Fabiola e Il conte Ugolino: il nuovo mondo cristiano (1949)
“Si consideri il cinema: nella lotta tra moralità e immoralità, fra
coscienza e piacere, fra Dio e non-Dio, in altre parole fra mondo
nuovo e mondo condannato, è un settore da custodire con
estrema diligenza: ogni settimana vi passano centinaia di milioni di
uomini, bevendo le idee nel modo più facile. Ebbene....noi siamo
assenti: gli spettatori vi si avvelenano il cuore....e noi, noi che
sappiamo il tesoro di Dio, non opponiamo pressochénulla a una così
violenta offensiva”.
Padre Lombardi, Per un mondo nuovo (1951)
“e disser: <Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia>”
D. Alighieri, Inferno (canto XXXIII)
Tre anni dopo il contributo cattolico-resistenziale di Un giorno nella vita (1946; vedi) Blasetti torna sugli schermi con un vero e proprio kolossal ricco di ambizioni simboliche ovvero Fabiola
(marzo 1949; 164 min.) finanziato dalla Universalia, casa di produzione cattolica nata nel 1946 e diretta da Salvo D’Angelo. La pellicola, ispirata all’omonimo romanzo del cardinale Nicholas Wiseman (1854), viene sviluppata in sceneggiatura da un inverosimile esercito di scrittori che copre idealmente l’intero arco delle forze politiche costituzionali (ricordiamo tra gli altri Antonio Pietrangeli, Diego Fabbri, Vitaliano Brancati, Cesare Zavattini, Suso Cecchi D’Amico, Umberto Barbaro, Renato Castellani), costa una fortuna e ottiene un trionfale successo. Vi si narrano, nella Roma di Massenzio (intorno al 310), le peripezie di Fabiola, figlia di un potente senatore romano ucciso in modo misterioso. Tutto sembra accusare i cristiani che vengono prontamente perseguitati e anche la protagonista appare incerta su cosa credere; agli spettatori è invece chiaro fin dall’inizio che l’uomo è la vittima sacrificale necessaria a un traballante potere imperiale per avviare una carneficina volta a disperdere la minaccia cristiana. Costantino è alle porte e il regno di Massenzio ha i giorni contati. Nel truculento finale anche Fabiola sceglie di immolarsi nell’arena insieme ai perseguitati: è il segnale della svolta; il popolo finalmente reagisce, le milizie abbandonano una dirigenza politica criminosa e Roma diventa cristiana.
Il vasto e solenne affresco conta almeno tre “atti”: una prima parte introduttiva che racconta la difficile convivenza delle due comunità romane, quella pagana, violenta e tronfia della tradizione antica e quella nuova,
pacifista e remissiva che prega il Cristo. Numerosi sono i personaggi che fungono da ponte tra i due mondi: il centurione Sebastiano (Massimo Girotti) che fa il doppio gioco (liberamente ispirato alla figura del martire
Sebastiano, poi fatto santo e ritratto in centinaia di affreschi e pale d’altare), il fiero legionario Quadrato (Gino Cervi) tornato in patria dalle Gallie dopo lunghe peripezie, la stessa vittima predestinata ovvero il
senatore Fabio Massimo (Michel Simon) e infine Sira (Elisa Cegani), serva di Fabiola. Queste figure rappresentano dunque quella Roma tollerante ormai disposta a venire a patti con il nuovo culto orientale. Chi non vuole
cedere tuttavia pone in essere il piano criminoso: l’omicidio del senatore Fabio costituisce pertanto il secondo atto del racconto il quale accantona la pittura ambientale per sviluppare una sorta di giallo giudiziario
evidentemente influenzato dal coevo cinema hollywoodiano. La terza e decisiva sezione ritorna all’affresco corale ora volto in tragedia collettiva: le fazioni tolleranti soccombono, gli intransigenti hanno mano libera e
scatenano la soldataglia in un’orgia di sangue senza precedenti; donne, vecchi e bambini vengono soppressi secondo modalità sadiche (non manca l’esibizione di un seno femminile, il primo nel cinema italiano postbellico,
immagine nella quale il regista replica il celebre nudo presente ne La cena delle beffe; ora però il Centro Cattolico appare ben altrimenti conciliante, assegnando alla pellicola solo un “adulti con riserva”) in un
crescendo di tensione che trova il proprio apice catartico nell’arrivo di Fabiola e nella svolta epocale presente nelle ultime immagini allorché le armi vengono abbandonate per lasciare che il nuovo mondo cristiano possa
manifestarsi in tutto il suo luminoso splendore. Il rinnovato impegno cinematografico dei cattolici risponde alle serpeggianti preoccupazioni indotte da un universo dello spettacolo che sta contribuendo a trasformare in
modo inesorabile una società tradizionale e cattolica in una comunità più libertaria, laica ed edonistica. Dà voce a questi timori soprattutto la popolare figura di padre Lombardi che nel suo “bestseller” Per un mondo nuovo (1951) scrive: “Fra i punti in cui dovrà farsi sentire la nostra azione in favore della pubblica moralità, citiamo a mo’ di semplice esempio il problema degli spettacoli.
I cattolici devono vivamente sentirlo, giacché oggi c’è la più frequentata scuola di malcostume: si è arrivati a estremi difficilmente immaginabili per chi è profano in argomento....Intanto il numero delle sale cinematografiche
aumenta di continuo, e aumenta il numero degli spettacoli e l’influsso del cinema si allarga, per l’efficacia impareggiabile con cui il cinema suscita i sentimenti mediante semplici immagini, anche in gente che non sarebbe
molto capace di ragionare” (pag. 418). Il grande film di Blasetti (insieme a quello più mistico di Genina su Maria Goretti) doveva costituire un punto di partenza per costruire un cinema alternativo e concorrente, capace di
arginare le ideologie individualistico-scettiche mediante un rinnovato ardore fideistico e morale. Le cose, come noto, andranno altrimenti e l’audace tentativo si spegnerà già agli albori del decennio seguente. Al di là dei
modesti meriti stilistici (la scrittura è solamente abile e inanella tutti gli stereotipi possibili di una narrazione manichea) l’importanza storica di Fabiola giace inoltre nel paragone solenne e spavaldo che viene stabilendo tra passato antico e problematico presente ossia tra il passaggio storico dalla prima alla seconda Roma (da quella pagano-imperiale a quella cristiano-medievale) e la simile trasformazione in atto di un’Italia ormai definitivamente traghettata dall’impero neopagano fascista-monarchico (in cui, come noto, i riferimenti all’arcaica epoca imepriale si sprecavano) all’universo nuovo della DC di Alcide De Gasperi. Blasetti canta la soddisfazione di quella ampia comunità cattoliva la quale, nuovamente perseguitata (e materialmene distrutta) nell’Ottocento dall’enfasi laico-massonica che animò la stagione risorgimentale, riesce a prendere (per la seconda volta) il sopravvento dopo la disfatta dello stato dei Savoia e del fascismo. In questi mesi conclusivi degli anni quaranta, così come molti secoli prima, un “nuovo mondo” cristiano emerge dalle macerie e si profila come forza egemone.
Insieme a Il cielo sulla palude (Genina, 1949; vedi), Fabiola costituisce il momento culminante di quel cinema neocattolico (di cui molto si è detto) che, a partire dai Promessi sposi (1941) cameriniani si è sviluppato passando per i desichiani Bambini ci guardano e La porta nel cielo (1944-45), per il rosselliniano Roma città aperta (1945) e il blasettiano Un giorno nella vita (1946). Corrente filmica minoritaria e intermittente (numerosi autori la coltivarono in modo saltuario e forse opportunistico, in stretta relazione agli eventi storico-politici) essa trova dunque in questo orgoglioso affresco, al quale collaborano una quantità impressionante di attori esemplari della storia del cinema italiano, una stesura definitiva nella quale si stigmatizzano con patetico rimpianto le brutalità di un paganesimo che sono innervate dai ricordi più atroci della orrenda guerra civile da poco terminata. Nella strage degli innocenti che occupa l’ultima parte del lavoro le scelte criminali della dirigenza imperiale finiscono con l’andare oltre il contesto storico dell’antica Roma per ritrarre in modo allegorico le pagine più drammatiche e oscure dei totalitarismi hitleriani e staliniani, entrambi nemici acerrimi del pacifismo cattolico. Il passaggio attraverso gli inferi di un Potere sanguinario verso la luce di una nuovo ordine pacifico costituisce la sostanza più intensa e ricca di umanità di questa pellicola non particolarmente originale nei suoi dettagli.
Il grande successo popolare va anche posto in relazione con i brucianti ricordi della recente tragedia bellica di cui l’opera finisce con l’essere una sorta di esorcismo mostrando da un lato l’orrore infinito del fanatismo
ideologico e dall’altro la capacità di debellarlo insita nella parte più sana e razionale dell’umanità. La visione odierna del film, in un mondo totalmente diverso, non può cogliere tutte queste sfumature e rende dunque Fabiola solo un documento storico di un’epoca lontana, ormai largamente incomprensibile.
Un anno dopo l’avvincente Cavaliere misterioso (1948) Riccardo Freda firma un nuovo film avventuroso e in costume, basandosi su un sommario soggetto di Luigi Benelli, sceneggiato della coppia Steno-Monicelli:
Il conte Ugolino
(novembre 1949; 86 min.). Affidato a un monocorde, tronfio Carlo Ninchi il ruolo principale, il regista racconta le disavventure di un uomo troppo potente e troppo odiato nella Pisa marinara del 1284, in guerra con Genova. Nel rozzo racconto, privo di relazioni ed anzi in contrasto con i fatti storici, si immagina un inverosimile complotto di palazzo il quale causerebbe la pesante e definitiva sconfitta navale della Meloria (6 agosto) con il solo fine di incastrare il conte, colpevole di non essere intervenuto in tempo a difesa delle navi pisane (in realtà tradito e “immobilizzato” da un falso messaggio). Il viscido arcivescovo Ruggieri (Peter Trent) che guida il governo, pur di coprire le gravi colpe del figlio (principale responsabile dell’accaduto), preferisce dare credito ai nemici di Ugolino che viene così murato vivo con figli e nipoti nel proprio castello. Alcuni giorni dopo, la figlia Emilia (Gianna Maria Canale) ottiene dal Papa clemenza e giustizia e all’apertura della torre la donna contempla l’immondo spettacolo dantesco (descritto nel canto XXXIII dell’Inferno),
spettacolo peraltro non mostrato e sottinteso nello sguardo inorridito della giovane. Va ricordato che i fatti storici furono altri: proprio dopo la sconfitta della Meloria (battaglia alla quale il protagonista partecipò,
sebbene alcuni parlino di una sua fuga anticipata dallo scenario bellico) Ugolino diventa podestà e guida la repubblica per quattro difficili anni; viene deposto e murato vivo con alcuni familiari solo nel 1288; muore in
prigionia nel 1289. Dunque la pellicola di Freda è l’ennesimo esempio di scomposta faciloneria posta in atto da soggettisti e sceneggiatori al solo fine di creare un efficace condensato drammaturgico di eventi storici del tutto
differenti. Peraltro nessuno, dotato di raziocinio, può dar credito a un complotto che, per affossare un solo uomo, per quanto potente, mandi alla malora un’intera flotta con conseguenze nefaste per la vita della propria
patria. La vivacità e l’abilità nella costruzione degli intrecci, ben presente nei due fortunati lavori di Freda dell’anno passato (I miserabili e il già citato Cavaliere), lasciano quindi il posto a un
disegno raffazzonato e ad una ripetitiva e monocroma staticità affidata a personaggi tutti a senso unico: l’esuberante, stolto protagonista, la cortigiana traditrice, la figlia devota, i subdoli avversari. Ad essi si aggiunge,
in una posizione centrale, la figura del terribile arcivescovo Ruggieri la cui sfacciata e sinistra disonestà finisce per calare l’intera pellicola entro il recinto di un generico anticlericalismo (anche se il Centro Cattolico
“assolve” il film con un bonario “adulti con riserva”) che sembra volersi contrapporre alla grandiosa operazione blasettiana. E’ forse questo aspetto “battagliero” l’unico elemento di cui prendere nota ovvero la risposta
immediata del laicismo al colossale prodotto (che resterà sostanzialmente isolato nella storia del cinema italiano del periodo) della propaganda vaticana. Per il resto il polveroso racconto di Freda si snoda quasi tutto in
scenari di un Medioevo goffo e racchiuso in claustrofobici interni per tagliare sui costi. Vi sono tuttavia alcuni punti di contatto con Fabiola nella centralità di un ordito “poliziesco” con una scena in “tribunale” (il giudizio e la condanna del conte) e nella figura di una figlia in lotta per avere giustizia. Se il fortunato modello era forse presente agli sceneggiatori, l’esito commerciale è stato invece assai differente poiché la pellicola frediana si è risolta in un mezzo fiasco.
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