare inutilmente il racconto e attori solo dignitosi rendono deludente il lavoro.
L’anno seguente Mattoli firma Sette giorni in un altro mondo (giu 1936; 70 min.), pellicola basata su una sceneggiatura di Aldo De Benedetti molto simile a quella della sua recente commedia Non ti conosco più (1932; vedi sotto).
Il ricco industriale Sormani (Armando Falconi) fa credere alla moglie di dovere passare una settimana ad Oslo, mentre in realtà si reca da un’amante nelle vicinanze di Roma. Il suo perfido aiutante (Enrico Viarisio), scoperto l’inganno, prepara una burla, d’accordo con la moglie del protagonista: lo fa passare per morto (a causa di un incidente ferroviario norvegese). Quando Sormani rientra, dopo una pessima vacanza (l’amante si era nel frattempo sposata con un dottore gelosissimo e tirannico), deve affrontare la penosa situazione. Farà non poca fatica a rimettere le cose a posto.
Nonostante la bravura degli attori, il film, decisamente teatrale, basato su poche trovate, ripetitive e neanche troppo originali, annoia presto. In questa Italia fascista, quasi “imperiale”, ci si diverte ancora con simili raccontini, evidentemente destinati ad un pubblico popolare, ingenuo e prevalentemente femminile (visto il carattere domestico/sentimentale della narrazione). La censura deve tollerare una certa amoralità del racconto (il marito che tradisce abitualmente l’opprimente consorte), la quale viene comuque situata nei ranghi dell’alta borghesia, classe sociale di cui il regime ama parlare male.
Pochi mesi dopo Mattoli mette in pellicola (con alcuni piccoli cambiamenti) la commedia teatrale teatrale di Salvator Gotta, La damigella di Bard (set 1936; 80 min.) che aveva ottenuto nel febbraio dello stesso anno un solenneplauso al teatro Alfieri di Torino. In entrambi i casi - pellicola e testo teatrale - si tratta di un successo personale della straordinaria Emma Gramatica in una delle sue migliori interpretazioni.
La damigella del titolo è una vecchietta inerme e dotata di una stupenda nobiltà interiore la quale, ultima rappresentante di un casato un tempo potente ed ora (nella Torino del 1920) in rovina, viene progressivamente spogliata di ogni suo avere dal marchese di Pombia (Luigi Cimara) e dal suo perfido servitore, il ragioniere Pacotti (Armando Migliari). Dapprima la donna deve abbandonare il piano nobile del proprio stabile, poi anche il secondo piano per finire in un fredda soffitta dell’elegante palazzo dei Bard. Nel frattempo la figlia del marchese di Pombia, amica della damigella, si innamora di un onesto ingegnere, privo però di nobile lignaggio e, pertanto, rifiutato dall’ottuso marchese. Si scoprirà, alla fine, che l’innamorato è addirittura un appartenente alla casata Bard e il marchese Pombia, nel frattempo caduto in rovina, dovrà ora accettarlo come futuro genero.
Gotta, scrittore saldamente legato al regime, tratteggia con grande finezza l’ideologia piccolo borghese dell’era mussoliniana con questo magnifico ritratto di uan nobildonna decaduta, vittima di un contesto artificioso e deprecabile al quale viene contrapposto l’ambiente onesto, pulito e generoso della sua servitù e soprattutto dell’ingegnere, nobile inconsapevole. La damigella vive in una sorta di universo onirico: per lei il tempo si è fermato alcuni decenni prima, quando si innamorò del Costantino Nigra (potente Gran maestro del Grande Oriente d’Italia ed importante patriota, assai vicino a Cavour) con il quale era rimasta in costante rapporto epistolare e del quale decanta, durante tutto il film, le qualità umane.
Intorno alla nobildonna infuria la gretta avidità dei Pombia alla quale la donna riesce ad opporre solo un gentile sorriso. Rassegnata alla prorpia sorte in un universo morale afflitto da una rapacità senza scrupoli (siamo, anche se per pochi mesi, prima della rivoluzionaria marcia su Roma), segno di un’epoca in cui si bada più ai titoli nobiliari (il film mostra una Torino rigidamente classista) che alla reale capacità del singolo. Insomma la parabola morale della damigella si colloca tra un passato nazionale eroico (quello risorgimentale, rappresentato dal Nigra) ed un futuro altrettanto “avventuroso” (l’era fascista), all’interno di un’epoca transitoria, dominata dall’affarismo imbelle e guardata con evidente antipatia. Emma Gramatica, forse mai così brava, oppone la propria interiore e incorruttibile nobiltà d’animo a quell’universo che attende la propria “redenzione” dall’arrivo dell’ “uomo della provvidenza”.
Il successivo film di Mattoli, L’uomo che sorride (dic. 1936; 70 min.) è la fedele trasposizione in imamgini della commedia omonima (1935; con il sottotitolo La bisbetica domata in altro modo) in tre atti di Luigi Bonelli e Aldo De Benedetti. Il lavoro aveva riscosso un buon successo sulle scene (Vittorio De Sica era l’interprete principale con Giuditta Rissone) ed ora trova anche una simpatica verisone filmica in cui all’ottimo de Sica si affianca Assia Noris nel ruolo di Adriana, la bisbetica.
L’intreccio ricalca quello celebre di Shakespeare (che nel 1942 avrà un’altra, modesta versione cinematografica firmata da Poggioli, in attesa di quella sontuosa di Zeffirelli con la coppia Taylor-Burton), con una fondamentale variante: Petruccio è divenuto Pio ovvere un uomo mite e arrendevole che riesce a domare la spigolosa e insopportabile moglie accontentandola in tutto e mostrandole, con una curiosa serie di trovate (annotando le sue precise parole o addirittura registrandole), che ella si contraddice continuamente. Perfino il tentativo della donna di inscenare una relazione con Dino, l’ex fidanzato (Umberto Melnati), viene assecondata dall’imperturbabile marito che arriva ad invitare a casa propria il presunto rivale. Nel finale la donna, esasperata, cede e si sottomette agli ordini dell’uomo.
Sebbene la ripetitiva vicenda sia poca cosa, la bravura di tutti gli interpreti (c’è anche un gustoso Enrico Viarisio nel ruolo del padre di Adriana) e la vivacità dei dialoghi tiene costantemente desta l’attenzione. L’uomo che sorride è, dunque, teatro filmato come la maggior parte delle commedie di quegli anni, ma che, per una volta, si appoggia su un testo ben scritto. Se manca in questo lavoro il consueto scontro tra una piccola borghesia operosa ed un’aristocrazia sciocca e nullafacente, vi si trova però una simpatica variante della battaglia dei sessi nel quale gli autori non hanno dubbi nel dipingere la bisbetica come una figura velleitaria e inconcludente, che causa danni di ogni genere nel suo volere infrangere l’ordine naturale delle cose (la famiglia patriarcale), la quale trova la propria felice risoluzione solo allorchè accondiscende a rientrare nell’ordine costituito, obbedendo al consorte. La rigida visione patriarcale del regime mussoliniano trova l’ennesima conferma, appoggiandosi nientemeno che a Shakespeare, passando per due scrittori in auge durante il ventennio.

Dopo la versione di Gustavo Serena del 1916, Nunzio Malasomma filma per la seconda volta La cieca di Sorrento (apr. 1934; 70 min), ispirato molto liberamente al noto romanzo (1852) di Francesco Mastriani, di cui si semplifica l’intreccio.
Nella Napoli del 1834 la bambina Beatrice assiste impotente all’omicidio della madre e, per il trauma, diviene cieca. Divenuta adulta (Dria Paola) viene operata agli occhi da Filippo (Corrado Racca), figlio del presunto assassino, giustiziato al tempo del delitto, si innamora del suo guaritore e, riacquistata la vista, riconosce in Ernesto (Dino Di Luca), il vero assassino.
La pellicola è girata con decoro e senso del ritmo; gli attori sono quasi tutti convincenti (si nota soprattutto una giovane Anna Magnani nel ruolo dell’amante dell’assassino) e la tecnica filmica ricorda ancora l’epoca del muto, giocando le sue carte migliori nei primi piani e nel gioco degli sguardi, spesso sovraccarichi. La prima parte inserisce anche elementi risorgimentali (la vittima incolpevole accetta di farsi giustiziare per coprire gli amici patrioti), assenti nel romanzo, ai quali si guarda positivamente, con l’abituale sguardo nazionalistico che caratterizza il cinema del regime. In generale l’intera operazione è volta a generare il tipico ottimismo fascista: gli atti criminali vengono circoscritti (ad un unico colpevole) e semplificati; inoltre essi vengono ampiamente riequilibrati sia dall’opera redentrice del giovane dottore (tipica figura di piccolo borghese operoso e onesto, stereotipo del cinema del ventennio), sia dai riferimenti alla lotta patriottica delle sette liberali nel contesto borbonico. Lo spettacolo cinematografico deve educare ed infondere fiducia in quegli anni; soprattutto non deve infangare eccessivamente il contesto nazionale, mettendo in scena intrecci confusi e sanguinari, tipici invece del romanzo d’appendice ottocentesco.
Seguiranno altre due versioni cinematografiche (Gentilomo, 1953; Nostro, 1963).
Ancora un testo letterario si trova in Non ti conosco più (gen. 1936; 70 min.), versione filmica della fortunata commedia (1932) di Aldo De Benedetti. La regia di Malasomma consiste in un dignitoso teatro filmato (gli esterni sono praticamente inesistenti) in cui gli attori appaiono ben diretti e valorizzati.
Scoperto il marito (Enrico Viarisio) che amoreggia con la dattilografa (Ninì Gordini Cervi), la moglie (Elsa Merlini) decide di impartirgli una lezione: dapprima finge di non riconoscerlo, poi “individua” nel medico (Vittorio De Sica), chiamato dallo sconcertato coniuge, il proprio marito. La situazione genera confusione e soprattutto paura nel vero consorte, poiché il gioco della donna si spinge quasi fino alle estreme conseguenze. Nel finale tutto si aggiusta, la dattilografa viene licenziata, il medico intuisce la commedia e la moglie finge di rinsavire.
Il testo è un lavoro di mero intrattenimento, animato da buone battute anche se eccessivamente prevedibile e monocorde. L’unico momento che rivela lo spirito del tempo è la tirata della protagonista contro i celibi, parassiti della società cui si contrappone l’auspicio di una legge che preveda il matrimonio obbligatorio entro i venticinque anni. L’atteggiamento è ironico (all’epoca esisteva la tassa sul celibato) e tuttavia illumina la tendenza del periodo a incentivare, con ogni mezzo, il matrimonio inteso quale strumento atto a rafforzare la nazione tramite la nascita di una numerosa prole.
Esiste una seconda versione filmica (1980) del testo di De Benedetti firmata da Sergio Corbucci, con Monica Vitti, Johny Dorelli e Luigi Proietti, decisamente più scialba e anacronistica, troppo statica, verbosa e recitata in modo sommario.

Un’altra trascrizione di un testo teatrale è Il paraninfo (ott. 1934; 75 min.) girato da Amleto Palermi, basandosi sulla comemdia teatrale Lu paraninfu (1914) di Luigi Capuana ed avente come protagonista il comico siciliano Angelo Musco, già interprete del testo sui palcoscenici italiani.
Come recita il titolo, la commedia verte intorno alle gesta del paraninfo Don Pasquale, ex militare in pensione, cui principale passione è combinare matrimoni nel suo piccolo paesino siciliano. Qualche coppia lo ringrazia, qualche altra - in lite perpetua - lo maledice e vorrebbe addirittura vendicarsi. Dopo una lunga presentazione del personaggio, il racconto racconta un nuovo, doppio matrimonio combinato da Don Pasquale che, dopo numerosi battibecchi, va in porto.
Il film, recitato in modo sommario, privo di battute e situazioni realmente divertenti, si trascina stancamente allineando stereotipi prevedibili. Gli ambienti paesani, alquanto miseri, aggiungono desolazione all’insieme. Resta solamente una velata ironia intorno al furore nazionale del regime mussoliniano che impone a tutti di accasarsi e filiare, pena la ben nota tassa sul celibato; ma si tratta di un tema appena sfiorato come pure quello della paura femminile di non riuscire a trovare un fidanzato grazie al quale sfuggire alla noia domestico-familiare.
Un anno dopo la coppia Palermi-Musco ritorna con “Fiat voluntas dei” (ott. 1935; 75 min.) ispirato all’omonima commedia (1923) di Giuseppe Macrì, di cui Musco era stato, a lungo, autorevole interprete.
L’operina, gentile anche se poco sorprendente, racconta le peripezie di don Atanasio (G. Musco), curato di campagna troppo buono e comprensivo, di cui si approfittano le donne del posto. La figlia di un’altezzosa aristocratica cerca l’aiuto del pover’uomo affinchè la madre le lasci sposare il figlio di un sanguigno e orgoglioso macellaio; un’altra paesana, rivale in amore della precedente si è fidanzata, per capriccio, ad un appassionato di caccia ed ora non sa come liquidarlo; infine una terza abitante del piccolo paesino si lamenta col sacerdote del marito che insegue altre gonnelle. Gli equivoci sono numerosi, qualcuno anche divertente (il parroco deve vegliare un’intera notte - ricorrendo a canti “litrugici” -  un bimbo di pochi mesi, dimenticato nella sacrestia dalla moglie gelosa), sebbene molte siano anche le pagine stucchevoli. Si giunge al lieto fine in cui tutte le vicende si accomodano secondo buon senso e il paese acclama il suo beneamato parroco factotum.
Musco è realmente bravo e la sua interpretazione ricca di sfumature che vanno dagli scoppi d’ira alle prediche bonarie, fino ai momenti di prudenza timorosa (in cui don Atanasio rimanda certamente a don Abbondio) è certamente l’unico reale motivo per visionare questa convenzionale pellicola che non offre molto altro.
La musica è generica e l’ambientazione rurale scivola nel cartolinesco. Dal punto di vista ideologico possiamo notare l’immancabile  critica all’ “inutile” universo aristocratico e una notevole attenzione alla centralità della funzione del parroco quale punto di riferimento per dirimere questioni familiari di varia natura. Il testo teatrale di Macrì, evidentemente elogiativo del mondo cattolico, si inseriva tra i tanti segnali dell’imminente Conciliazione (1929) tra fascismo e Santa Sede.

Gennaro Righelli dirige i fratelli De Filippo in Quei due (gen.1935; 80 min,), trascrizione filmica di di scenette ricorrenti del teatro di Eduardo De Filippo dei primi anni trenta. Al centro della narrazione episodica vi sono i due comici nullafacenti, allergici al lavoro, assillati dalla fame e dai debiti; accanto a loro si trova una seducente Assia Noris. La loro comicità, statica e ripetitiva, di impianto rigorosamente teatrale, soffre nel realismo delle immagini filmiche (non vi sono esterni, il che accentua il carattere atemporale e “fiabesco” delle vicende) e il tentativo di copiare movenze e smorfie chapliniane non aiuta la coppia. L’umorismo appare generico e stucchevole mentre il divertimento risulta inesistente. Nè questo cinema, derivato dalle scenette della rivista, così astratto e caricaturale, appare significativo di una realtà sociopolitica. Totò ripeterà, con maggiore estro, i medesimi siparietti negli anni quaranta e cinquanta, in un’Italia via via differente e in divenire. Si tratta, in questo modesto film, di teatro autoreferenziale.
Nel primo episodio, ispirato al testo teatrale Sik -Sik l’artefice magico (1930), la coppia improvvisa scalcinati numeri di magia per un pubblico popolare; nel secondo finisce in un istituto di pazzi, alla mercè di un folle omicida (Lamberto Picasso) e nel terzo i due comici assistono allo sbocciare dell’amore tra Assia Noris ed un vicino violinista (Maurizio D’Ancora).
La pellicola non riscosse alcun successo.
Molto meglio vanno le cose a Righelli con L’aria del continente (nov. 1935; 75 min.), anch’essa una trasposizione teatrale dall’omonima e spiritosa commedia (1915) di Nino Martoglio che venne salutata da un notevole successo due decenni prima. Sul palcoscenico c’era Angelo Musco; sempre il grande attore siciliano conferisce vivacità e valore a questa versione cinematografica.
Don Cola Duscio (A. Musco), agricoltore siciliano, va a Roma per problemi di salute; lì si incapriccia di Milla, una disinibita ballerina (Leda Gloria) che diviene presto la sua amante. La giovane intontisce il malcapitato con balli moderni e mezze frasi in francese fino al punto di convincerlo a portarla con sè in Sicilia. Qui ovviamente la presenza di Milla dà scandalo: emarginata dalla conservatrice società siciliana, diviene però presto l’oggetto di attenzione maschili che sembra non disdegnare. Quando finalmente Don Cola scopre che la presunta ballerina romana è in realtà un’avventureira originaria di Valguarnera Caropepe (in dialetto Carrapipi; attualmente in provincia di Enna) la caccia di casa senza chiederle ulteriori spieazioni: la sua falsa identità spiega già tutto. L’uomo ritorna alle sane tradizioni rurali sicule che aveva momentaneamente accantonato, a causa dell’ “aria del continente”.
La commedia, non particolarmente originale nel soggetto, è però scritta con gusto e interpretata con simpatica esuberanza da Musco e dagli altri attori. La sua riproposizione a metà degli anni trenta risulta in linea con le tesi del movimento culturale di Strapaese ed in generale con la valorizzazione delle campagna che la politca mussoliniana ha adottato da tempo. Nella visione del duce i valori nazionali - famiglia, lavoro, razza - vengono meglio posti in essere e difesi dalle comunità rurali mentre la borghesia cittadina - soprattutto quella delle grandi metropoli - appare sempre più compromessa con la modernità e con le novità culturali francesi ed americane. Non a caso tutti gli elementi negativi che Milla porta con sè, tra moda, balli, permissivismo sessuale e tendenze femministe, hanno caratteristiche parigine o statunitensi. Don Cola viene quindi descritto come un ingenuo dapprima plagiato dalle falsità metorpolitane, poi bruscamente rinsavito e tornato in sè. In qualche modo questo cinema conservatore e rurale si colloca agli antipodi di quella radicata ed eterna corrente hollywoodiana (la si riscontra dall’epoca del muto ai giorni nostri; si veda ad esempio la insopportabile, caricaturale descrizione delle piccole comunità anticomuniste nel recente Il ponte delle spie, Spielberg, 2015) che elogia il modernismo ugualitario delle grandi città e depreca la presunta ottusità culturale delle popolazioni dei piccoli centri urbani (l’astioso disprezzo del sistema mediatico nei confronti di Donald Trump e del suo elettorato popolare, ne è l’ennesima riconferma) .
Nel successivo Amazzoni bianche (lug. 1936; 80 min.), Righelli rientra nella mediocrità firmando una commediola stucchevole incentrata su un gruppo di giovani sciatrici in vacanza (in occasione di una gara di velocità sulla neve). Una di queste (Maria Barbara) incontra in albergo il proprio ricco marito (Sandro Ruffini), sempre in viaggio per affari. Inizia una prevedibile commedia degli equivoci basata su gelosie e ripicche di cui è inutile dar conto, commedia che terminerà con l’altrettanto prevedibile lieto fine. Tutto è fasullo e tedioso in questa vicenda che si vorrebbe unoristica e che allinea, tra l’altro, attori di tutto rispetto come Enrico Viarisio, Mario Pisu e Doris Duranti.
Il contesto, che si vorrebbe giocoso e spensierato, non offre spunti di riflessione: tutti i personaggi sembrano vivere in un universo astratto e manca il consueto confronto ideologico tra piccola borghesia semplice e fattiva e aristocrazia nullafacente. Qui tutte le figurine appaiono bidimensionali ed inconsistenti come quelle di un teatro di marionette.
Righelli torna a collaborare con Angelo Musco subito dopo, con la trasposizione filmica Pensaci Giacomino (set. 1936; 80 min.) della nota commedia teatrale (1916) di Pirandello.
Il bistrattato professor Agostino Toti prende in moglie la giovanissima e umile Lillina, la quale è stata messa in cinta dall’amante Giacomino. Quest’ultimo, benestante e poco sensibile, si trasferisce altrove e si disinteressa della sorte della giovane e del suo figlioletto. Con lo scandaloso matrimonio Agostino ha voluto solo dare un tetto alla giovane, con la quale vive come se fosse suo padre, nonchè il nonno del bambino. Nel finale Giacomino trova la forza di ribellarsi alla famiglia e di sposare Lillina dopo che le nozze, non consumate, sono state annullate.
Nella commedia la conclusione è meno chiara e consolatoria: il professore ingiunge al giovane di evitare il fidanzamento con una nuova venuta e lo prega di rimanere fedele a Lillina e a suo figlio; nella scena finale risuona più volte il monito “Pensaci Giacomino” e infine il testo chiude con una fulminante battuta anticlericale rivolta  a un sacerdote, amico della famiglia di Giacomino, che consiglia il giovane di abbandonare Lillina e suo figlio al loro destino. Di fronte a questa cecità umana e spirituale il professore esplode in un “Vade retro! Distruttore delle famiglie! Vade retro!” e allorchè l’uomo di chiesa accenna un “Giacomino, io credo...” Toti risponde, secco: “Che crede? Lei neanche a Cristo crede!”. Questa scontro manca nel film dove la figura del sacerdote appare, nel finale, più sfumata e accomodante.
Pirandello lavora sulle maschere, sulla necessità di conciliare obblighi sociali (la “recita” pubblica) ed esigenze del sangue (il figlio senza un reale padre), convenzione e realtà più profonda. Il film di Righelli, che appartiene all’era post-Conciliazione (1929), tratta con più rispetto il sacerdote, inventa un annullamento del matrimonio che risolve in maniera più lineare i conflitti e sottolinea, come sempre, l’avversione del regime per una borghesia agiata e ipocrita, immobilista e attenta innanzitutto alle apparenze sociali (la famiglia di Giacomino). Toti e Lillina sono invece gli eroi, personaggi umili e semplici, ricchi di schietta energia vitale, che si attengono alle regole della natura e del cuore; in particolare Righelli difende strenuamente il tema della maternità ovvero, in quel contesto, della nazione e della razza, dinanzi a qualunque altra problematica attinente ai calcoli di sapore classista della famiglia di Giacomino. Il fascismo faceva propria una visione pagana e laica della maternità, considerata un valore sopra tutti gli altri; in tal senso l’ideologia del regime faceva emergere quel ribellismo ugualitario che ne costituiva il segreto substrato, reminiscenza evidente del giovanile ventennio socialista del suo fondatore.
Il cinema di regime attinge ai testi letterari interessanti e validi, riuscendo, tuttavia, ad armonizzarli alla propria visione della “nuova Italia”, nata dalla rivoluzione del 1922.
L’interpretazione di Angelo Musco è ammirevole e basterebbe ciò per fare del film un documento di grande importanza. D’altronde l’attore siciliano fu il primo interprete teatrale (Roma, lug.1916) del lavoro pirandelliano che, certamente grazie anche a lui, riscosse fin dall’inizio un notevole successo.
Negli stessi giorni esce un’altra trascrizione filmica di Righelli di un testo teatrale interpretato sulle scene da Angelo Musco ovvero Lo smemorato (set. 1936; 80 min.), dall’omonima commedia (1929) di Emilio Caglieri. Il testo, interpretato in modo ineccepibile dal comico siciliano, possiede forti venature pirandelliane.
Il tipografo Domenico (A. Musco) vive oppresso da una bisbetica moglie e da una suocera anche peggiore; in particolare le due donne obbligano l’uomo a sopportare in casa e soprattutto finanziare i capricci del cognato, un pugile in erba che si sente lanciato verso grandi orizzonti e che in realtà è un brocco di cui si approfittano in molti (la situazione verrà ripresa e sviluppata nel magnifico Mi permette babbo, Bonnard, 1958; con Sordi cantante lirico osteggiato dal suocero Aldo Fabrizi, di professione macellaio). Stanco di tutto Domenico fugge al mare e qui incontra Erminia (Paola Borboni), una stravagante milionaria che finge di riconoscerlo in Ruggero, l’ex marito recentemente deceduto. Domenico sta al gioco e interpreta il ruolo per un lungo periodo, lasciando di stucco la cerchis familiare che invano lo reclama. In seguito egli tornerà a casa, mantenendo però i modi di fare autoritari e decisi del milionario Ruggero.
Come nel pirandelliano Il fu Mattia Pascal, Domenico muore e rinasce, cambia identità, gioca con differenti maschere fin quando non ristabilisce il controllo sulla famiglia ed ottiene il dovuto rispetto. Anche in questo caso Righelli si allinea alla politica culturale fascista, descrive la cerchia aristocratica di Erminia come un luogo di vacue follie che stupiscono il povero Domenico, unico personaggio positivo del racconto, uomo semplice, lavoratore instancabile e schietto, insensibile alle vanità della ricchezza (Erminia) e della fama (il mondo della boxe).
L’insieme del racconto filmico è spigliato e divertente: ancora una volta, tuttavia, il valore assoluto del film è racchiuso unicamente nella recitazione di Angelo Musco mentre tutti gli altri attori funzionano come un gruppo di comprimari tesi a confrontarsi con la mimica mutevole e seducente del mattatore.

Sempre Angelo Musco è il protagonista assoluto de Il re di denari (ago. 1936; 85 min.), trascrizione filmica di Enrico Guazzoni della commedia teatrale I Don (1927) di Pippo Marchese.
Una coppia di milionari siciliani, fratello (Angelo Musco ovvero Don Paolo) e sorella (Rosina Anselmi ovvero Grazia), scoprono che il nipote (Mario Pisu), studente a Roma, ha messo nei guai una giovane di nobili origini. La coppia, affezionata al ragazzo, corre in suo aiuto: nella capitale incontra gli sprezzanti parenti della giovane, altezzosi e fortemente indebitati, gente che si mostra dapprima indisponibile a qualunque accomodamento. Poi, scoperta l’enorme ricchezza dei “burini” soculi, cambia radicalmente idea. Don Paolo paga tutte le cambiali dei nobili e ottiene finalmente il loro rispetto. Lieto fine per tutti.
La commedia è alquanto prevedibile: al di fuori dell’interpretazione del comico siciliano c’è ben poco da vedere. La pellicola, tuttavia, riconferma per l’ennesima volta la politica antiaristocratica del regime. I parenti della giovane vengono descritti con evidente antipatia mentre don Paolo, possidente terriero di semplici origini e scarsa “cultura”, si accattiva tutte le simpatie grazie alla sua enorme generosità e alla sua dirittura morale che antepone la felicità dei giovani e la loro intenzione di sposarsi (di contribuire, con la futura figliolanza, alla forza della nazione... tale significato è presente in alcuni dialoghi) ai pregiudizi nobiliari dei parenti della ragazza (la quale, dopo lo scandalo, è stata prontamente relegata in un collegio cattolico).

Mario Camerini contribuisce a questo genere di commedia leggera con Darò un milione (set. 1935; 75 min.), utilizzando una sceneggiatura di Cesare Zavattini e Ivo Perilli.
La vicenda semifavolistica, ambientata in Francia, descrive i crucci di un miliardario annoiato (un ottimo Vittorio De Sica), il quale si finge povero: aiuta un poveraccio (Luigi Almirante) che sta per suicidarsi e si lega ad una fanciulla ingenua (Assia Noris) che lavora in un circo. Nel frattempo gira voce che questo miliardario in incognito elargirà un milione a chi denoterà buon cuore, facendo disinteressate opere di carità. L’intera popolazione del piccolo villaggio diviene così ipocritamente servile e anche nel circo, i cui numeri occupano larga parte del già breve filmetto, parte la caccia al riccone. Mentre il caos aumenta (viene individuato un falso miliardario), la coppia amorosa, dopo gli obbligatori malintesi, convola a felici nozze.
Il racconto puerile dovrebbe ammantarsi di grazia fiabesca (alla Renè Clair) e invece affonda in un mare di noiose macchiette bidimensionali; l’unico elemento degno di nota è la qualità artistica dell’interpretazione di De Sica. La pellicola descrive un’umanità vuota e un po’ meschina, lontana dagli standard del piccolo borghese operoso e leale, idealizzato dal fascismo. Pertanto la vicenda viene spostata nella vacua Francia, una nazione che, in genere, viene descritta come decadente e prigioniera di una falsa democrazia. La cornice è quella della consueta aristocrazia sfaccendata, bersaglio preferito del regime che cerca di indebolire il “nemico di classe” (le cerchie nobiliari, strette intorno al re) ed anche di preparare il popolo ad una eventuale svolta antimonarchica, di tanto in tanto vagheggiata, che liquidi i Savoia e lasci Mussolini unico arbitro dei destini italici.
Nel 1938 Walter Lang gira il remake hollywoodiano del film di Camerini, intitolato I’ll give a Million (inedito in Italia); nel cast figura Peter Lorre nel ruolo dell’aspirante suicida.
Pochi mesi dopo Camerini torna a girare una commedia con De Sica ovvero Ma non è una cosa seria (mar. 1936; 70 min.), ispirata all’omonima commedia teatrale (1918) di Pirandello. L’importante fonte letteraria dovrebbe garantire un livello alto della pellicola che, invece, si limita a riproporre i soliti vacui bamboleggiamenti amorosi.
Memmo Speranza (Vittorio D Sica), il solito benestante annoiato, è affetto dal morbo di Don Giovanni: vive per le donne e vorrebbe sposarle tutte. Così si mette continuamente nei guai: promette di coniugarsi con la prima venuta e, pochi giorni dopo, si fidanza con un’altra. Per porsi al riparo da se stesso decide di sposare (per finta) l’innocua Gasparina (Elisa Cegani), una locandiera senza pretese che, affascinata dall’uomo, accetta l’accordo. Il girotondo continua fino a quando Barranco (Ugo Ceseri), uno spasimante di Gasparina, mette alle strette Memmo che, commosso dalla semplice popolana, decide di rendere “seria” la loro unione coniugale.
Il testo di Pirandello - uno dei suoi lavori minori -  tratta dell’angoscia dell’uomo in balia delle proprie pulsioni erotiche; al contrario il film, che si rivolge a una platea più popolare, indugia sulle solite indecisioni sentimentali all’interno del consueto dualismo fascista tra classi alto borghesi ipocrite e nullafacenti (i conoscenti di Speranza) e classi popolari sincere e schiette (l’universo della locanda). Sarà la rappresentante di questo differente mondo ad averla vinta e a piegare a sè il vanesio Memmo. In tal senso la scelta di questa commedia si scopre perfettamente allineata alla visione populista del regime e alla sua abituale esaltazione della classe piccolo borghesi. Si noti, tuttavia, che la commedia di Pirandello non propone, nel modo più assoluto, quel dualismo e si svolge quasi interamente nell’ambito della locanda di Gasparina e del triangolo esistente tra il marito “poco serio”, la moglie e Barranco.
Il problema centrale della commedia pirandelliana rimane il tentativo di Memmo di edificare una maschera difensiva (il finto matrimonio) dietro alla quale poter dare sfogo al proprio incontrollabile desiderio, un desiderio al quale l’individuo maschile soggiace e di cui è, di fatto, prigioniero. In tale visione scompare, almeno in parte, il carattere gioioso dell’erotismo. Camerini diluisce l’argomento, lo riduce alle abituali schermaglie amorose e, soprattutto, aggiunge al testo dello scrittore il consueto atteggiamento dispregiativo nei confronti dell’alta borghesa italiana: la gratuità di questo inserimento conferma la linea della politica del regime, ruvida e aggressiva nei confronti delle classi agiate vicine alla monarchia.

Con Anonima Roylott (giu.1936; 70 min.) Matarazzo mette in immagini l’omonima commedia (1933) di successo di Guglielmo Giannini (di lì a poco anch’egli regista; più avanti fondatore del partito politico de “L’uomo qualunque”), basandosi su una sceneggiatura di quest’ultimo.
La vicenda è sostanzialmente un poliziesco ambientato negli Usa, ispirato ai romanzi di Agatha Christie e di S.S. Van Dine che, editi da Mondadori, avevano ampio successo in quegli anni. I fratelli Royltt (Carlo Lombardi e Italo Pirani), a capo di un’industria farmaceutica, sono due perfidi avvoltoi: assoldano ingegneri di talento (tra cui Giulio Donadio) che assogettano per pochi soldi, appropriandosi delle loro scoperte scientifiche. Un misterioso assassino li ammazza entrambi; un brillante poliziotto, ispirato al Philo Vance de La strana morte del signro Benson (Van Dine 1926), smaschera il colpevole (una delle tante vittime della coppia tirannica).
La pellicola, per quanto abbastanza originale nel panorama filmico coevo, soffre della sua derivazione letteraria: infiniti dialoghi, tutti rigorosamente in interni, si susseguono con effetti di tediosa pesantezza (nonchè di totale inverosimiglianza), mentre i fatti si aggrovigliano a causa del numero eccessivo di personaggi ed eventi, tutti piuttosto generici e sfocati. La goffa ambientazione statunitense, obbligatoria nella politica culturale fascista che non ammette situazioni complessivamente negative nel “paradiso” mussoliniano, peggiora la situazione, creando un esito complessivamente risibile. Anche gi attori appaiono poco convinti mentre è apprezzabile il tentativo di creare un’atmosfera noir grazie ad una fotografia ricca di chiaroscuri e di effetti espressivi cupi e inquietanti.
Con il successivo Joe il rosso (ott 1936; 80 min.), Matarazzo prosegue l’eplorazione del genere poliziesco, coniugandolo con gli abituali schemi del racconto umoristico. Il film deriva dall’omonima commedia (1933) di Dino Falconi, rappresentata in quegli anni con pieno successo.
Nella solita Francia immaginaria (sarermmo nelle vicinaze di Reims), in un castello abitato dai Sandelle-Lafitte ossia una cerchia di aristocratici rincretiniti (il capofamiglia è su una sedia a rotelle, sua moglie balbetta... ), giunge dagli Usa il simpatico gangster Joe (Armando Falconi), zio della nuora (non aristocratica) Marta (Luisa Garella). La famiglia è in subbuglio poichè qualcuno ha fatto sparire un Murillo di grande valore. Joe si trasforma in un novello Poirot (lo schema narrativo dei romanzi della Christie è, di nuovo, l’evidente modello del film), mette sotto torchio tutti i “rispettabili” componenti della blasonata famiglia, scopre malefatte ed altarini inconfessabili e, alla fine, anche l’autore del furto. Scopre infine che il Murillo era in realtà una copia poichè lo smidollato capofamiglia, oberato dai debiti, aveva venduto l’originale quarant’anni prima...
La pellicola è piacevole, ben interpretata (soprattutto dall’ottimo Falconi, ma ci sono anche Luigi Pavese, Maria Denis e Ada Dondini), animata da un buon ritmo e condita da una varietà di eventi, spesso imprevedibili. L’avere spostato la narrazione all’estero consente di mettere in scena peronaggi futili e amorali, come un pestifero gigolò spagnolo che seduce cameriere e nobildonne o come la padrona di casa, sotto ricatto per le sue antiche infedeltà.
Di fronte a questo panorama dcadente di una nobiltà malfamata ed inetta - vero e proprio leitmotiv del cinema mussoliniano - perfino il gangster Joe appare un uomo affidabile, brillante e prezioso. E’ grazie a lui - figura di umile popolano che all’inizio del racconto viene accettato di malavoglia a dagli aristocratici, pur trattandosi di un parente acquisito - che tutto si aggiusta a casa Lafitte. Nel cinema di regime ci sono casi come questo in cui la cifra socialisteggiante di questi racconti filmici - presente un po ovunque sotto traccia - appare incredibilmente evidente. La gente del popolo, perfino quando conduce una vita nell’illegalità, appare infinitamente superiore alle antiche classi dominanti che il fascismo ha messo in ombra e che vorrebbe cancellare del tutto.

Giulio Bonnard si inserisce nel filone della commedia umoristica con il simpatico Trenta minuti d’amore (set. 1936; 70 min.), ritagliato su misura per il talento di Elas Merlini e Nino Besozzi. La trama, per quanto inconsistente come in quasi tutti i film sopracitati, ha il pregio di focalizzare l’intero racconto su  un’insolita, esplicita componente erotica, anche se ridotta (per necessità di censura) a un gesto di modesta portata.
La svanita Grazia (Elsa Merlini), sposata ad un agiato dentista (Enrico Viarisio), viene vista dalla perfida cognata (Anna Magnani) salire in auto con uno sconosciuto; interrogata dall’intera famiglia, che ormai si considera disonorata, confessa di stare prendendo lezioni di guida. Per dimostrare la propria bravura scende in strada e, messasi alla guida dell’auto del marito, investe un pedone (Nino Besozzi) che si rivelerà essere un suo accanito ammiratore. Quest’ultimo, conciato per le feste, chede centocinquanta milioni di indennizzo oppure un bacio lungo trenta secondi. La scottante questione viene esaminata dal consesso familiare che induce Grazia ad accettare...
La pellicola, sceneggiata da Aldo De Benedetti, illumina i tradizionali concetti di rispettabilità borghese che, fino alla “rivoluzione” degli anni sessanta, si fondavano sull’obbedienza femminile, un’obbedienza che implicava un preciso controllo dei movimenti della consorte. Pertanto già l’iniziativa di Grazia di prendere la patente di nascosto implica una sottintesa ribellione al controllo familiare; la seconda parte de raccontino, con l’esplicita richiesta di un tradimento coniugale “controllato” e assai lucroso, approfondisce questa situazione protofemminista. Il marito gestisce l’intera vicenda e, nel suo cedere la moglie per “trenta secondi”, crede di avere comunque mantenuto il controllo della situazione; in realtà ormai una falla si è aperta e tra i due “amanti” nasce un’evidente intesa...
Dietro alle smorfiette di Grazia e alle solite chiacchiere stucchevoli del consesso familiare, cova un desiderio represso, ben descritto dal subdolo testo di De Benedetti. L’insieme dei parenti altoborghesi viene dipinta come il consueto panorama di rigide mummie mentre il trasgressivo ammiratore, una sorta di figura antisistema, viene tratteggiato con evidente simpatia come pure con palese compiacenza si descrive l’indotto ribellismo di Grazia, consorte irreprensibile all’inizio dell’avventura, la quale, vistasi poco amata e addirittura strumentalizzata a fini economici, comincia a guardare con reale interesse al nuovo venuto. De Benedetti anima il racconto con un sottile femminismo in qualche modo in linea con le origini di un fascismo - quello massonico e repubblicano della prima ora (ovvero antemarcia) -  che si proponeva vitale, spregiudicato e rinnovatore, deciso avversario del conservatorismo borghese. La morale libertaria, in fondo simile a quella di tanto futuro cienma “progressista”, è invece assai meno allineata con il cinema coevo nei confronti del quale Trenta secondi d’amore rappresenta una poco appariscente ma indiscutibile deviazione etica.
De Benedetti apprezza a tal punto la propria sceneggiatura da trasformarla, l’anno seguente, in una vera e propria commedia teatrale tuttora rappresentata. A quest’ultima (oltre che al film di Bonnard) si ispira il modesto, “televisivo” rifacimento filmico di Marco Vicario in Scusa se è poco (1982), film composto da due episodi (il primo trascrive in immagini Gli ultimi cinque minuti, commedia anch’essa di De Benedetti del 1951, già filmata da Giuseppe Amato nel 1955; vedi). Il terzetto protagonista - Monica Vitti, Diego Abatantuono e Orazio Orlando - è accettabile ma l’insieme risulta fiacco e viziato da eccessi farseschi che si pretenderebbero divertenti. In ogni caso il film, ambientato nei permissivi anni ottanta, aggiorna i sottintesi erotici della vecchia commedia, trasforma i trenta secondi di un bacio nei trenta minuti di un rapporto sessuale esplicito e ridisegna  la sottomessa moglie del dentista, attribuendole la segreta attività di scrittrice di romanzi pornografici...
La pellicola successiva di Bonnard, L’albero di Adamo (dic. 1936; 75 min.), appare coerente con Trenta minuti d’amore e offre numerosi elementi di riflessione.
Vi si descrive una piccola realtà locale italiana la cui sonnacchiosa routine viene animata dall’arrivo dei conti Santori, di ritorno da una lunga e fruttuosa permanenza negli Usa. In particolare la duchessa Graziella (Elsa Merlini) si dimostra desiderosa di inserirsi nella realtà cittadina, conosce i notabili locali, tra cui si distinguono il medico Alfonso (Renato Cialente) e l’ingegnere Lorenzo (Antonio Gandusio), e non lesina complimenti entusiastici alla realtà americana, del tutto ignota alla popolazione locale. Per una serie di equivoci si diffonde la voce che Alfonso sia divenuto rapidamente l’amante della contessa; il gesto immorale, anzichè venire censurato dalla comunità, diviene oggetto di segreta ammirazione, perfino nella famiglia del medico il quale finisce per non contestare più la falsità della notizia, fino a quando la contessa non si accorge della situazione paradossale. Da un battibecco tra i presunti amanti nasce, improvvisamente, una vera relazione amorosa che si protrae, clandestina, per qualche tempo. Infine l’aristocratica riparte del l’America, dopo aver salutato con affetto l’ignara moglie (Dria Paola) del dottore.
La pellicola, posta al limitare dell’epoca filoamericana del fascismo (1922-36), è una delle ultime ad avere parole di lode nei confronti della cultura statunitense. La sciagurata e semrpe più stringente amicizia con la Germania hitleriana porterà anche il cinema fascista ad avere un atteggiamento sempre più bellicoso nei confronti della democrazia d’oltreoceano (dal 1938 sarà sostanzialmente proibito ai film americani di arrivare nella penisola). Inoltre il film di Bonnard, sceneggiato da Aldo Vergano, amplia l’accenno trasgressivo presente in Trenta secondi d’amore, finendo con il raccontare, con evidente compiacenza, una vicenda extraconiugale.
L’atteggiamento libertario degli autori si giova del già citato atteggiamento critico e aggressivo posto inessere dalla politica culturale fascista nei confronti di una borghesia agiata e “imbelle” (qui rappresentata dall’insieme dei notabili locali, compresi il dottore e l’ingegnere). Questi sciocchi provinciali - prigionieri dei loro mediocri pettegolezzi e della loro ottusa sudditanza nei confronti della gente blasonata - non ne imbroccano una: dapprima danno credito a una relazione che non esiste e poi non si accorgono della medesima quando essa diviene realtà. Di contro lo spregiudicato dinamismo “americano”, rappresentato da Graziella, travolge l’apatico borgo, criticandone il lassismo inconcludente e ipocrita. La commedia, perfettamente recitata, possiede un ritmo vivace, derivato dalla screwball comedy hollywoodiana e una serie di interessanti sottintesi “culturali” che la rendono tuttora godibile.

testo scritto nel mar.2017