Domenica d'agosto, E' primavera e Prima comunione

Domenica d’agosto, E’ primavera, Prima comunione, Miss Italia, Romanzo d’amore e Bellezze a Capri: il nuovo tenore di vita (1950-51)

                “Mi sento attratto dai film che raccontano le
                storie della gente comune....sono le storie che
                accadono tutti i giorni e i personaggi che incontriamo per la strada quelli che riconosco
                come i più consoni alla mia sensibilità...
                Del film mi premono il contenuto, il racconto,
                i personaggi...”
                Luciano Emmer (1991)

                “(guardando i bambini) Stanno benissimo, mi
                 pare, in questa colonia”
                “Sì; starebbere molto meglio con i genitori,
                ma quando non si può...”
                dialogo in Domenica d’agosto

Nell'ottobre 1949 il malcontento contadino si esprime nel centro sud con occupazioni di terre finalizzate a richiedere una decisa riforma agraria che determini una differente e più razionale redistribuzione delle risorse agricole. Solidali con tale disagio e in disaccordo con i metodi polizieschi di Scelba che approdano in veri e propri eccidi, i ministri del PSLI escono dal governo il 31 ottobre. La situazione si aggrava con le manifestazioni operaie tenutesi a Modena nel gennaio 1950 durante le quali le forze dell'ordine intervengono drasticamente, uccidendo sei persone. I dossettiani puntano ora i piedi e non entrano nel sesto governo De Gasperi (27 gennaio 1950 - 16 luglio 1951) nel quale mancano anche rappresentanti del PLI, ostile alla riforma agraria. L'esecutivo dunque è precario e il presidente del consiglio è costretto a trattare con la sinistra DC per ottenerne il sostegno parlamentare, concedendo loro la riforma agraria e la Cassa del Mezzogiorno.
L’evento internazionale più rilevante del 1950 consiste nello scoppio della guerra in Corea. Tale guerra regionale, destinata a durare fino al 1953, è il primo scontro sul campo tra il blocco comunista (URSS - Cina) e quello occidentale ed è una conferma della dottrina Truman, cosiddetta del “contenimento” (risalente al 1947), volta ad arginare le mire espansionistiche delle potenze comuniste. D’altronde proprio in quel 1950 iniziano le sedute della ben nota Commissione per le attività antiamericane la cui finalità è allontanare personaggi iscritti al PC americano o anche semplicemente simpatizzanti con esso dagli uffici pubblici e da posti rilevanti per la nazione. Tali individui sono considerati fiancheggiatori di una potenza nemica, ora addirittura impegnata a sostenere un esercito in guerra con gli USA. Sebbene il settore “liberal” - da sempre influente nei media mondiali - si stracci le vesti (e continui a farlo nei decenni a venire), l’operazione dell’amministrazione Truman è assolutamente lecita e motivata, tanto più che si limita ad allontanare dall’impiego figure sospette laddove, al di là della cortina, per i sospetti c’erano i terroristici prelevamenti notturni e i gulag senza processo. Se in URSS marito e moglie venivano “prelevati”, i figli restavano “orfani”, venivano inviati in scuole di rieducazione del partito e in seguito “affidati” a persone sicure. Ciononostante la stragrande maggioranza del mondo intellettuale continuerà a denunciare il dispotismo di Truman (un presidente democratico... ) e del senatore McCarthy - tacendo in modo reticente - lo “stile di vita” sovietico. Hollywood ovviamente - sempre pronta a ricordare il dramma del maccartismo, non si preoccuperà mai di produrre opere che denuncino l’angoscioso realtà dei gulag sovietici. Quando tratterà della Russia comunista produrrà solo l’ambiguo Reds (Beatty, 1980). Dunque truppe nordcoreane invadono la Corea del Sud nel giugno 1950; USA, Gran Bretagna ed altri paesi reagiscono su mandato ONU e intervengono al fianco di Seul.
In Italia, all’interno di una situazione politica bloccata dopo le elezioni del 1948, l’inasprirsi della guerra fredda porta con sè le paure di una possibile guerra atomica imminente e rafforza il blocco di consenso intorno alla DC di De Gasperi, dopo la combattuta adesione al Patto Atlantico (1949). Inoltre vasti settori del Vaticano, guidati dallo stesso pontefice, premono su De Gasperi per una linea politica più conservatrice, rivolta alle destre emarginate, nonché tesa a bloccare ogni accordo con i socialisti di Saragat e con i repubblicani anticlericali.
Nel marzo 1950 esce il primo numero de “Il borghese”, rivista conservatrice (in seguito neofascista) fondata da Leo Longanesi, cui collaborano Montanelli e Prezzolini. Essa contribuisce a creare una piattaforma culturale nel tentativo di spingere la DC verso destra, per farne l’alleato ideale di una risorta destra laica.
Intanto l’economia riprende, anche grazie a una saggia politica keynesista che distribuisce pensioni e sussidi, finanzia opere pubbliche e assume dipendenti pubblici; in tal modo pone le premesse per far ripartire la domanda interna e dunque la produzione industriale.
Infine viene celebrato l’Anno Santo: le manifestazioni, soprattutto a Roma, vedono l’arrivo di un numero enorme di pellegrini che culmina nella cerimonia del 1° novembre durante la quale Pio XII proclama il dogma dell’Assunzione di Maria di fronte a una folla immensa.

Luciano Emmer, nato a Milano nel 1919, si fa notare negli anni quaranta come autore di documentari, spesso di argomento artistico. L’esordio nel lungomeraggio di finzione avviene con Domenica d’agosto (febbraio 1950; 80 min.), uno dei più significativi ritratti della nuova società italiana, uscita finalmente dalle miserie del periodo bellico. Il soggetto è di Sergio Amidei, per l’occasione anche produttore, mentre la sceneggiatura vede al lavoro lo stesso regista, Franco Brusati, Cesare Zavattini e altri. La pellicola racconta con garbo e non comune sensibilità una domenica d’agosto tra Roma e Ostia. Differenti personaggi e microstorie si intrecciano in una sapiente e calibrata polifonia di voci che spazia dai ladruncoli di quartiere a presunti aristocratici, da popolani a piccoli borghesi in un affresco che possiede una carica di esuberante vitalità felicemente coniugata con un’attenta cura per il dettaglio realistico. Se alcuni hanno parlato, spesso in modo critico e malevolo, di inizio del neorealismo rosa, all’opposto bisogna invece notare che in questo calibrato affresco sociale Emmer si sforza di osservare in modo obiettivo e “da lontano” i suoi personaggi, dando luogo a un lodevole tentativo di racconto cinematografico sganciato dalle inevitabili implicazioni politiche. Dunque sebbene la mano di Amidei (notoriamente legato agli ambienti della sinistra) sia largamente evidente nella simpatia di cui godono tutti i personaggi popolari e nella critica tagliente che investe invece gli ambienti borghesi e aristocratici, dipinti come governati dalla corruzione facile, dalla avidità più meschina e da una gelida insensibilità, ciononostante la regia è attenta a mitigare i toni, evitando così di sciupare questa intensa e ammirevole commedia umana e di ridurla a mero espediente di una volgare propaganda politica.
Le vicende sono numerose e abilmente intessute. Tra i popolani (una famiglia rumorosa e un gruppo di ragazzi in bicicletta) finisce con lo stabilirsi una relazione ironica: una gentile storiella amorosa sboccia tra due di loro (Franco Interlenghi e Anna Baldini) i quali, intrufolatisi in una spiaggia per ricchi, si fingono benestanti; ciascuno cerca di ingannare il partner ma nel finale si ritrovano in borgata e, divertiti, si salutano calorosamente. Al tocco grazioso dell’amore giovanile si contrappone la storia amara di un vedovo (Emilio Cigoli) costretto ad abbandonare la figlia in colonia (per un mese) per soddisfare le esigenze della nuova, ottusa fidanzata (l’ex cognata, zia della bambina) che non vuole la piccola tra i piedi. Nel corso della giornata l’uomo capisce l’errore e in serata va a riprendere la piccola, dopo aver riflettuto sulle proprie scelte (nel colloquio con un’altra madre interpretata da Vera Carmi) e aver mandato al diavolo l’ingombrante zia (Pina Malgarini).
Il terzo gruppo di personaggi riguarda invece una cassiera (Elvy Lissiak) che abbandona  Renato (Mario Vitale), il fidanzato di borgata (poi ladro, acciuffato dalla polizia nel finale), per tentare la scalata sociale attraverso un nuova relazione amorosa con un presunto ricco (Massimo Serato). Finisce in un giro di aristocratici millantatori, non cede alle richieste sessuali di un vecchio e torna a casa proprio in tempo per vedere Renato salire sulla camionetta della polizia.
Infine la quarta e ultima storia racconta di un vigile (Marcello Mastroianni, per l’occasione doppiato da Alberto Sordi) che sta per sposarsi con una cameriera (Anna Medici); quest’ultima però, incinta anzitempo, viene messa alla porta dai ricchi e si presuppone insensibili padroni (il regista non li mostra e si limita a descriverli per il tramite della loro sontuosa abitazione). La coppia, in evidente difficoltà, tuttavia non si scoraggia.
Il ritratto di questa Italia assetata di benessere e piena di vitalità testimonia di un paese risorto dalle proprie ceneri già nel 1949 (la pellicola è stata girata appunto nell’estate 1949) nel quale però fatue manie quali le vacanze a ogni costo, il benessere come meta obbligatoria e le merci quali strumenti di esibizione della propria affermazione sociale, vanno implacabilmente affermandosi. Il consumismo americano appare così perfettamente inoculato nel tessuto vitale (i giovani ballano in spiaggia con gli obbligatori ritmi dello swing USA) sebbene una sarcastica ironia, congenita al carattere romanesco dei personaggi, tende in definitiva a non prendere troppo sul serio le nuove mode. In una gustosa sequenza, solo apparentemente secondaria, due “robusti” popolani entrano in acqua per pochi secondi nel mezzo del frastuono di una massa di “indemoniati” bagnanti per uscirne subito dopo, non prima di avere commentato tali usanze come una sciocchezza per adolescenti. In fondo l’immagine della nuova Italia è proprio quella dell’adolescente esuberante e un po’ scemo: una massa felice e ingenua, decisa ad acchiappare ad ogni costo e a qualunque età una sorta di nuova giovinezza, dopo la buia tragedia della guerra. Il commercio onnipresente, la pubblicità ossessiva (la sequenza dei volantini sparsi da un aereo), l’ansia di avere e di mostrare, la ricerca spasmodica di un alto tenore di vita ci raccontano la nascita di un’Italia vivace e un po’ puerile, spesso pronta a tutto per ottenere quello che vuole; insomma un’Italia “moderna”, edonistica e priva di remore. In essa tuttavia gli alti esempi morali del vedovo che decide di passare le ferie con la sua bambina e del vigile che, in una Roma deserta, si preoccupa esclusivamente dell’avvenire della propria famiglia (della moglie e del nascituro), riequilibrano l’affresco e mostrano come una parte ampia della popolazione non si sia ancora fatta annebbiare dalle false e banali luci del materialismo.
La coraggiosa immagine di un Italia felice e appagata, che si lamenta ma solo per piccole cose, senza minimamente mettere in discussione il sistema sociale nella sua globalità, annuncia un “terribile” evento: la rivoluzione comunista è un fatto archiviato, perfino tra i ceti popolari. Il “neorealismo”, con le sue artefatte denunce e la sua facile demagogia, peraltro completamente trascurata dalle masse di spettatori cinematografici, tramonta lasciando dietro di sè una scia di irritazione tra la nomenclatura culturale della sinistra che ha tanto investito in quello strumento e che si trova ora collocata ai margini della cultura filmica. Emmer tra l’altro si professa appartenente “all’area social-comunista”; ciononostante la sua attenzione schietta, “documentaristica” e semplice agli eventi del quotidiano approda (forse in modo inconsapevole) a un immagine complessivamente serena e confermativa dell’esistente. Lo ribadisce la significativa sequenza dell’improvvisa apparizione di un campo minato sulla spiaggia: per un attimo la vicenda gentile dei due giovani, ostacolati nella corsa di rientro verso il proprio stabilimento balneare, viene come oscurata da tristi ricordi; ma è solo un attimo: i due ragazzi trovano subito il modo di aggirare l’ostacolo, senza troppo rifletterci. Allo stesso modo il film di Emmer sembra aggirare e relegare nel passato una serie di ferite di cui restano indubbie cicatrici (come quel campo minato) ma che è ormai tempo di lasciarsi alle spalle.
In modo del tutto coerente con la sua opera il regista dichiarerà: “Io non mi sono mai posto il problema se fare un cinema <impegnato>...non ho mai immesso nessuna conclusione, nessuna indicazione ideologica nei miei film” (1991). Emmer implicitamente ci dice che, a differenza del suo cinema spontaneo, quello “di sinistra” era un cinema prefabbricato e a tesi; aggiunge infatti che la critica “impegnata” maltrattava i suoi lavori per questo: “essi venivano considerati superficiali poiché non contenevano elementi appositi per trarre una morale”. Insomma, nel suo linguaggio senza fronzoli Emmer finisce col sottintendere che il neorealismo anziché una corrente artistica è stato lo strumento di una politica culturale che cercava di portare (con ogni mezzo) l’elettorato a sinistra.
Se ne accorge tra gli altri il critico Pietro Bianchi che difende Emmer scrivendo: “Egli porge con una dignità e una perizia tecnica che nessuno, per fortuna, finora gli ha contestato, le sue piccole verità quotidiane. Le sue scoperte filmiche son così semplici da apparire poco meno che scandalose sia agli scassati esteti dello <specifico filmico> come ai piccoli Sartre della <revisione critica>“ (1954).
Sebbene Domenica d’agosto sia indubbiamente un film centrista, ciononostante incorse nelle ire del Centro Cattolico Cinematografico che lo classificò come “escluso” a causa di una sua sottile ma intensa vena erotica che, in qualche modo, attraversa quasi tutti gli episodi. Giustamente l’autore dichiara che “all’epoca il mio cinema era considerato amorale”; d’altronde una sessualità disinibita e fortemente sottolineata costituisce un elemento chiave in questa visione appagata del reale. Lo spiraglio di nuove libertà erotiche, strettamente connesse con il sopraggiunto consumismo, costituisce fin d’ora un potente elemento di stabilizzazione sociale. Lo sa, meglio di tutti, una certa destra laica che lo userà in modo spregiudicato soprattutto a partire dagli anni ottanta, per modificare in modo definitivo il paesaggio umano della penisola. La chiesa, al contrario, non poteva che essere contraria a questo pericoloso, annunciato “crescendo” libertario e dunque si oppose al film di Emmer e a tutto quel filone di commedie “balneari” che prolifererà nel corso degli anni cinquanta.

La stessa vitale, spensierata esuberanza anima E’ primavera! (gennaio 1950; 102 min.) di Renato Castellani, scritto con l’aiuto di Cesare Zavattini e Suso Cecchi D’Amico, dove però l’atteggiamento di un calibrato realismo quasi documentaristico viene sostituito da un atteggiamento favolistico, lieve e frizzante, che approda a un finale stravagante e surreale. Vi si raccontano i pasticci inverosiili (sebbene basati su un fatto di cronaca) del soldatino toscano Beppe Agosti (Mario Angelotti) il quale, troppo innamorato delle donne, finisce per sposarne due nell’arco di sei mesi, Maria Antonia (Elena Varzi) a Catania e Lucia (Irene Genni) a Milano. Il bigamo viene rapidamente scoperto, portato in tribunale e miracolosamente assolto. Nella sequenza finale ha messo su bottega con le due donne, i figli avuti e Cavalluccio (Donato Donati), il fedele fidanzato siciliano di Maria Antonia. Le future comuni hippies trovano così una insolita, zavattiniana anticipazione in questa epilogo che non manca di attirare i fulmini del Centro Cattolico Cinematografico (il film viene ovviamente “escluso”).
Come nel caso di Domenica d’agosto siamo di fronte a un film inviso a destra e a sinistra. La destra non tollera il lieve immoralismo dell’insieme, quell’esaltazione del sciocco soldatino che vive per le donne, sorta di piccolo Don Giovanni di borgata, intento a coltivare con strenua vitalità il proprio “catalogo” di conquiste. In lui parla l’antico filone di adorazione “femminista”, quel porre la donna sul piedistallo e di conseguenza quel dar vita a una sorta di fatua femminilizzazione del reale. D’altro canto la sinistra non tollera il tono gentile e scanzonato, da sempre giudicato “eretico” di fronte ai temi nobili della “miseria” del popolo e della rivoluzione marxista. Un giovane che pensa solo alle donne e al proprio benessere (tanto più se perseguito in solitudine - il giovane diviene rappresentante di una ditta di caramelle - attraverso il mondo del commercio dei nemici “bottegai”) è, per tali correnti di pensiero, un cattivo esempio e un’immagine impropria dell’Italia del dopoguerra.
Castellani non accontenta nessuno; per la verità non accontenta neppure il palato esigente del cinefilo: il racconto è troppo sciocco e pasticciato, in qualche modo fagocitato dal suo stolto protagonista; la ricerca di un tono frivolo e divertente troppo insistita e innaturale; la colonna sonora di Rota, dotata di ottimi spunti musicali (e qualche citazione dotta come la celebre melodia del duetto degli amorosi della donizettiana Lucia di Lammermoor, 1835), viene usata con sovrabbondante generosità, saturando lo spettatore. Inoltre il tono lieve scivola rapidamente nella farsa scontata e nel macchiettismo più becero: tutto l’episodio siciliano è in tal senso censurabile; esso si allinea al solito imperante modernismo massonico che tende a fare la caricatura di antiche usanze familari (la donna soggetta all’autorità paterna) che giudica illiberali e non dettate dal “sacro sentimento”. Atteggiamento di analoga supponenza nei confronti della cultura meridionale si trovano in numerosi film del periodo, soprattutto targati Lux (si veda quanto scritto per In nome della legge, Germi 1949; Il lupo della Sila, Coletti, 1949; ecc.). D’altronde tale distorsione culturale appare in questo caso debole poiché alle “durezze patriarcali” si riesce a contrappone solo il Don Giovanni di provincia, lo scioccone che non sa vivere senza compagnia femminile e che pur di averla è disposto a tutte sposare e ingravidare; si contrappone cioé un modello di uomo femminilizzato che provoca solo ilarità nella parte più razionale del pubblico. La battaglia contro il sud e la tradizione è questa volta male impostata.

Sempre Zavattini (ancora coadiuvato da Suso Cecchi D’amico) firma una seconda commedia favolistica e sorridente fornendo a Alessandro Blasetti il soggetto di Prima comunione (settembre 1950; 74 min.) in cui si racconta l’altra faccia del problema. Mentre la pellicola di Castellani è incentrata sulla generosità estrema dell’ingenuo seduttore, quella di Blasetti dipinge il suo opposto ovvero l’egoismo ultracollerico e sfrontato del ricco bottegaio (come già detto categoria invisa al socialisteggiante cinema italiano) commendator Carloni (Aldo Fabrizi). Invece del ritratto di una giovinezza ora ci si limita alla cronaca di due ore frenetiche (il tempo filmico tende a corrispondere a quello reale) ossia dalle otto alle dieci del giorno di Pasqua, allorché la famiglia Carloni si prepara a portare la figlioletta in chiesa per la prima comunione. Senonché l’onnipresente protagonista (sulle corde del quale è costruito, non senza pesantezze e ripetizioni, l’intero film), infervorato da una bella vicina (in procinto di divenire la sua amante), prende la scusa di andare a ritirare l’abito della bambina dalla sarta per poterla avvicinare. Inizia una girandola di peripezie durante le quali Carloni dà il peggio di sè: rischia più di un incidente, rompe la macchina nuova, si azzuffa per un taxi, perde le staffe in autobus con uno sconosciuto che lo insulta, smarrisce il vestito, cerca di comprare quello della bambina dei vicini poveri e infine tenta perfino di far ritardare la cerimonia per consentire a sua figlia di giungere in tempo con un abito di fortuna. Insomma una sorta di screwball comedy tutta italiana in cui le numerose idee notevoli finiscono con lo stancare a causa della monotona imbecillità del protagonista, incapace di controllarsi e pronto a litigare con tutti pur di giungere al soddisfacimento dei propri futili bisogni.
Blasetti, nuovamente finanziato (dopo Fabiola) dalla casa di produzione cattolica Universalia, compone una propria dissertazione sul tema dell’egoismo (d’ora in poi una sua tematica ricorrente) e prende le distanze dalla nuova società radicalmente individualista che viene sostituendo la logica corporativa e collaborativa (quanto meno a parole) del fascismo. La narrazione guidata da una imprevedibile voce fuori campo (di Alberto Sordi) che apre continue, inattese digressioni ora fantastiche, ora meditative (tra flashback e flashforward), riesce a imprimere una notevole vivacità a un soggetto largamente pretestuoso e monocorde ma non perciò salva l’opera nel suo complesso a causa, come si è detto, del carattere artificioso ed esasperato del protagonista, autore di una serie troppo prevedibile di errori, sfuriate, meschinerie, cattiverie e bravate.
L’aspetto più riuscito riguarda invece il piccolo affresco intorno a una quotidianità felice dei propri piccoli rituali privi di significato profondo. La comunione dei bambini è dunque solo un momento di vuota esibizione del proprio benessere (in tal senso è evidente che il vestito per la cerimonia diviene rapidamente più importante della cerimonia stessa in quanto costituisce un semplice strumento di esibizione del proprio status sociale all’interno di una stolta, simbolica gara di sopraffazione) in un contesto in cui prevale largamente la simulazione: tutti recitano la loro parte senza troppa convinzione e Blasetti si diverte a muovere le sue marionette osservandole da lontano. L’appello a una maggiore compostezza religiosa, a una più autentica sincerità (Carloni non ha una sola parola o gesto di vero affetto per la sua bambina; si limita a correre come una stupida trottola per risolvere il problema tutto esteriore del vestito della piccola), a un rapporto non ipocrita con i propri compagni di esistenza corre lungo tutta la narrazione e costituisce il logico sottinteso di un film prodotto da una casa cinematografica cattolica. I nemici della Chiesa sono dunque quelli di sempre: il materialismo incombente, l’egoimo ossessivo e puerile (in quei giorni scrive padre Lombardi: “Per schierarci compatti c’è un tarlo da scovare e schiacciare per primo: l’individualismo, il personalismo, spinto a volte fino alla gelosia degli altri” in Per un nuovo mondo, 1951), la felicità che viene identificandosi con il possesso di beni materiali inutili (il film si apre con l’arrivo della nuova, lussuosa automobile del Carloni, che subito si trasforma in strumento di seduzione nei confronti della piacente e disponibile vicina dell’appartamento di fronte), il più alto tenore di vita che va traducendosi in ricerca di illeciti soddisfacimenti sessuali. Blasetti li illustra in modo compiuto ma il film, a causa del macchiettismo, scivola verso il compitino didattico poco credibile e dunque poco efficace. Il pubblico comunque saluta calorosamente la nuova fatica del popolare Aldo Fabrizi e dell’autore di Fabiola.
Le due pellicole zavattiniane dunque si assomigliano nei difetti e nelle virtù: semplificano troppo, virano verso il bozzetto stucchevole, cercano di divertire ad ogni costo e, dopo un buon inizio, naufragano in una tediosa ripetitività. Entrambe tuttavia disegnano un’Italia che è piacevole osservare, un’Italia a suo modo “giovane”, esuberante, piena di voglia di riscatto e di rinascita. Quanto meno gli individui sembrano avere ora ritrovato una totale fiducia nelle proprie capacità dopo la terribile angoscia determinata dalla scellerata partecipazione al conflitto mondiale imposta dal regime fascista a un popolo riluttante.

Il rinnovato stile di vita si respira anche nelle immagini di Miss Italia (febbraio 1950; 95 min.) firmato da Duilio Coletti il quale si basa su una farraginosa sceneggiatura di Fulvio Palmieri e Nino Novarese, allineata ai canoni ideologici della “progressista” casa di produzione Lux. Vi si tenta il film corale e il piccolo affresco sociologico con esiti modesti (e incassi quasi inesistenti). Non che il film non sia piacevole: la ricca galleria di personaggi assicura quanto meno una certa varietà e ricchzza di stimoli; tuttavia, rispetto alla vena semidocumentaristica del bravissimo Emmer, qui siamo alle prese con un macchiettismo artificioso e spesso banale.
I pretesti narrativi sono due: la competizione di Miss Italia (che allora si teneva a Stresa) offre la possibilità al protagonista, l’ironico reporter Massimo Lega (Richard Ney), di far visita a numerose candidate le quali sono in procinto di partire per la cittadina adagiata sulla costa piemontese del lago Maggiore. Tra di loro non c’è neppure una ragazza “normale”: si passa dalla sartina ingenua (Gina Lollobrigida) alla prostituta di buon cuore (Constance Dowling), dalla procace attricetta dei fotoromanzi alla nipote di un parroco di paese (il sempre bravo Carlo Campanini) il quale, manco a dirlo, è all’oscuro di tutto, per finire con la figlia di un sindaco conservatore (ma illuminato) il quale negozia la pace sociale della sua cittadina con un agguerrito dirigente marxista che però è anche il fidanzato della ragazza (il finto scontro appare evidentemente ispirato al Don Camillo di Guareschi, pubblicato nel 1948 e anticipa la fortunata serie cinematografica). Insomma la galleria è varia ma studiata a tavolino.
L’unico elemento insolito consiste nella visita in una casa di tolleranza, argomento piuttosto negletto finora nel cinema italiano (con l’eccezione celebre di Ossessione, Visconti, 1943; ma è in arrivo il dittico comenciniano Persiane chiuse - La tratta delle bianche, 1951-52) che tuttavia sconfina rapidamente nel bozzetto inverosimile: la ragazza ambisce solo alla propria redenzione sociale e su questa inclinazione viene impostata la seconda parte della pellicola che, spostata l’ambientazione a Stresa, si trasforma in un piccolo, frettoloso giallo. Un criminale utilizza l’ingenuo padre della sartina per far arivare in Italia la refurtiva di un colpo attuato in Costa Azzurra. Le cose vanno storte (a causa di una banale sostituzione di valigie) e la prostituta, che conosce bene il criminale, salva la vita al poveretto, recupera i gioielli, li consegna alla polizia e infine si suicida gettandosi con l’auto da una scarpata, portando con sé il ladro. Una tinta inutilmente moraleggiante avvolge il personaggio della Dowling e, sebbene il film non vanti simpatie a sinistra (anzi è assai simpatico il sarcasmo con cui vengono trattati sia il sindacalista fanfarone, sia il parroco di campagna che non perde occasione per dichiararsi bersaglio delle ostilità di una “atea” giunta socialcomunista), esso contiene già in nuce lo spirito della futura, ipocrita e pilatesca legge Merlin (1958).
Se la pellicola appare inattendibile quale documento sociale, essa tuttavia esplicita il consueto atteggiamento femminista della casa Lux. Il corpo femminile, ritratto spesso in pose provocanti ed emancipato dagli obblighi “patriarcali”, è in fondo il vero protagonista del lavoro, anche se la sfilata delle concorrenti avverrà in un casto abito da sera (significativa differenza con le usanze odierne che hanno trasformato il concorso in una ridicola esposizione di donne seminude che però parlano e si atteggiano come se fossero nel salotto di casa, per una festicciola tra amici). Tutte le protagoniste si mostrano fiere ed emancipate dai vecchi modelli di comportamento femminile (alcune - la nipote del parroco e la prostituta innanzitutto - devono liberarsi da un ambiente “retrivo” per poter competere a Stresa) e offrono al tempo stesso l’immagine di un’Italia risanata, festaiola e desiderosa di benessere accanto alla concezione di una donna che può ascendere nel consesso sociale e giungere alla ricchezza grazie alle proprie doti di avvenenza fisica.
Coletti dunque non smentisce la propria inclinazione di autore “modernista” (si ricordi il suo radicale antimeridionalismo ne Il lupo della Sila, 1949, un film sempre targato Lux; vedi) e Miss Italia si configura dunque come un film laico e libertario. Il prevedibile giudizio aspramente negativo del Centro Cattolico è ovvio e pertinente.
Ancora Coletti, la Lux Film, lo sceneggiatore Palmieri coadiuvato da Suso Cecchi d’Amico e dal veterano Aldo De Benedetti sono gli autori del solenne pasticcio Romanzo d’amore (dicembre 1950; 93 min.) nel quale si prendono a pretesto le reali disavventure del musicista Enrico Toselli per produrre l’ennesima caricatura dell’universo aristocratico, tipico bersaglio della “illuminata” casa di produzione torinese e peraltro già obiettivo del “garibaldino” cinema fascista. Su questo versante una perfetta continuità è riscontrabile tra populismo fascista e astioso egualitarismo di marca massonica.
Le vicende reali sono quelle del poco più che ventenne musicista torinese sedotto, nel 1906, da una trentacinquenne Luisa di Sassonia, una stravagante regina tedesca (nata a Salisburgo) che scappa dalla corte di Dresda (dove lascia ben cinque figli) per un lungo vagabondaggio europeo. L’unione con il pianista fiorentino dura tre anni: dopo un matrimonio e la nascita di uno sfortunato figlio, si arriva presto alla separazione legale (1912).
Questa materia narrativa viene stravolta dai cineasti: si comincia col raccontare la corte di Dresda come un luogo di ottusi bigotti al quale si contrappone la liberale principessa Luisa (Danielle Darrieux), all’inizio dipinta con simpatia. L’amore vero col giovane artista (Rossano Brazzi) risulta allora il vero approdo della fuga da un simile pretestuoso inferno (ovviamente si tace sui cinque figli abbandonati dalla donna). Nel prosieguo però l’artista appare come ostacolato dalla fatua mondanità della nobildonna la quale si circonda costantemente di nobili del suo rango, sciocchi e fatui quanto i componenti della corte tedesca: insomma anche quando vorrebbe “redimersi” nell’arte (ottimo e fondamentale strumento dell’affermazione liberal-massonica in Europa), il peccato originale dell’aristocrazia riemerge con forza e indica una casta destinata a estinguersi o a perdere di importanza (come è accaduto nel corso dei due conflitti mondiali e, più generalmente, nel Novecento). Il pubblico accorre in massa alle esibizioni di Toselli soprattutto per poter vedere la regina di Sassonia e lo sdegnato pianista, offeso dall’umiliante situazione, si ribella, interrompendo in modo clamoroso un’esecuzione concertistica (vittima il Quinto concerto per pianoforte di Beethoven).
Dunque l’Arte, permeata da motivazioni umanitarie e solidaristiche, a contatto con il fasto imbecille della nobiltà, si inaridisce e muore: questo l‘ideologico significato del banale filmetto il quale, a partire dalla separazione dei due protagonisti, oltre a tacere la presenza di un loro figlio piccolissimo, inventa di sana pianta una serie di situazioni accessorie, volte a santificare quell’ “auspicato” Amore impossibile tra l’artista borghese, progressista e impegnato, e l’aristocratica, “redenta” solo in parte dalla propria naturale situazione di gerarchica diseguaglianza.
In definitiva siamo di fronte all’ennesimo esempio cinematografico di disinformazione storica e di strumentalizzazione di eventi reali per finalità propagandistiche.

Ancora un musicista è al centro della simpatica pellicola balneare Bellezze a Capri (novembre 1951; 90 min.), opera d’esordio di Adelchi Bianchi basata su una sceneggiatura di Ruggero Maccari e Mario Amendola. Vi si narrano le peripezie di due amorosi – un compositore (in attesa di diploma ma, si scoprirà nel finale, già celebre negli USA...) e la nipote di un burbero parroco – i quali vorrebbero sposarsi ma incontrano la ferma opposizione di don Violante (zio della ragazza e parroco di Anacapri) che considera il pretendente uno spiantato poco serio. I giovanotti (Armando Francioli e Anna Bianchi) si disperano e, nel frattempo, si divertono nella cornice solare di una Capri ottimisitica e piena di vita; parenti ed amici sono tutti dalla loro parte e, alla fine, si convincerà anche don Violante (Nando Bruno).
La trama è dunque inesistente ma l’ambientazione marina e la serie di macchiette poste in scena dal regista sono tutte gustose e ben calibrate. Si parte dall’insolito protagonista ovvero un brillante Nando Bruno – in genere un comprimario – che interpreta in modo perfetto la figura del parroco moralista e irritato dall’edonismo dilagante nell’isoletta già semituristica. Dal suo eloquio fluviale e moderatamente reazionario escono battute esilaranti del tipo: “quando sono ricchi gli scemi li chiamano eccentrici... “. Sua sorella (una simpatica Ave Ninchi) nonché madre dell’amorosa fa quello che può per temperare gli eccessi del parroco mentre intorno ai due ragazzi (coppia di figure piuttosto anonima) si muovono un Aroldo Tieri perennemente ubriaco nelle vesti di un assurdo pittore polacco di tele sacre, un giovanissimo Carlo Delle Piane e Virgilio Riento nei panni di un maresciallo dei carabinieri.
Dal film – un’operina a suo modo corale - emana la sensazione di un tranquillo benessere e di un discreto tenore di vita il quale è ormai diffuso agli inizi degli anni cinquanta (nonostante qualche “neorealista” si ostini a puntare i riflettori su desolati squarci sociali, divenuti in realtà marginali). Gli ostacoli al matrimonio dipendono dai ritardi del nostro compositore (ancora privo di diploma e posto di lavoro) che però – nessuno ne dubita - verranno risolti in breve tempo. Sembrano questi ormai  gli unici problemi della piccola borghesia di quegli anni; la distruzione portata dal recente conflitto, le miserie e le paure, la feroce inflazione appaiono eventi di un passato superato e rimosso.