Eugenia Grandet, La figlia del capitano, Il passatore e Cuore

Eugenia Grandet, Daniele Cortis, La figlia del capitano, Il passatore e Cuore: guardando a sinistra (1946-48)

              Non occuparsi di edizioni italiane di opere di Tolstoj, Dostoevskij ecc...”
              veline del Ministero della cultura popolare (1943)

Dopo l’encomiabile esito di Le miserie del signor Travet (1945), pellicola (come si è detto) densa di riferimenti alla problematica e sofferta realtà coeva, Mario Soldati ritorna prudentemente alla pratica della trascrizione filmica di capolavori letterari con Eugenia Grandet (settembre 1946; 95 min.), pellicola fedelmente tratta dal celebre romanzo (1833) di Honoré de Balzac, presentata alla mostra di Venezia nel 1946 e uscita nelle sale intorno all’aprile 1947. Come nei lavori tratti da Fogazzaro (Piccolo mondo antico, 1941; Malombra, 1942) il regista torinese, ora coadiuvato per la sceneggiatura dall’onnipresente Aldo De Benedetti, prende le distanze dall’oggi e si rifugia in un’era passata che riesce a restituire con quell’abilità narrativa e “pittorica” che già aveva dimostrato di possedere cinque anni prima.
Nel 1819 a Saumur il ricchissimo e avaro vignaiolo Felix Grandet (Gualtiero Tumiati), ossessionato dall’oro, governa in modo tirannico la famiglia. L’arrivo del nipote Carlo (Giorgio De Lullo) sconvolge i precari equilibri: la giovane Eugenia (Alida Valli) se ne innamora perdutamente e gli dona, al momento della partenza, il suo piccolo tesoro costituito dalle monete ricevute in regalo dal padre. Il giovane le giura fedeltà eterna e va a cercare fortuna nelle Indie occidentali (suo padre, un banchiere pieno di debilti, si è suicidato). Eugenia attende invano Carlo per molti anni; nel frattempo Felix scopre l’eretica generosità della figlia e la rinchiude in una stanza a pane e acqua mentre il giovane si arricchisce in Asia, dimenticandosi della cugina. Nel finale la protagonista, ormai sola e ricchissima (i genitori sono morti), subisce la cocente delusione di sapere che l’amato sta per sposarsi a Parigi per semplice calcolo con una donna nobile. Ciononostante aiuta ancora una volta Carlo, paga i debiti dello zio suicida, salva l’onore del futuro sposo e quindi scompare per sempre dalla sua vita.
L’intensa interpretazione di Alida Valli e di Gualtiero Tumiati (già conte Cesare in Malombra), il gusto per gli interni claustrofobici e lacerati dai chiaroscuri, l’essenziale compostezza nella quale prende corpo una tensione umana e psicologica quasi insostenibile (esemplare la sequenza dell’agonia del protagonista abbagliato, sul letto di morte, dall’oro che riluce nella croce del sacerdote che sta pregando accanto a lui), determinata dall’autoritarismo venale del vecchio padre, fanno di Eugenia Grandet un ottimo esempio di cinema letterario. Se nella prima metà il film racconta essenzialmente la paranoia del vecchio che tutto misura con l’oro, risultando singolarmente insensibile a qualunque obiezione ed esigenza dei suoi familiari, la seconda invece si concentra sulla parimenti patologica fissazione di Eugenia per un uomo che ha visto per pochi giorni e del quale non ha più notizie da anni. Sebbene quest’ultima sia un’ossessione “nobilitata” dall”Amore, risulta in definitiva altrettanto irrazionale e viene punita dalla atroce rivelazione finale.
Cambiando punto di osservazione rispetto a quello piuttosto convenzionale di Balzac-Soldati, possiamo dire che ci troviamo di fronte all’osservazione di comportamenti maniacali e assurdi. In fondo il giovane, scapestrato e opportunista, capace di risollevarsi con le proprie forze dalla tragedia familiare che lo ha colpito, appare all’occhio freddo e disincantato, l’unico “normale” in un universo di “seducenti”, morbosi fanatici. In definitiva l’Avere e l’Amore, il patrimonio e il matrimonio, le naturali inclinazioni dell’uomo e della donna, vengono ritratti in versioni passionali estreme dalla sensibile regia di Soldati aiutato inoltre da un’espressiva e melodrammatica colonna sonora di Renzo Rossellini.
L’antipatia manifestata dall’ultimo cinema fascista per la ricca borghesia e per la “vacua” nobiltà trova nuovi accenti in questa pellicola di Soldati la quale descrive papà Grandet come un essere cinico e brutale e la corte parigina in cui si dibatte Carlo Grandet come un nido di vipere, di aristocratiche infedeli e di arrivisti senza scrupoli. Le uniche figure equilibrate e dotate di buon senso sembrano essere quelle dei popolani che si aggirano a casa Grandet (la domestica e il suo corteggiatore). In un’atmosfera politica assai mutata gli stereotipi del cinema di regime tornano utili ora al Fronte popolare di cui sembrano adesso incarnare gli schietti valori “proletari”. E’ proprio in apparenti contraddizioni come questa che si manifesta la tanto vituperata continuità tra epoca fascista ed epoca repubblicana, una continuità che si è già consumata nel niente affatto traumatico passaggio di buona parte della nomenclatura culturale “mussoliniana” all’universo valoriale della sinistra italiana.
Solo un mese dopo Eugenia Grandet esce nelle sale italiane un’altra pregevole trascrizione letteraria di Mario Soldati: Daniele Cortis (maggio 1947; 88 min.), dall’omonimo testo (1885) di Antonio Fogazzaro (terzo film del regista torinse tratto da romanzi dello scrittore vicentino, dopo Piccolo mondo antico e Malombra; vedi), sceneggiato da ben sei autori (manca però proprio Soldati) tra i quali si ricordano il giovanissimo Comencini, il cattolico Diego Fabbri e il laico Aldo De Benedetti. Il film viene prodotto dalla Universalia (legata al Vaticano) e appare quindi un prodotto sostanzialmente teso a valorizzare uomini, vicende e scelte morali allineate a una visione religiosa dell’esistenza la quale costituisce un facile bersaglio del cinema del dopoguerra italiano, egemonizzato dalle forze laiche, socialiste e comuniste. In ogni caso, accanto alla naturale prevalenza del dettato cattolico - naturale conseguenza della scelta di un testo letterario profondamente morale, scritto da un autore convertitosi in gioventù alla religione romana - si può notare l’incunearsi di alcune componenti di stampo laico - progressista.
La vicenda, ambientata negli anni ottanta dell’Ottocento, è quella di Daniele Cortis (Vittorio Gassman) - a tratti una sorta di alter ego di Fogazzaro - il quale aspira a portare in Parlamento una visione politica nuova in cui riforme sociali radicali si leghino a una profonda rivalutazione del sentimento cristiano, realmente emarginato nel “massonico” regno umbertino. Nel testo letterario Cortis, parlando ai suoi elettori, affema: “ io vedo nel mio pensiero un luminoso e possibile ideale di democrazia cristiana”. Si può comprendere come questa visione premonitrice di Fogazzaro risulti funzionale ai desideri del nuovo partito di De Gasperi e come la sua riesumazione, in un film intenso ed elegante, risulti utile al partito cattolico il quale si trova alle soglie di alcune decisive tornate elettorali.
Accanto all’aspetto politico si trova la drammatica vicenda amorosa che costituisce il cuore narrativo del racconto. Daniele ama - fin dagli anni della gioventù - la cugina Elena Carrer (Sarah Churcill, figlia del celebre statista) la quale però, cedendo alle insitenze materne, si è sposata giovanissima con il rozzo barone di Santa Giulia (Gino Cervi), siciliano sanguigno, senatore del regno e giocatore incallito. La pellicola si aggira dunque intorno a questo amore impossibile, sofferto, a tratti delirante, denso di sfumature erotiche eppure alla fine represso in nome del cattolico sacramento del matrimonio. La coppia passa lunghi pomeriggi in passeggiate entro i vasti possedimenti della aristocratica famiglia veneta (siamo dalle parti di Vicenza, città natale di Fogazzaro), indugia nei pressi di un’antica incisione che mostra due mani eternamente unite, destinata però a rivelarsi un falso segnale. Durante l’ennesimo incontro in quello scenario i personaggi notano che le antiche scritte risalenti all’epoca della Roma imperiale sono state cancellate da successive incisioni dell’epoca cristiana, come a dire che quell’immagine non allude all’amore passionale e trasgressivo ma a quello sancito da un’unione sacra davanti a Dio. E così sarà. Quando lo scellerato barone si troverà a un passo dalla rovina e dalla galera (a causa dei suoi illimitati debiti di gioco) Elena - lasciata libera dal marito indegno - decide di riunirsi proprio a lui, di evitare la strada più facile dell’amore con Daniele e di legare per sempre il proprio destino a quello del marito, costretto dagli eventi a lasciare l’Italia per l’America (per il Giappone, nel testo ottocentesco).
Il film eleva dunque un sofferto inno all’amore coniugale, capace di reprimere altri desideri - più seducenti, ma anche rovinosi in certi casi. Una grave vicenda secondaria incombe sull’intera narrazione: Daniele scopre che la madre non è morta - come gli si era stato fatto credere da bambino - ma vive in miseria a Lugano; scopre che la donna ha abbandonato lui e la famiglia per un amore illegittimo e che ora si trova sola e oberata di debiti in una grande dimora, oscura e opprimente. Questo simbolo tragico del peccato e dell’errore domina la storia dei patonici amanti e li condiziona. Soldati evita la forzatura esistente nel testo di Fogazzaro che riannoda i personaggi facendo dell’adultera anche l’amante antica dell’attuale marito siciliano di Elena. In ogni caso l’abbandono “laico” al desiderio e la rottura dei sacri patti viene indicata come fonte di eterno dolore e di umana miseria.
Si può comprendere come quest’opera - tanto austera e peraltro diretta con grande maestria figurativa dal regista - vada incontro a un solenne fiasco commerciale (tra l’altro l’uscita a distanza di un mese di Eugenia Grandet e Daniele Cortis - ossia di due pellicole simili per ambientazione e taglio letterario - è una scelta certamente sciagurata). Ciò a discapito delle numerose qualità del lavoro, certamente la migliore delle tre prove di Soldati ispirate a Fogazzaro. Nel Cortis infatti la condotta registica è ammirevole, serrata nei ritmi, creativa nell’organizzazione dell’intreccio “polifonico” (spesso le vicende relativamente autonome di Daniele ed Elena si intersecano in magistrali sequenze condotte con un brillante montaggio alternato), fluida nei frequenti movimenti di macchina, ombrosa e malinconica nel ritrarre lo sconforto di Elena, abile nel legare la densa e ciaikovskiana partitura di Nino Rota ai tormenti “tristaniani” dei due protagonisti e capace di immergere le scolpite figure umane entro cesellate e palpitanti cornici ricche di storia, come saprà fare in seguito il Visconti del Gattopardo (1963), di Vaghe stelle dell’orsa... (1965, film imparentato con il Cortis) e Morte a Venezia (1971).
D’altro canto la critica coeva si accanisce - prevedibilmente - sul Cortis di Soldati nello stesso modo in cui quella letteraria si accanì sul Cortis di Fogazzaro. La visione cattolica - naturalmente conservatrice (anche se poi Fogazzaro fu, nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento, un sostenitore del rinnovamento in direzione modernista della Chiesa e i suoi ultimi romanzi vennero messi all’Indice negli anni di Pio X) - risulta indigeribile alla maggioranza dei commentatori, schierati ora nettamente a sinistra, ora in ambito laico - massonico. Si parla perciò di “vecchiume” (confondendo gli arredi delle dimore con lo stile del racconto), di film “nato morto” e via dicendo, assecondando una logica, in ultima analisi, miope e anche servile (è evidente che non solo il film non porta voti a sinistra, ma semmai li sposta verso il centro cattolico), laddove il Cortis appare oggi (ai pochissimi in grado di recuperarne una copia) stimolante e denso di suggestioni sia tematiche, sia figurative proprio nella sua capacità di dar voce a un universo austero e solenne, nel quale le scelte appaiono - in definitiva - frutto di ragionamenti e di scelte esistenziali che tendono a minimizzare ed emarginare il dato emotivo come qualcosa di fallace, di cui diffidare.
Il punto debole è invece costituito dagli interpreti - spesso legnosi e poco convinti di quanto vanno facendo e dicendo. Si salvano il luciferino Cervi (a tratti) e la folla dei caratteristi. Purtroppo la Churchill e soprattutto Gassman non riescono a infondere vita profonda ai loro personaggi.
Infine si è accennato alla presenza di venature laiche nel racconto. Esse si incentrano nel tratteggio del barone di Santa Giulia, uno scialacquatore opportunista, venale e autoritario sul quale piovono gli strali degli sceneggiatori. Nulla sembra salvarsi in questo barone siciliano che ha fatto un matrimonuo di convenienza con una ricca nobildonna del “civile” Veneto e che, dopo averla spremuta in ogni modo, minaccia di mandarla “in esilio” a Cefalù. Nell’impietoso ritratto di questo politicante senza dignità, gli autori sembrano volere ricordare per l’ennesima volta la presenza di un meridione italiano “arretrato”, poco “illuminato”, maschilista, oppressivo, indolente e dedito a ogni tipologia di vizio (il gioco d’azzardo, le donne facili). E’ una tematica ricorrente nel paternalistico cinema del dopoguerra che conta numerosi, “sapienti” intellettuali del nord tra gli sceneggiatori. Il sud non si è ribellato al fascismo, non ha conosciuto la Resistenza, ha votato per la monarchia al recente referendum (giugno 1946) e sostiene caparbiamente il partito cattolico. L’ostilità del mondo della cultura - quasi interamente votato alle differenti forme del modernismo laico, socialista e comunista -  è quindi totale. Finché quel nemico non verrà sbaragliato, l’accesso al Potere per le sinistre sarà cosa ardua. Ecco dunque il barone di Santa Giulia, nuova, strumentale incarnazione dell’ “orrore” sudista, ad ogni passo confrontato con il candore colto, riflessivo e parsimonioso della aristocrazia veneta, incarnata da Cortis e da Elena.
Insomma qualcosa di “progressista” nel film c’era, ma troppo nascosto tra le pieghe di un racconto morale d’altri tempi. La critica non si lasciò commuovere ed emarginò l’opera. Sessant’anni dopo infatti Danele Cortis risulta essere uno dei film “d’autore” meno conosciuti della storia del cinema italiano.

Nel 1941-42 la Lux Film aveva progettato un dittico “russo” ispirato alle opere letterarie di Puskin: accanto al “provocatorio” Un colpo di pistola (Castellani, 1942; vedi) l’amministratore delegato della casa di produzione torinese, il musicologo verdiano Guido Gatti, aveva già avviato contatti e spedito contratti (a Assia Noris, Cesare Pavese, Elio Vittorini e altri) nel dicembre 1941 per una riduzione filmica de La figlia del capitano (1836), romanzo storico scritto dal poeta russo ispirandosi anche ai popolari libri di Walter Scott. Nel marzo 1942 tali accordi vengono sospesi e l’impegno della Noris con la Lux Film sfocia invece nella realizzazione del valido Una storia d’amore (settembre 1942; vedi) diretto da Mario Camerini. Tra i motivi potrebbe figurare la logica irritazione del ministero della cultura popolare il quale infatti, tra le veline del 1943, inviava ai giornali la tassativa indicazione: “non occuparsi di edizioni italiane di opere di Tolstoj, Dostoevskij ecc...”. Se non bisognava occuparsene con piccole segnalazioni, a maggior ragione dovevano risultare sgradite operazioni di ben più ampia rilevanza come le trascrizioni filmiche di testi letterari celebri di una nazione in guerra con l’Italia.
Il progetto viene ripreso negli anni postbellici e sfocia nella realizzazione di una pellicola girata con ampi mezzi spettacolari: La figlia del capitano (ottobre 1947; 100 min.), film diretto da Camerini sulla base di una sceneggiatura curata da Mario Monicelli, Steno, Ivo Perilli, Carlo Musso e dallo stesso regista, diviene rapidamente uno dei grandi successi commerciali del periodo. Gualino ha messo a disposizione ingenti capitali per la realizzazione della pellicola (vicino Nettuno viene ricostruito un intero villaggio russo) e il produttore Dino De Laurentis esulta: “La figlia del capitano è una cannonata....è indubbiamente un film destinato a incassare un gran mucchio di quattrini” (agosto 1946); presentato nel settembre 1947 a Cannes il lavoro ottiene un successo di pubblico ma (come prevedibile) nessun premio.
La vicenda ricalca quella di Un colpo di pistola: nella fortezza di Belygorsk durante il regno di Caterina II (1762-96), due ufficiali, Piotr Grinev (Cesare Danova) e Svabrin (Vittorio Gassman) si contendono l’amore di Maria, (Irasema Dillan), la figlia del capitano. Intanto infuria la vasta ribellione popolare guidata dal bandito Pugacev (Amedeo Nazzari) che si fa passare per Pietro III (ex marito di caterina, assassinato nel 1762). La fortezza cade, Svabrin tradisce e passa coi ribelli, Piotr rimane fedele alla zarina. Si giunge al duello tra i due rivali: il malvagio Svabrin, ferito a morte, accusa ingiustamente Piotr di essere anch’egli un traditore. Maria riuscirà solo in extremis a ottenere la grazia da Caterina mentre nelle ultime immagini Pugacev, arrestato e condannato, si avvia al patibolo.
Dopo tre lavori di indubbio valore (I promessi sposi, Una storia d’amore e Due lettere anonime; 1941-45) Camerini ripiega su questa pellicola meramente illustrativa e priva di qualunque valore artistico. Gli eventi si succedono prigionieri dei più scontati stereotipi della narrativa storico-cavalleresca e dal torpore generale emerge solamente la fiammeggiante interpretazione di Nazzari nei panni del ribelle Pugacev. Proprio nel disegno di tale figura si nota un elemento di indubbio interesse riguardo alla collocazione politica del film. Si era detto che proporre nelle sale Un colpo di pistola nel 1942 doveva apparire a molti una vera e propria provocazione, considerando la situazione di scontro apocalittico che divideva in quei mesi Italia e URSS. Nel 1947 invece il contesto politico è radicalmente mutato: la Russia di Stalin appartiene al consesso dei vincitori ed è rappresentata in Italia da un potente partito comunista; la guerra fredda deve ancora incominciare (anche se le avvisaglie sono ormai nette e preoccupanti) e dunque firmare un omaggio alla cultura russa appare quanto di più auspicabile. Peraltro proprio la particolare cura, quasi una sottile complicità, con cui viene delineata la figura di Pugacev (non a caso affidata al simpatico Nazzari, attore che incarna nell’immaginario popolare l’eroe positivo), sorta di socialista rivoluzionario ante litteram, attento alle esigenze dei contadini affamati e pronto a redistribuire le terre una volta raggiunto il potere, non può non risultare un palese ammiccamento alla cultura comunista e a quella corrente di simpatia verso Stalin e il sistema sovietico che Togliatti e soci cercano di rafforzare nella cultura italiana, tra gli intellettuali e perfino tra la borghesia progressista e “illuminata”. Si tratta di caute allusioni (in fondo Pugacev è uno spietato assassino) le quali, tuttavia, riescono a conferire una patina di rovente attualità a una pellicola altrimenti polverosa e stantia. La collocazione politica della (un tempo) “dissidente” Lux Film si viene pertanto chiarendo in questo complicato dopoguerra: essa si muove in quell’ambito laico-progressista che, opponendosi alla crescita del consenso popolare verso i democristiani, si situa a fianco dei socialcomunisti, sebbene con qualche timidezza e paura.
Nel 1958 Dino De Laurentis affida ad Alberto Lattuada il compito di portare nuovamente sullo schermo il romanzo di Puskin con il titolo La tempesta (con Silvana Mangano); anche questa versione otterrà un brillante successo commerciale.

Duilio Coletti, originario di Penne (vicino Pesaro, 1906), negli anni trenta si trasferisce a Roma per dedicarsi al cinema. Dopo qualche sceneggiatura esordisce alla regia con Pierpin (1935). Nel decennio seguente firma sette pellicole e in seguito, aiutato da una folta schiera di sceneggiatori (tra cui si notano Federico Fellini e Tullio Pînelli), mette in immagini Il passatore (ottobre 1947; 97 min.), film tratto dal romanzo di Bruno Corra (1920). Inserendosi nel filone del cinema storico-avventuroso (cui appartengono sia Eugenia Grandet, sia La figlia del capitano) l’autore offre all’ingenuo pubblico italiano un’illustrazione abbastanza puerile delle gesta di Stefano Pelloni (1824-51) detto il Passatore, bandito “galantuomo” che seminava il terrore nelle Romagne governate da Pio IX intorno alla metà dell’Ottocento. Rossano Brazzi, il bello di turno, fornisce una versione risibile del malandrino il quale a volte ruba ai ricchi per aiutare la misera gente, a volte invece uccide un sacerdote a sangue freddo (Carlo Ninchi), zio della sua spasimante (Valentina Cortese), altre volte infine si scontra coi carabinieri di cui fa strage; ovviamente la sua banda è una bella e simpatica brigata costretta dalle circostanze alla vita raminga e criminale (tra i numerosi ladroni, del tutto fuori parte compare anche Alberto Sordi, interprete stranamente declassato dopo la bella prova fornita in Le miserie del signor Travet, M. Soldati, 1945). Dunque le solite inverosimili sciocchezze (nonostante le belle firme in sceneggiatura), premiate da un notevole successo popolare, le quali risultano quanto mai insolite e anacronistiche laddove si ricordi che un bandito con tratti vagamente simili al nostro stava insanguinando la Sicilia: Salvatore Giuliano, legato alla sua gente di Montelepre, ruba, uccide, si scontra con i carabinieri e si accolla un’intera, efferata strage (Portella della Ginestra, 1° maggio 1947) finalizzata a intimidire il PCI. L’idealizzazione del Passatore appare dunque fuori luogo e conferma il fatto che il cinema di impostazione non realistica farebbe meglio a non interessarsi di vicende storiche (quasi sempre venate di tragicità) poiché esso scivola facilmente in arbitrarie, fatue e spesso irritanti fantasticherie. Di contro il racconto realistico, per quanto sempre ideologicamente orientato, spesso reticente e deformante, possiede almeno (nella maggioranza dei casi) il merito di non nascondere la gravità dei fatti di cui si occupa.
Pochi mesi dopo Coletti porta sullo schermo Cuore (marzo 1948; 95 min.), il celebre romanzo (1886) di De Amicis, avvalendosi della collaborazione di Vittorio De Sica nel triplo ruolo di sceneggiatore, produttore associato e attore. Aiutato da uno stuolo di sceneggiatori (oltre al futuro autore di Ladri di biciclette ci sono Oreste Biancoli, Adolfo Franci e Gaspare Cataldo) l’operazione di Coletti appare assai curiosa a causa della totale libertà con la quale il testo di De Amicis viene manipolato e ricca di valenze politiche. Ci troviamo alle soglie dello “scontro finale” tra DC e Fronte popolare: le elezione del 18 aprile stabiliranno in modo definitivo l’appartenenza dell’Italia a uno dei due blocchi (appartenenza già ampiamente stabilita a Jalta) e sebbene il PCI non nutra grandi speranze e sia consapevoli dell’impossibilità di capovolgere la situazione italiana, tuttavia ambisce a una forte affermazione elettorale che lo renda forza popolare radicata e autorevole, capace in futuro di condizionare ampiamente la politica americana in Italia. Inoltre la strategia imposta da Stalin e Molotov a Togliatti prevede un cauto attendismo, pronto però a sfruttare il minimo cedimento della parte avversa.
Il film di Coletti-De Sica sfrutta il richiamo del romanzo Cuore per raccontare in definitiva qualcosa d’altro: messi da parte i celebri racconti che si trovano nel libro (fa eccezione una breve e modesta illustrazione de La piccola vedetta lombarda), il film reinventa la figura del maestro Perboni che diviene ora un fervente socialista (prendendo spunto dalla formale adesione di De Amicis al partito socialista, avvenuta però cinque anni dopo la pubblicazione di Cuore) impegnato in comizi pubblici, in un’attività di pubblicista d’opposizione e soprattutto nel distinguere durante le lezioni scolastiche tra guerra patriottico-risorgimentale e guerra coloniale di conquista, aggressiva e inutile. Per tale attività pacifista egli viene allontanato dall’insegnamento; una sua collega, la maestra dalla penna rossa (Maria Mercader), intercede per lui presso un notabile progressista della Massoneria il quale riesce a ottenere la riassunzione dell’amareggiato Perboni. Nel finale il maestro viene richiamato in servizio militare e mandato a combattere in Africa: morirà in combattimento.
Come si nota Cuore c’entra pochissimo. La sceneggiatura invece approfitta della popolarità del romanzo per ridisegnare un protagonista (perfettamente interpretato da De Sica) allineato alle posizioni del Fronte popolare: Perboni è socialista, critica i progetti coloniali di Crispi (sebbene imprecisata, l’ambientazione torinese appare spostata di un decennio, in un’epoca di aperto scontro sociale, alle soglie della catastrofe di Adua, 1896) sottintendendo un guidizio negativo sull’intera politica coloniale del recente fascismo e parla di un’Italia pacificata e attenta esclusivamente al proprio sviluppo interno. Sono le idee dei socialcomunisti (ma anche di alcuni settori laico-massonici dell’ex partito d’azione, verso i quali il film guarda con simpatia grazie alla figura dell’influente politico interpellato dalla maestrina) i quali, su ordine di Mosca, diffondono ideali neutralisti volti a rendere l’Italia (lo stesso vale per il dibattito coevo sulla Germania divisa) un paese smilitarizzato e debole, facile preda nel medio periodo degli eserciti dell’Est europeo.
La pellicola offre un prodotto di buon valore grazie alla elegante ambientazione ottocentesca, alla intensa prova degli attori (brava anche la Mercader nel ruolo della maestrina; inoltre si notano un giovane Salvo Randone e tra i bambini le incisive maschere di Carlo Delle Piane ed Enzo Cerusico) e alla calibrata e dinamica sceneggiatura; essa ottiene infatti un ottimo successo commerciale.
Successive versioni di Cuore si avranno con il film di Romano Scavolini (1973) e con la versione televisiva in sei episodi di Luigi Comencini (Raidue, 1984) ove i ruoli di Perboni e della maestrina sono affidati a Johnny Dorelli e a Giuliana De Sio.