E’ caduta una donna, E’ sbarcato un marinaio, La fuggitiva, Fari nella nebbia, Giorni felici, Anime in tumulto, La maestrina, Una storia d’amore e T’amerò sempre: in difesa della maternità (1940-43)
“La diminuzione della popolazione porta con sé la miseria!..... Noi facciamo per la madre più che ogni Stato d’Europa. Se la madre sia stata la
moglie o solo l’amica del padre, ciò non ci riguarda. In questo ci distacchiamo dalla Chiesa” Mussolini (E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, 1932
Alfredo Guarini nasce a Sestri Ponente nel maggio 1901. Lavora nel cinema inglese come assistente di Alexander Korda; si trasferisce in seguito negli USA dove conosce e sposa l’attrice Isa Miranda. L’esordio
nel cinema italiano in qualità di regista avviene solo nel 1940 con Senza cielo, film avventuroso interpretato dalla Miranda ed ambientato nel Mato Grosso. Subito dopo Guarino gira E’ caduta una donna
(ottobre 1941; 72 min), pellicola melodrammatica liberamente tratta dal romanzo omonimo di Milly Dandolo (sceneggiatura del regista, Ugo Betti, Cesare Zavattini e altri) che racconta le peripezie di Dina (una Isa Miranda artificiosa e bamboleggiante), sedotta e abbandonata la quale, scopertasi incinta e in preda a una cupa disperazione, fugge a Milano dove pensa di abortire. Il dottore Mario (Rossano Brazzi), al quale chiede l’illecito intervento, si rifiuta e la rimprovera scandalizzato: “Voi temete la maternità - siete una sciagurata”. La donna si riprende, si prende cura del piccolo, lavora come indossatrice e infine sposa il ricco medico. Nella nuova fastosa abitazione le cose tuttavia precipitano: l’uomo, così solerte nell’invitarla a tenere il bambino, ora non ne sopporta la presenza poiché perseguitato da una feroce gelosia retrospettiva. La debole donna è nuovamente sconvolta: pensa allora di mandare il piccolo a vivere dalla nonna paterna; in extremis però viene colta da ripensamento e mentre corre alla stazione, per evitare la partenza del bimbo, viene investita da un auto e muore.
Intorno all’innocente creatura Guarini organizza un girotondo di eventi esecrabili affidati a figure meschine. Il fondale é quello di una Milano fredda e fatua, ben illustrata tuttavia attraverso immagini di piazza Duomo,
piazza San Babila e della Stazione Centrale. Due punti essenziali della dottrina fascista trovano perfetta esplicazione nella narrazione: la difesa della maternità connessa alla nota massima mussolinana “il numero é potenza” e
l’attacco all’egoismo “smidollato” dell’alta borghesia che alligna soprattutto nelle grandi metropoli.
La povera Dina, sola e di origini popolane, giunge smarrita a Milano e, fuori di sé, decide di abortire. Il dottore dapprima dice le cose “giuste” e la fa recedere dall’insano tentativo; quando però
si tratta di accettare la creatura di un altro in casa propria l’uomo cade preda del demone della gelosia, vedendo nel piccolo il frutto del cedimento della moglie a un altro uomo. Intorno alle tre figure principali la
descrizione degli ambienti milanesi è dura e impietosa: night con musica di ispirazione jazzistica, milionari in cerca di facili avventure, un atelier di moda dove prevale uno stilista gay ritratto con evidente sarcasmo e nel
quale passano clienti ricche, sciocche e capricciose e al culmine l’abitazione “regale” del dottore dove perfino la governante consiglia Dina di liberarsi del bambino. A questo punto la vicenda, raccontata fino a quel momento
con una scrittura descrittiva e lineare, si inabissa nei vortici del più puro melodramma, ribabendo ancora una volta la continuità tra opera lirica e cinema italiano. Di colpo la donna ordina alla governante di partire in treno
a mezzanotte (!!) col bimbo per portarlo dalla nonna mentre lei é alla Scala; poi durante l’ascolto di un’allegra opera settecentesca il rimorso più lacerante la attanaglia cosicché ella lascia precipitosamente il teatro e,
nella notte nebbiosa e fredda, corre alla stazione per evitare la partenza e viene investita. Non c’è alcun senso logico in tutto questo finale: l’irrealtà estremista dell’universo operistico si impadronisce del film e lo
conduce verso una conclusione tanto frettolosa quanto drammatica e coinvolgente sul piano emotivo. Il particolare più assurdo è ovviamente quello della repentina e notturna partenza del piccolo (mai si è visto orario più
assurdo per intraprendere un viaggio con un bambino di pochi anni), partenza decisa e posta in atto senza neppure avvisare la nonna; ma in generale è tutto l’insieme a vacillare a qualunque indagine logica. Anche l’apparizione
della tormentosa gelosia del marito è subitanea e immotivata, semplice espediente per portare a compimento un dramma annunciato. La svolta “operistica” del film di Guarini serve ad accentuare i conflitti in atto, a
immergere la narrazione del tormento della protagonista in un contesto incandescente e a smascherare (attraverso la distanza che automaticamente la scrittura filmica crea tra Dina e gli altri) un universo metropolitano dedito a
un’esistenza sentita dall’autore come riprovevole, tra feste, spettacoli mondani e cene conviviali. La mollezza dell’Italia borghese, accusata dal regime mussoliniano di lassismo e scarso amore per i figli, trova dunque
un’esemplificazione completa e accesa in una pellicola che può permettersi il lusso di toccare argomenti scottanti e sgraditi al fascismo (l’aborto, la presenza omosessuale) poiché il senso complessivo dell’opera é fortemente
allineato alla visione ideale del duce. Ne consegue con naturalezza che in questa Milano “smidollata” la guerra non esiste: se ne sente un vago accenno solo quando la nonna paterna del piccolo fa visita a Dina per dirle che suo
figlio è morto, senza specificarne le cause. Nessuna tensione patriottica, nessuna preoccupazione bellica, nessun pensiero “collettivo” e “nazionale” anima la quotidianità dell’universo milanese. Infine Guarini dimostra di
sapere girare con eleganza e originalità; si notano infatti alcune pagine “virtuosistiche” come la sequenza in cui Dina ripensa al proprio dolente percorso esistenziale rievocando una serie di immagini le quali si sovrappongono
al volto della donna inquadrato attraverso un vetro inondato da una pioggia che materializza una sorta di pianto interiore; oppure nella magnifica sequenza nel teatro in cui le note spensierate dell’opera settecentesca di
uniscono al primo piano assorto e lacerato di Dina che sta rimeditando intorno alla sciagurata decisione presa intorno alla partenza del piccolo. In questi episodi anche la tipica recitazione sopra le righe della Miranda
funziona poiché si lega a una cornice estremamente melodrammatica.
Piero Ballerini nasce a Como nel marzo 1901. Dopo aver lavorato nel cinema francese esordisce in Italia a metà degli anni trenta in qualità di regista di La freccia d’oro (1935). L’attività dell’autore è quantitativamente assai limitata, considerando i ritmi di lavoro dell’epoca: solo un paio di pellicole negli anni trenta ossia L’ultima carta,
(1938), uno dei rari gialli cinematografici del cinema italiano del periodo e Piccolo Hotel (1939; presentato alla mostra di Venezia), un film drammatico ambientato a Budapest intorno ad un giovane che ruba una forte somma per soddisfare l’amante.
Negli anni quaranta Ballerini firma E’ sbarcato un marinaio
(febbraio 1940; 76 min.), pellicola di cui è sostanzialmente autore unico (suoi sono soggetto e sceneggiatura). Modello insolito è il cinema del realismo poetico francese, con particolare riferimento a Il porto delle nebbie (Quai des brumes,
Carné, 1938) di cui Ballerini appronta una sorta di remake italiano. Il marinaio Hans (Amedeo Nazzari; Jean Gabin nel film precedente), sbarcato in un imprecisato porto (si presume francese; non italiano poiché gli
atteggiamenti amorali della popolazione sono incompatibili con l’Italia fascista) si innamora di Nelly (Doris Duranti; Nelly anche nel film di Carné, interpretata da Michéle Morgan), una giovane impiegata nei baracconi di Gomes
(Enrico Glori; Michel Simon nel Porto delle nebbie) il quale avanza pretese sulla ragazza. La coppia va a convivere, Hans abbandona la vita nomade del marinaio e Nelly lascia l’impiego. Quando però un incidente sul
lavoro blocca in ospedale l’uomo, la ragazza accetta di tornare a lavorare da Gomes che tenta anche di violentarla. Hans, tornato in circolazione, dapprima, credendo la compagna infedele, vorrebbe abbandonarla, poi scoperto che
è incinta, la perdona. Il contesto popolare del porto, ritratto in ambientazioni prevalentemente notturne, animate dalla baraonda delle giostre e degli ingenui spettacoli, ricalca quello del film francese; gli stessi
atteggiamenti di aperta amoralità che caratterizzano tutti i personaggi - Hans e Nelly convivono, la padrona di una birreria corteggia apertamente Hans e gli propone una relazione puramente sessuale - sono del tutto estranei al
cinema italiano coevo e, infatti, procurano al film l’aperta condanna del Centro Cattolico (il giudizio di “escluso” è cosa scontata), nonché si attirano le aperte critiche di chi parla di inutile scopiazzatura da un cinema
“indegno” dell’Italia. Tuttavia uno sguardo meno superficiale evidenzia anche le profonde dfferenze tra Il porto delle nebbie ed E’ sbarcato un marinaio. La vicenda francese termina in tragedia, con la morte del
protagonista, laddove il racconto italiano vira, nel finale, verso toni di commedia, perfino umoristici (la figura del commissario cui tocca indagare sulla presunta morte di Gomes, a seguito delle inesatte dichiarazioni di
Nelly e di un suo amico) e comunque approda a uno scioglimento ottimistico, nel segno della maternità che tutto cancella. La conclusione con i protagonisti che, dopo aver solennemente promesso di sposarsi, attendono l’alba nel
porto, sottolinea la forza della famiglia procreatrice come valore di riferimento forte, capace di superare ogni avversità. Insomma le tante immorali presenze che popolano il racconto vengono “redente” dal fiducioso
ravvedimento finale. Una nuova, luminosa era esistenziale sembra profilarsi per gli spossati personaggi. Il film di Ballerini inoltre condivide la stessa simpatia per gli strati più popolari della società che anima il coevo
cinema francese di marca socialisteggiante. La cosa non solo non deve minimamente stupire, ma anzi può indurre a riflessioni a largo raggio. Scelte morali a parte, il mondo dei semplici - siano essi marinai come pure di
fruttivendoli, autisti, umili impiegati e modeste commesse - è infatti al centro di numerose pellicole del regime fascista, volte a ritrarre in maniera sempre positiva quell’universo popolare e piccolo borghese che in larga
parte sosteneva (almeno fino alla svolta bellica) le scelte del regime. Non si ricorderà mai abbastanza che il fascismo fu un regime populista, venato di reminiscenze socialiste, nonché fondato da colui che era stato per
vent’anni un convinto militante della sinistra, fino a divenire, intorno al 1915, uno dei principali dirigenti del PSI. Queste similitudine filmiche tra cinema socialista francese e cinema italiano di regime ne sono l’ennesima
conferma. Tutti i totalitarismi di massa del Novecento derivano dall’esasperazione di una fondamentale componente del credo laico-massonico, quella riguardante la “fratellanza sociale”, il cameratismo o l’esser compagni e
che, durante la grande svolta del 1789, veniva definiva “fraternité”. La fuggitiva
(novembre 1941; 81 min), pellicola basata sul romanzo omonimo (1939) della scrittrice Milly Dandolo e sceneggiata dall’autore comasco, racconta l’amara storia dell’incontro di due solitudini. La piccola Marina (Mariù Pascoli) priva della figura materna, trascurata dal padre, l’ingegnere Antonio (Renato Cialente), e dalle due istitutrici fugge e si imbatte in Delfina (Iole Valeri), una giovane che è stata abbandonata dal fidanzato il giorno delle nozze. La piccola si lega visceralmente alla donna che dapprima viene assunta dal padre come terza badante, poi corteggiata dal medesimo. L’idillio familiare tuttavia viene bruscamente interrotto dalla comparsa della “misteriosa” madre (Anna Magnani), una soubrette di avanspettacolo disinteressata alla figlia ma sempre in attesa di essere sposata dal ricco padre di Maria. Delfina, sconvolta dalle corcostanze decide di abbandonare immediatamente la casa della bambina la quale, in una notte tempestosa, scappa nuovamente, cerca l’amica, si perde, dorme all’aperto sotto l’acqua e viene riportata a casa febbricitante e in fin di vita. Intorno al suo letto si avvicendano tutti i personaggi perseguitati ora da un atroce rimorso. La bambina si salva miracolosamente; il padre ritrova Delfina e la invita a ritornare. Nell’ispirato finale aperto la giovane si inginocchia in chiesa durante la funzione natalizia e chiede consiglio a Dio.
Ballerini firma un’opera pregevole e intensa, che ritrae con grande partecipazione la sofferenza di Delfina (purtroppo l’attrice appare spesso impacciata e nel complesso non all’altezza del ruolo) e soprattutto quella della
piccola Maria. In tal senso, all’interno di un linguaggio filmico semplice e composto, il regista usa con sicurezza piccoli, espressivi movimenti di macchina in avvicinamento che sanno scoprire nei volti degli attori
l’inquietudine e il dolore. La pellicola è un silenzioso e misurato atto d’accusa nei confronti di un gruppo di personaggi disattenti alle esigenze affettive di un piccolo essere il quale anzi diviene il centro e lo strumento
di una serie di gesti meschinamente interessati; si pensi soprattutto allo spregevole personaggio della madre (la Magnani la quale interpreta un personaggio molto simile a quello disegnato nel coevo Teresa Venerdì di De Sica; vedi), cantante frivola e sensibile solo alla prospettiva di un matrimonio di interesse. L’apice del racconto consiste ovviamente nella seconda drammatica fuga che sfocia in tragedia: intorno alla piccola in fin di vita, afflitta da una terribile polmonite, si accalcano il padre, la madre, le due ottuse istitutrici, tutti smascherati nella loro incapacità di offrire un ambiente sereno e affettuoso alla bambina. Come per la contemporanea pellicola di Guarini, una vicenda iniziata con lo stile distaccato della commedia vira graduamente verso toni di acceso melodramma che conoscono il proprio climax nelle immagini della bambina in fuga sotto le intemperie e poi immobile nel letto, a un passo dalla morte.
Un paio d’anni prima del desichiano I bambini ci guardano (1943; vedi), in parte ispirato a questa pellicola ingiustamente trascurata dalla critica passata e presente, Ballerini sa ritrarre con fermezza un quadro di freddi egoismi e sa indicare in modo incisivo nella stabilità della famiglia e nella presenza costante di una figura materna (magari acquisita, in mancanza d’altro, come nel caso di Delfina) quella sicurezza e continuità di affetti necessari allo sviluppo armonico della personalità di un piccolo essere. Il rigoroso senso morale che anima il lavoro, allineato con la politica conservatrice del fascismo in materia familiare e con la visione cattolica del matrimonio (non a caso il film inizia e termina in una chiesa), non diviene mai sermone tedioso o peggio retorica artificiosa; il senso delle cose emerge con semplicità dai gesti e dagli eventi, senza eccessive forzature: la generosità di Delfina (sorta di madre ideale, paradossalmente senza figli), il suo disinteressato assecondare le esigenze altrui confligge con i tratti egoistici e stolti di una serie di figure completamente assorbite dai propri “demoni” ovvero un pittore (l’ex fidanzato di Delfina) geloso e a caccia di dote, un padre prigioniero del lavoro, una madre naufragata nella mondanità, un nonno (quello di Delfina) autoritario e dogmatico, due istitutrici incapaci. Da quel semplice e naturale conflitto si concretizza la visione dell’autore la quale coincide senza forzature con lo spirito del tempo: Ballerini non fa banale propaganda in relazione alla solidità dell’istituto matrimoniale; al contrario egli indaga empiricamente e in modo accorato le conseguenze di atteggiamenti sordamente materialistici nell’animo di una piccola, malinconica creatura.
Gianni Franciolini nasce a Firenze nel giugno 1910. Dopo una lunga permanenza in Francia rientra a Roma dove, alla fine degli anni trenta, collabora come sceneggiatore ad alcune pellicole di Mario Soldati e
Camillo Mastrocinque. L’esordio alla regia avviene nel 1940 con L’ispettore Vargas. Il suo secondo film, Fari nella nebbia
(febbraio 1942; 80 min.), pellicola basato su un soggetto di Rinaldo dal fabbro, Giuseppe mangione e altri, sceneggiato da Corrado Alvaro, Adoardo Antòn e Giuseppe Zucca si muove nel solco di E’ sbarcato un marinaio.
Gli autori guardano al realismo francese di Marcel Carné e Jean Renoir, alle sue storie desolate collocate in ambienti umili e marginali; solamente che correggono il profondo pessimismo che attraversa quelle opere con una
convinta adesione all’etica fascista e al suo volontarismo positivo e ottimista. Il camionista Cesare (Fosco giachetti), abbandonato dalla giovane moglie Anna (Mariella Lotti), frivola, insoddisfatta e recalcitrante alla
maternità, lascia la sua Acqui e si stabilisce a Savona dove finisce coll’andare a convivere con Piera (Luisa Ferida), una donna di facili costumi che si è illusa di poter diventare una compagna affidabile e costante. La
convivenza, raccontata con toni insolitamente espliciti per il cinema italiano dell’epoca (cosa che gli vale la condanna del Centro Cattolico), diviene presto grigia routine cosicché Piera decide di allacciare segretamente una
relazione con Filippo (Antonio Centa), un collega di Cesare. Intanto Anna resta delusa dalle richieste sessuali esplicite di un corteggiatore, si redime, capisce il proprio errore, lascia il lavoro di commessa che la
distoglieva dalla casa (assecondando in ciò un desiderio del marito) e attende il ritono di Cesare. Quest’ultimo, scoperto l’inganno di Piera, si accinge ad ammazzare Filippo quando l’incontro con la “nuova” Anna gli
restituisce di colpo ogni serenità. La pellicola possiede pregi e difetti. L’ambientazione realistica, sulle strade della Liguria, percorse in lugo e in largo dal camion di Cesare, tra modeste bettole, trattorie familiari e
caotici luna park offre uno squarcio documentaristico di grande valore e di indubbia suggestione, soprattutto se raffrontato con il prevalere di polverosi e soffocanti interni del coevo cinema dei primi anni quaranta. Se a
questo si aggiunge l’efficace colonna sonora di Enzo Masetti che raddoppia, con puntuale e melodrammatica precisione, le emozioni dei protagonisti, ci si rende conto che si è di fronte a uno dei lavoro più significativi del
periodo. Masetti tende a utilizzare temi ricorrenti: in particolare va rimarcato quello solenne e inquieto che accompagna la sequenza d’apertura (il camion che percorre tornanti su tornanti) e, in generale, gli spostamenti
degli autotreni, tema che introduce e, in più punti, rafforza l’atmosfera tesa e drammatica che caratterizza l’intera pellicola. L’alta qualità filmica viene inotlre confermata dalla capacità di raccontare con pochi,
significativi dettagli (Cesare scopre il tradimento di Piera allorché nota che Filippo conosce la posizione di un orologio della sua abitazione), dall’uso espressivo dei numerosi primi piani e dall’organizzazione della
narrazione secondo un insolito schema temporale (si inizia con la rottura tra i coniugi mentre le motivazioni vengono evocate successivamente, attraverso una serie di eloquenti flashback). Gli interpreti risultano abbastanza
convincenti anche se vengono serviti da un copione troppo schematico e succinto (il film dura meno dei consueti 90 minuti e, ciononostante, mette in scena moltissimi eventi) che offre continue svolte narrative le quali, se da
un lato tengono desta l’attenzione, dall’altro appaiono troppo brusche e poco motivate: la frivola Anna si redime subito e diventa una perfetta donna di casa; la spregiudicata Piera, senza precisi motivi, ritorna a cercare
facili avventure; Cesare, dopo una lunga assenza, si riappacifica con Anna con poche battute di dialogo (anche se assai significative). La sceneggiatura appare dunque ingessata e legnosa, anche se, va notato, offre un perfetto
compitino di etica fascista e perfino cattolica (nonostante il giudizio negativo delle autorità ecclesistiche). La donna che si perde dietro a sciocchi capricci e rifiuta i precipui compiti di moglie e madre, viene aspramente
criticata (peraltro con buone ragioni) e l’intero racconto, in fondo, riguarda solo questo: le disavventure di un uomo in rovina, deluso dalla propria moglie, incapace di assicurarsi un sereno nucleo familiare e una felice
discendenza che, in extremis, ritrova tutto ciò credeva perduto per sempre. La forza morale del racconto viene amplificata dalla magnifica ambientazione realistica (alcuni anni prima dello strombazzato “neorealismo”) e
dall’intenso commento sonoro di Masetti: si perviene così a un realismo lirico tutto italiano, cattolico e fascista, nel quale la verità degli ambienti si coniuga con un’adesione completa alla visione tradizionale della figura
femminile quale perno essenziale della vita familiare. Fari nella nebbia è uno dei tanti film ingiustamente dimenticati del cinema italiano da parte di quella nomenclatura intellettuale del dopoguerra che voleva far passare la scelta realistica come una coraggiosa novità introdotta dai cosiddetti “neorealisti” e che pretendeva di far credere che tale scelta doveva, per forza, legarsi a una visione progressista, “illuminata” o, se si preferisce, modernista del tessuto sociale. Per queste due ragioni la pellicola di Franciolini costituiva uno scomodo precedente di cui era meglio fingere di dimenticarsi.
Con il suo terzo film, invece, Franciolini firma un’innocua commediola di stampo teatrale, lontanissima dalla poetica di Fari nella nebbia. Va detto che il regista, anche in seguito, sarà quasi sempre estraneo al
lavoro di sceneggiatura: gira bene, dirige con sicurezza gli attori ma non sembra possedere una poetica propria. Giorni felici (dicembre 1942; 85 min.) deriva dalla commedia Les Jours heureux (1938) di Claude-André Puget, adattata per lo schermo da Armando Fraccaroli e mette in scena due coppie di giovani innamorati, infantili e capricciosi (Lilia Salvi e Paolo Stoppa; Valentina Cortese e Leonardo Cortese) durante una breve vacanza in una bella casa di campagna. Le schermaglie vengono interrotte dall’irruzione di un’aviatore (Amedeo Nazzari; il suo aereo è costretto a un atterraggio a causa di un piccolo guasto), uomo maturo e seducente che, nell’arco di un pomeriggio, fa innamorare di sé le due giovanette, porta alla disperazione i fidanzati e causa addirittura il tentativo di suicidio di una delle ragazze. Il lieto fine giunge immancabile: l’aviatore riparte e le due coppie, dopo lo sbandamento, scoprono di amarsi più di prima.
Come si nota il canovaccio della commedia è quanto di più stereotipato (in Francia il testo letterario, abbastanza noto, era già stato trasformato in film da Jean de Marguenat nel 1941) ed è un mero pretesto per ritrarre un
gruppo di attori affiatatissimi e in piena forma, decisi a risultare piacevoli e divertenti. Il film si pone come uno scoppiettante intrattenimento natalizio, un modesto scacciapensieri che propone “giorni felici” ad un
pubblico che sta vivendo “giorni amari” e che sta per affrontare i “giorni tragici” del 1943, l’anno più nero della storia italiana. Franciolini gira con garbo e brio, dirige con gusto gli attori che offrono tipologie ben
differenziate (l’attor giovane esuberante, il personaggio indolente, l’uomo sicuro di sé, la giovane sognatrice) e si avvale di una splendida fotografia di Tino Santoni, volta a creare una cornice quasi fiabesca intorno agli
eventi. Non riesce tuttavia a cancellare il carattere teatrale del racconto (lunghi dialoghi e ambientazione statica, quasi tutta in interni) e a impantanarsi in qualche tediosa lungaggine. Il senso complessivo - nonostante
la leggerezza un po’ futile dell’insieme - richiama le giovani coppie a un senso di adulta responsabilità, ricorda loro la strada maestra che consiste nel creare solide famiglie e nell’evitare avventure inconcludenti, generate
dalla suggestione esteriore di un evento casuale. Questo racconto e il suo connesso senso morale verranno ripresi, con esiti più espliciti e nettamente superiori, in Apparizione (de Limur, novembre 1943; vedi) - quasi un remake di Giorni felici - dove, allo stesso modo, un Nazzari seducente (in questo caso interpreta se stesso mentre il guasto riguarda la sua auto anziché un aereo) irrompe in una realtà umile, portando confusione e scompiglio in una coppia in crisi (Alida Valli e Massimo Girotti). Alla fine, anche questa volta, tutto però torna al suo posto.
Giorni felici è dunque un semplice intrattenimento domenicale in cui, tuttavia, si annidano precise indicazioni morali, perfettamente allineate alla visione conservatrice della società, visione ancora egemone nell’Italia dei primi anni quaranta.
Nel suo film d’esordio Anime in tumulto (mar. 1942; 90 min.), Giulio Del Torre mette in immagini il romanzo omonimo di Augusto Turati. Alberto (Carlo Tamberlani), primario di una clinica, amoreggia
clandestinamente con Anna (Leda Gloria), la propria devota segretaria, la quale resta pure incinta; in seguito però si innamora perdutamente di Elena (Gina Falckenberg), una propria paziente che, in seguito ad un grave
incidente, non può più avere figli. L’uomo la sposa ugualmente mentre la demoralizzata amante scompare dalla vita del medico. Anni dopo, per un caso, Alberto viene a sapere di questo suo figlio come pure la moglie Elena la
quale, resa folle dal dolore, arriva a rapire il piccolo. Compreso di non potere intromettersi tra un padre e una madre, Elena si suicida. Il soggetto, altamente melodrammatico, illustra la visione fascista della maternità
come pochi altri. Il tono teso e avvincente viene sottolinetato da una colonna sonora altamente simbolica: il tema malinconico del Terzo studio (op.10) di Chopin dipinge lo sconforto di una donna impossibilitata a divenire madre mentre quello del terzo Momento musicale di Schubert, opportunamente orchestrato secondo modalità rarefatte e spiritate, esprime il vortice folle in cui precipita Elena quando scopre che suo marito ha avuto un figlio da un’altra donna. A quel punto, dopo avere disperatamente desiderato una creatura propria, Elena, non a caso appartenente a quelle cerchie altoborghesi continuamente accusate dal regime di vacuità e lassismo, decide di togliersi la vita. Al contrario Anna segue il classico modello della piccola borghese fascista: attiva, sicura di sè, determinata ella non ha mai dubitato del proprio destino di madre, contro tutte le consuetudini e le avversità.
Totalmente girata in interni, la pellicola soffre del consueto taglio verboso e teatrale, tipico del maggior parte dei film di quegli anni. Ciononostante la bravura degli attori, il ritmo serrato degli eventi e la ricchezza
di contenuti assicurano ad Anime in tumulto un certo interesse. La visione della donna come anzitutto madre - tipica del periodo mussoliniano - viene confermata da questa accesa narrazione nella quale il duello tra un’amante del passato che è rimasta fedele al proprio sentimento fino al punto da sacrificarsi per far nascere e crescere il figlio nato da quell’amore e una moglie sterile (per quanto incolpevole) non può che risolversi a favore della prima anche se Alberto, un personaggio abbastanza opaco e rigido, risulta stranamente indeciso di fronte a questa scabrosa situazione, annebbiato dal sentimento amoroso che lo lega ad Elena e incapace di prendere decisioni chiare e definite. La pellicola è un inno alla donna devota alla causa della maternità.
Giorgio Bianchi esordisce girando la terza versione cinematografica de La maestrina
(ott. 1942; 80 min.), trascrizione in immagini abbastanza fedele della commedia in tre atti (1918) di Dario Niccodemi (1874-1934), dopo le versioni di Eleuterio Ridolfi (1919) e Guido Brignone (1933). La vicenda è
incentrata sulle peripezie della giovane Maria (una valida Maria Denis), una maestra che prende servizio in un paesino (si tratta di Orta San Giulio, sull’omonimo lago piemontese) vicino a quello in cui, da giovane, era stata
sedotta ed abbandonata dal perfido Giacomo (Enrico Glori), possidente locale. Dalla breve relazione era nata una bimba che la donna crede morta e che invece è stata affidata, per anni, ad una contadina ed ora si trova
addirittura nella sua classe. Il sindaco (Nino Besozzi) si innamora della giovane, scopre la verità intorno alla bambina, si scontra con il potente seduttore e lascia il paesino con la maestra. La versione filmica, preparata
dallo stesso Bianchi, elimina alcune figure di contorno della commedia originale (in essa la moglie del seduttore è addirittura l’amante del curato... ) e si concentra sul dramma patetico di Maria. La regia di Bianchi è sicura,
essenziale e dotata di un buon ritmo; i personaggi sono caratterizzati in modo univoco e i colpi di scena, inerenti i numerosi coflitti che la maestrina dal passato misterioso solleva nella popolazione locale, si succedono
senza sosta. In particolare la donna dve lottare contro una severa ed anziana direttrice (Elvira Betrone) che cerca di ostacolarla in ogni modo. Nel finale, tuttavia, la scoperta della vera natura del peccato della maestrina
scioglie ogni tensione ed anche le sue colleghe, al termine della dolorosa odissea, finiscono col sostenerla. Il film esprime compiutamente l’ideologia mussoliniana, prevalente nel cinema del periodo: la maternità viene
sempre santificata, le figure negative appartengono regolarmente alle classi dell’alta borghesia o alla aristocrazia latifondista, mentre la piccola borghesia, onesta e volenterosa (cui appartengono in definitiva tutti i
personaggi, anche il sindaco che pur si avvale di un titolo nobiliare), è ritratta con evidente simpatia. Essa può commettere qualche errore, ma è sempre pornta a riparare e, soprattutto, concepisce l’esistenza come lavoro al
servizio della collettività e strenua lotta contro ogni angheria derivante dalle disuguaglianze sociali. Maria, infatti, viene decritta come completamente assorbita dal proprio impegno scolastico mentre il malvagio
Giacomo viene presentato in una sala da biliardo, dedito a una sorta di gioco d’azzardo (il gioco era, in quegli anni, una dei vizi maggiormente criticati dal regime e dallo stesso duce in alcuni discorsi contro la borghesia
“pacifista” e “sabotatrice”). E’ insomma l’anima socialisteggiante del fascismo (si noti, al riguardo, che lo stesso Gramsci aveva recensito benevolmente il testo di Niccodemi nel 1918) a farsi largo in questo genere di
commedie. Si veda, tra l’altro, l’assai simile dittico cameriniano T’amerò sempre (1933; remake 1943) la cui vicenda portante è molto simile a quella della maestrina di Niccodemi. La pellcola possiede una propria
grazia (cui contribuisce la simpatica figura del bidello interpretato da un brillante Virgilio Rienzi), ottiene un buon successo di pubblico ma viene stroncata dall’arcigno Giuseppe De Santis (futuro autore “neorealista”di Caccia tragica)
sulla rivista Cinema, il quale reputa troppo scolastica l’intera messa in scena.
Un anno dopo Mario Camerini dirige l’intenso Una storia d’amore
(settembre 1942; 94 min.) su sceneggiatura propria, di Mario Pannunzio e di altri, pellicola che, per molti aspetti, si lega alle tematiche sopra esposte. Gianni, operaio specializzato (Piero Lulli) incontra fortuitamente Anna, una donna equivoca (Assia Noris) e se ne innamora. La giovane, stanca di un’esistenza di tribolazioni, cede al “fascino” della normalità, va a vivere con il fidanzato, resta incinta e lo sposa. Nel frattempo il passato illegale della giovane (un anno di carcere, prostituzione d’alto bordo) riemerge e causa una rissa tra Gianni e il figlio del direttore della fabbrica dove è impiegato. L’uomo, stoicamente disposto a tutto perdonare, perde il posto e cerca di tirare avanti con lavoretti di fortuna. La donna, nel tentativo di aiutarlo, accetta l’aiuto di un ex amante che, dapprima, con una telefonata fa riassumere l’uomo, poi pretende favori sessuali in cambio del proprio interessamento. Anna disperata si ritrova una pistola tra le mani e lo uccide. Condannata a dieci anni di carcere, alcuni mesi dopo la giovane entra in ospedale per partorire: sfinita muore dando alla luce una bambina; il marito, colto dalla più cupa disperazione, trova la forza di superare il trauma osservando la neonata che in qualche modo è destinata a prendere il posto della moglie.
Come le precedenti, la pellicola cameriniana costituisce un elemento di felice diversità nel panorama cinematografico coevo. Innanzitutto l’ambientazione operaia, svolta con verosimile realismo quanto ad ambienti e
psicologie, è un fatto abbastanza inusuale; essa mostra un universo modesto e austero, fatto di piccole camere ammobiliate, pranzi fugaci in latteria e interni di fabbrica ritratti con piglio documentaristico. Altrettanto
insolito è il taglio complessivamente amaro e desolato della vicenda, illuminato solo dalle ultime immagini del padre che osserva la neonata. Del tutto allineato alla mentalità prevalente è invece la simpatia nei confronti
di questi lavoratori semplici e generosi (al protagonista si affianca un ottimo Campanini nel ruolo di amico e collega di lavoro) cui si contrappone il consueto ritratto di una borghesia debosciata e “decadente”, immorale e
ricattatoria. Questo quadro composto per nette antitesi (gli umili e i potenti) fornisce materia per un costante crescendo emotivo: il riemergere del passato provoca una serie ininterrotta di disgrazie alla giovane coppia che
va a infrangersi nel fatale colpo di pistola che azzera ogni sforzo e ogni illusione di riscatto (si noti che la medesima situazione, una donna ricattata che uccide per disperazione, verrà riproposta ne La vita ricomincia di Mattoli, 1945, e Albergo Luna camera 34 di Bragaglia, 1946; vedi). La giovane viene incarcerata e l’ultima parte del film, ambientata entro gli ambienti luminosi di un reparto ospedaliero di Maternità, fornisce (pur con qualche eccesso lacrimoso) una sorta di spirituale catarsi: in questo tempio della vita la giovane protagonista arriva sfinita e consapevole che morirà durante il parto; felice tuttavia di avere qualcosa da “donare” all’amato per ricambiarlo della fiducia che aveva riposto in lei, superando faticosamente i più ovvi pregiudizi sociali. Ai distaccati piani medi dell’immagine con cui era stata condotta la precedente narrazione si sostituiscono ora intensi primi piani di Gianni e Anna, consapevoli della tragedia incombente. Eppure in quell’ambiente sereno e composto anche il peggio appare superabile: il dono della vita è dunque il momento alto che tutto consola e redime, rendendo accettabile l’eterno ciclo delle nascite e delle morti. Le serene note della sezione centrale cantabile della pianistica Fantasia-Improvviso op 66 di Chopin, arrangiate per orchestra, rafforzano (in molte pagine del film) questo atteggiamento spirituale.
Le stesse considerazioni valgono per il successivo T’amerò sempre
(novembre 1943; 93 min.) con il quale Camerini ripropone l’omonimo film da lui diretto un decennio prima. La pellicola del 1933, su un soggetto dello stesso cineasta coadiuvato per la sceneggiatura da Ivo Perilli e altri, costituiva uno degli esiti massimi dell’autore. Dunque appare motivata l’idea di rigirare il film (medesimi sono i dialoghi, le inquadrature e il senso complessivo dell’opera) con un cast nuovo che può ora avvalersi di Alida Valli e Gino Cervi, entrambi perfettamente calati nei propri ruoli. La nuova versione attribuisce in modo complessivamente inesatto la sceneggiatura (oltre che a Camerini) a Sergio Amidei: trattandosi, come si è detto, di un remake fedelissimo nei dettagli, andavano innanzitutto riconfermati gli sceneggiatori del 1933; il lavoro di Amidei consiste semmai nell’aggiunta di un intreccio secondario (quello dell’avvocato, rappresentante degli interessi di una banca, deciso a ottenere le grazie di Alida Valli in ogni modo) che serve ad allungare il lavoro (dai 70 min originari ai 93 min del 1943) senza in nulla modificare la struttura narrativa principale.
La vicenda riprende i temi di Una storia d’amore (come pure della Fuggitiva e di E’ caduta una donna) nel suo contrapporre la decisa semplicità di Adriana (Alida Valli) la quale, sedotta, messa incinta
e abbandonata da Diego (Antonio Centa), un fatuo giovanotto dell’alta borghesia, decide di mettere al mondo la propria bambina e di crescerla contro tutto e contro tutti. Camerini eleva un vero e proprio inno alle qualità della
donna-madre, creatrice e custode della vita e, contemporaneamente, sviluppa un quadro astioso come pochi altri dell’universo altoborghese della capitale. La protagonista lavora in un istituto di bellezza per signore gestito dal
perfido Oscar (Jules Berry) il quale risulta il luogo deputato di un disonesto e vacuo edonismo tra uomini a caccia di avventure coniugali e signore completamente assorbite da ogni tipo di cura estetica mentre il padrone
dell’istituto, non casualmente, parla uno snobistico italofrancese. Insomma le abituali critiche all’alta borghesia lassista e improduttiva (peraltro già presenti, sebbene leggermente più sfumate, nel film del 1933)
interpretano in modo fedele le abituali direttive del populismo fascista mentre l’accentuazione del tono antifrancese è in linea con l’ossessiva propaganda intorno a una Francia decadente (e anzi ormai sconfitta dal nazismo).
Accanto a questa umanità scostante e “inutile” si muovono i due protagonisti rappresentanti di quella piccola borghesia umile e fattiva che costituisce la forza primaria del fascismo. Adriana non cede alle lusinghe erotiche dei
frequentatori della maison di Oscar che la vogliono ridurre a serva-amante, continua a dedicarsi con stoica fermezza alla propria bambina e trova infine comprensione nella figura del contabile Mario Faustini (Gino Cervi) il
quale la corteggia, scopre poi che ha già una figlia, assorbe il duro colpo e infine decide di sposarla comunque, non prima di avere preso a pugni l’ultimo corteggiatore della donna (tra l’altro il padre della bimba che nel
frattempo ha ritrovato per caso Adriana da Oscar) e ad avere lasciato in malo modo (insieme ad Adriana) quell’ambiente. Una nuova esistenza si prepara per la coppia che ha deciso di rompere ogni legame con un ambiente tanto
malsano. Sergio Amidei (futuro sceneggiatore di Roma città aperta) e Camerini firmano pertanto un film che, nel proprio disprezzo per la mentalità dell’ “internazionalista” borghesia urbana, sviluppa con coerenza le
linee della politica culturale del regime (alcuni aspetti “popolari” di tale cinema confluiranno senza modifiche nel cinema “neorealista”; lo dimostra tra l’altro la capacità di numerose figure esemplari del cinema fascista di
riciclarsi senza difficoltà nel cinema “socialisteggiante” dell’immediato dopoguerra). Non a caso la pellicola è prodotta dalla statale Cines. In particolare il lavoro degli autori sulla figura femminile tende a esasperare le
due tipologie prevalenti della donna-seduttrice (le colleghe di Adriana) e donna-madre, elogiando quest’ultima anche al di là delle consuetudini morali (Adriana aveva sbagliato ma poi, sacrificandosi per il benessere della
figlia, si era ampiamente “redenta”) e deprecando la vuotezza esistenziale cui andava inevitabilmente incontro la scelta edonistica della prima. Il pragmatismo del regime supera, in questo frangente, la visione morale
cattolica, e loda senza condizioni sia il comportamento di Adriana, sia quello del contabile che riesce ad annientare il forte pregiudizio nei confronti di una giovane che ha gravemente sbagliato e si presenta al matrimonio
tutt’altro che illibata. Camerini conferma la propria sensibilità di attento narratore e gioca con abilità tra i contrasti più netti che animano personaggi e contesti: umili e semplici gli uni (la casa di Adriana, l’ambiente
familiare del contabile), sontuosi e artefatti gli altri (l’intero istituto di bellezza, luogo principe di ogni corruzione morale; l’ambiente familiare del seduttore di Adriana). Le stesse mimiche sono curate nel dettaglio:
sempre dirette e senza infingimenti quelle dei due dolenti protagonisti; sempre sovraccariche e ricche di doppi sensi quelle che prevalgono nella maison di Oscar, vere e proprie sfuggenti “maschere” pirandelliane governate
dalla ricerca del piacere istintivo (Oscar infatti esordisce mostrando a tutti una nuova
maschera di sua creazione). D’altronde lo stesso titolo, frase ipocrita pronunciata dal seduttore nell’incipit del film, allude all’uso menzognero e opportunista che i potenti sanno fare del linguaggio al fine di possedere ciò che loro non spetta.
Una storia d’amore e T’amerò sempre sono opere che veicolano i valori della Tradizione e che sembrano provenire da incomprensibili “galassie lontane” rispetto al nuovo millennio segnato dalla “modernità” più esasperata, dall’edonismo individualistico e dalla ossessione del corpo, delle merci e dei consumi.
testo scritto nel 2005; ultimo aggiornamento: ott. 2017
|