Il delitto di Giovanni Episcopo e Fumeria d'oppio

Il delitto di Giovanni Episcopo e Fumeria d’oppio: carnefici e vittime (1947)

                "Ah signore, chi saprà svelarmi questo mistero, prima ch'io muoia? Ci sono dunque sulla terra uomini che, incontrando altri uomini, possono farne quel che vogliono, possono farli schiavi? Si puo' togliere a uno la volontà come gli si può togliere di tra le dita un filo di paglia? Si può fare questo signore? Ma perché?"
                (G. d'Annunzio, Giovanni Episcopo)

Dopo il pasticciato e truculento Bandito, Lattuada presenta con successo alla mostra di Venezia nel settembre 1947 Il delitto di Giovanni Episcopo (94 min.). Aiutato dagli sceneggiatori Suso Cecchi D'Amico, Piero Tellini e Federico Fellini, il cineasta milanese accantona ogni venatura "neorealista" e ritorna ai drammi sentimentali che avevano caratterizzato i suoi primi film. La pellicola infatti traspone abbastanza fedelmente, spesso riproponendo i dialoghi parola per parola, il breve ed efficace racconto di d'Annunzio Giovanni Episcopo (uscito in tre puntate col titolo Dramatis Personae sulla rivista Nuova Antologia nel 1891 e in volume col titolo definitivo l'anno seguente) anche se laddove lo scrittore pescarese cercava soprattutto di indagare il nietzschano rapporto tra forti e deboli, padroni e schiavi, prendendo qualche spunto anche dai dostoevskiani Delitto e castigo (1866) e L'idiota (1868; il rapporto di tragica sottomissione del principe Miskin nei confronti di Rogozin), Lattuada sviluppa maggiormente il tema semplificato della sofferenza del protagonista finito nelle mani di una donna odiosa e vampiresca. In ogni caso l'angosciante e "notturna" vicenda dell'impiegato Episcopo dapprima ridotto a servo e derubato dal malvivente Giulio Wanzer, poi umiliato dalla opportunistica moglie Ginevra trova nel racconto per immagini del cineasta una pregevole e dignitosa trascrizione capace di illuminare il caso limite di una natura debole e remissiva. Inoltre il secondo tema del racconto costituito dallo struggente amore per il figlio Ciro, unica gioia del disgraziato personaggio, viene dipinto con commossa partecipazione: nel fulmineo epilogo sara' proprio questa devozione verso il bambino a dare a Episcopo la forza di ammazzare finalmente Wanzer il quale si rivelera' pertanto non cosi' forte e intelligente, finendo in definitiva cadavere. Il punto di forza di questo film comunque privo di momenti eccelsi e' nella interpretazione dell'ottimo Fabrizi che in parte ripete la figura del padre amoroso gia' recitata con ancor maggior partecipazione nel recente Mio figlio professore (Castellani, 1946), mentre tutte le figure intorno a lui appaiono stereotipate, a cominciare dalla simulatrice, sensuale Ginevra (una Yvonne Sanson sempre prevedibile) e dal crudele Wanzer (un Roldano Lupi monotono e privo di sfaccettature, assai migliore nella figura dell'ambiguo assassino de Il testimone di Germi [1946]).

Il film apre e chiude con due virtuositiche soggettive in pianosequenza del protagonista il quale ci introduce cosi' nella Roma umbertina e nei polverosi uffici dell'Archivio di Stato dove passa le sue grige giornate. Con questo stratagemma Lattuada "ricopia" in immagini la struttura narrativa del testo dannunziano nel quale Episcopo narra in prima persona e a cose avvenute il suo dramma ("Dunque, voi volete sapere.... Che cosa volete sapere, signore? Che cosa vi debbo dire? Che cosa? - Ah, tutto! - Bisognera' che vi racconti tutto, fin dal principio" recita l'incipit del racconto).
La pellicola si divide nettamente in due parti: Episcopo sottomesso dapprima a Giulio Wanzer, poi a Ginevra Canale. Nella prima meta' dell'opera la grigia esistenza dell'impiegato viene travolta dal ciclone Wanzer: il protagonista cambia casa, segue come un cagnolino il suo nuovo padrone, si lascia sfregiare e derubare dall'uomo forte che lo introduce in un "avventuroso" universo di persone e cose tra le quali ricordiamo l'immagine dello sfrontato Alberto Sordi al biliardo con gli amici, figura ora marginale che ritroveremo quasi identica neiVitelloni (come gia' detto Fellini e' uno degli sceneggiatori del film). Come il Leporello mozartiano odia ed ama il terribile Don Giovanni, cosi' un ambiguo legame unisce Episcopo al suo signore; ed infatti la fuga di quest'ultimo in Argentina, a causa di un furto scoperto, rende l'impiegato nuovamente un uomo libero e apparentemente felice. Eppure di questa liberta' roconquistata l'uomo sembra non sapere che farsene poiche' ripiomba in un rapporto di umiliante sottomissione sposando la disinibita ed inadatta Ginevra. Inizia il secondo calvario del protagonista, ravvivato pero' dalla presenza di Ciro. Gli intensi primi piani di Fabrizi, un genere di inquadrature che segnavano anche i momenti migliori del Bandito, comunicano con forza la dolente situazione dell'uomo, che, nel suo naufragio esistenziale, viene anche licenziato dal suo impiego all'Archivio per inefficienza. L'epilogo cruento scoppia improvviso. Lattuada modifica e appiattisce la conclusione del racconto: Episcopo uccide Wanzer in procinto di fuggire con Ginevra (dunque per non privare il figlio della non ineccepibile madre) mentre nel piu' crudo testo dannunziano il padre interviene per difendere moglie e figlio rudemente e gratuitamente malmenato dal sadico "superuomo" (tra l'altro il racconto si apre sulle struggenti riflessioni del protagonista intorno al figlioletto morto, mentre nel film Ciro sopravvive). Alla violenta fine dell'intruso segue un lacrimoso episodio conclusivo inventato da Lattuada e dai suoi sceneggiatori: Episcopo vaga col bambino febbricitante, lo porta in salvo nella vecchia casa dove abitava prima di conoscere Wanzer, lo saluta commosso lasciandolo nelle mani di Ginevra e va a costituirsi (soggettiva finale). L'accentuazione del carattere melodrammatico la quale produce spesso nel cinema italiano pagine intensamente liriche poste in evidente continuita' con la tradizione del teatro musicale, questa volta opera al ribasso e termina la pellicola imprigionandola in un reticolo di situazioni e stati d'animo scontati, perdendo la classica sobrieta' che aveva segnato larga parte della pellicola.
Se l'invenzione visiva vanta molte ricercatezze degne di menzione (pianisequenze, soggettive e primi piani), la colonna sonora dell'esperto operista Felice Lattuada delude, limitandosi a un commento corretto ma sempre prevedibile.

Dopo un prudente “esilio” spagnolo, Raffaello Matarazzo rientra in Italia intorno al 1947 e dirige La fumeria d’oppio (settembre 1947, 90 min.), fumettone inerte ispirato alle saghe avventurose che andavano di moda durante il primo cinema muto (tra gli anni dieci e i primi anni venti). Il regista, peraltro reduce da prove assai modeste nei primi anni quaranta (Giorno di nozze, 1942; Il birichino di papà, 1943; vedi), utilizza Emilio Ghione jr nel ruolo principale del bandito gentiluomo e giustiziere Za-la-Mort, riesumando così una figura popolare del cinema muto, creata dal padre dell’attore, il ben più noto Emilio Ghione, attore e regista; quest’ultimo aveva creato nel 1914 quel personaggio di successo e vi era rimasto legato fino alla morte (1930), riproponendolo in numerose pellicole. Il problema è ovviamente quello dell’aderenza di uno stile al proprio tempo e ai mutati mezzi di espressione. Se all’epoca del muto, in una cornice di irrealtà semionirica, il cinema poteva raccontare le incredibili avventure di coraggiosi avventurieri e spietati supercriminali (nel solco della tradizione ottocentesca del popolare romanzo d’appendice), nel dopoguerra, segnato dall’arrivo del crudo e relativamente realistico cinema poliziesco americano, questa riesumazione appare inevitabilmente anacronistica (Matarazzo sembra a tratti ispirarsi ai gesti e al gusto scenografico del Mabuse, 1922, di Fritz Lang) e viene infatti duramente punita dal pubblico che boicotta l’opera.
La storiella, sceneggiata oltre che dal regista, da Monicelli, Pinelli e Margadonna, racconta di un giovane (Armando Francioli) intrappolato in una fumeria d’oppio e ingiustamente accusato di un omicidio, della sua disperata sorella (Mariella Lotti) aiutata dal ladro-galantuomo Za-la-Mort (Emilio Ghione jr) e dalla sua banda di bonari malviventi (tra i quali Paolo Stoppa) e del supercriminale De Rossi (Emilio Cigoli) che ha trasformato la propria lussuosa residenza in una trappola per agiati tossicodipendenti. I buoni trionfano dopo numerose vicissitudini.
Mentre le scorribande dei malviventi sono segnate da uno stile narrativo edulcorato e artefatto (appunto ripreso da quello del cinema degli anni venti), che priva di qualunque interesse l’oggetto della narrazione, l’elemento di incredibile novità è invece costituito dalla centralità del traffico di stupefacenti e dalla descrizione della villa - prigione (l’unico elemento della pellicola dotato di un certo fascino, sia per l’elegante taglio visivo, sia per la claustrofobica e inquietante ambientazione) in cui si aggirano in stato catatonico numerose vittime del De Rossi. L’istituto della censura era stato approvato da pochi mesi e il film - un caso unico, per quel che riguarda la materia della narrazione, nel panorama cinematografico italiano del periodo - poté ancora avvalersi di una situazione di relativa libertà espressiva. In seguito l’argomento droga viene tassativamente vietato e scompare dagli schermi fino alla seconda metà degli anni cinquanta, quando sarà reintrodotto da un paio di pellicole hollywoodiane di successo di Otto Preminger (L’uomo dal braccio d’oro, 1956) e Fred Zinnemann (Un cappello pieno di pioggia, 1957).
In definitiva l’avere calato queste figure di cartapesta nel dolente e tormentato panorama dell’immediato dopoguerra, costituisce un ulteriore errore cinematografico: commissari e poliziotti, con tutte le scottanti problematiche connesse alla situazione sociopolitica del 1946-47 (che in qualche scarno dialogo sembrano far capolino), devono dare la caccia a improbabili lestofanti, abbigliati come ai tempi della Germania di Weimar e avvalersi dell’aiuto di altrettanto inverosimili ladri di buon cuore. La realtà fotografica del cinema sonoro condanna questo genere di esperimenti alla marginalizzazione, trovando ascolto solo in spettatori molto ingenui o in ragazzini in cerca di facile svago nei cinema parrocchiali.