I compagni

I compagni: il momentaneo tramonto del film storico-politico (1963-64)

          “I compagni commercialmente fu un insuccesso. Se fossero andati a vederlo gli
           iscritti ai partiti di sinistra, e non parlo dei simpatizzanti, avrebbe dovuto avere
          milioni di spettatori, e invece il film non attirò neppure i figli o i nipoti o i
           pronipoti di quelli che nel film erano rappresentrati”
          dichiarazione di Age

Il percorso culturale iniziato con Il generale Della Rovere (Rossellini, 1959) termina con un trittico di film che sembrano interessare abbastanza poco il grande pubblico. In particolare possiamo considerare I compagni (ottobre 1963; 131 min.) di Mario Monicelli il film che chiude ufficialmente quella stagione (Il terrorista di De Bosio circola poco mentre Italiani brava gente di De Santis esce isolato nel 1964 nei giorni dell’enorme successo di Per un pugno di dollari ed è evidentemente una pellicola a suo modo anacronistica, anche se incassa una cifra dignitosa).
La corrente del film storico–politico, volta a indagare la recente storia italiana (con particolare riferimento al fascismo e alla guerra civile), tende a creare un alone di forte simpatia per l’universo socialcomunista mentre per i conservatori e soprattutto per i protagonisti dell’era fascista non c’è alcuna indulgenza (quella indulgenza che ritroveremo ad esempio nel cinema successivo alla caduta del muro di Berlino, fino allo stupefacente Romanzo criminale, Placido 2005). Appare evidente che – al di là del valore delle singole pellicole (da Il federale a La marcia su Roma, da Le 4 giornate di Napoli a Tutti a casa, da Il processo di Verona a L’oro di Roma, tanto per citarne solo alcune), questo sforzo compatto del mondo cinematografico italiano appare finalizzato a supportare la nascita di quel centrosinistra di Aldo Moro (dicembre 1963) che, lungamente preparato dalla fine degli anni cinquanta, si concretizza proprio nei mesi in cui viene presentato il film di Monicelli. Quest’ultimo, addirittura, viene mostrato in anteprima al XXXV° Congresso Socialista (Roma, ottobre 1963), quasi a sancire la perfetta sinergia tra universo dello spettacolo e dirigenza socialista finalmente giunta nelle stanze del potere (il PSI era stato fondato nel 1892). Nel 1964 esploderà – con Per un pugnoi di dollari – il western all’italiana e per questo genere di film storici – peraltro ora relativamente “inutili” dopo l’entrata al governo – non ci sarà più spazio.
Mario Monicelli vuole creare un grandioso film-affresco simile al suo precedente La grande guerra (1959; uno dei fondatori del genere storico-politico); torna dunque a collaborare con Age e Scarpelli, richiama alcuni attori di quel film (Bernard Blier, Folco Lulli) e, al posto di Sordi e Gassman, mette due attori altrettanto giovani ma più adatti ad amalgamarsi in un quadro corale ovvero Marcello Mastroianni nel ruolo dell’agitatore socialista prof. Sinigaglia e Renato Salvatori in quello dell’operaio Raoul. Il regista infatti aveva sempre rimproverato a Gassman e Sordi di essere stati troppo “mattatori” nel celebre film su Caporetto e dunque di avere in qualche modo annullato lo spirito storico-corale che egli avrebbe voluto ottenere nella rievocazione della prima guerra mondiale.
Siamo da qualche parte alla periferia di Torino (ma il film venne girato alla periferia di Zagabria, con comparse croate mentre il centro di Torino – che vorrebbe rievocare piazza San Carlo – è in realtà la cuneese piazza Galimberti) negli ultimi anni dell’Ottocento. In una fabbrica tessile gli operai sono sfiniti dall’orario di lavoro (14 ore si ipotizza, esagerando; gli studiosi dell’argomento parlano di dodici ore in quel periodo e di lotte volte a ottenere le 11/10 ore; dal 1905 sembra assodato che l’orario medio delle fabbriche piemontesi si attesti intorno alle 10 ore nette) e, ovvialmente, c’è chi rimane gravemente infortunato. L’episodio iniziale, incentrato sul grave incidente che porta alla perdita di una mano di un operaio, è in qualche modo il modello di quello, ben più conosciuto, della perdita del dito dell’operaio Gian Maria Volonté in La classe operaia va in paradiso (Petri 1971); quest’ultimo film, per certi aspetti simile a quello di Monicelli, ebbe infatti un enorme successo: era, in sostanza, il secondo tentativo del cinema italiano di raccontare la vita di una fabbrica. Esso però, oltre a poter contare su uno straordinario Volonté, fa parte della produzione filmica degli iperpolitici anni settanta e del popolare filone della cosiddetto cinema di denuncia (Rosi, Petri, Damiani ecc.) che riprende – a partire dal 1970 -  i temi del cinema storico-politico del periodo 1959-64 in chiave più contemporanea e con ben altro successo di pubblico.
L’incidente all’operaio de I compagni provoca una graduale presa di coscienza delle maestranze che trovano nel profugo prof. Sinigaglia una perfetta guida alle loro rivendicazioni. Inizia un lungo sciopero (circa un mese, cosa piuttosto frequente nelle fabbriche piemontesi del periodo) volto a far cedere i padroni i quali vengono ritratti nel modo più ostile. Avidi e canaglieschi usano tutti i metodi per far tornare i loro “schiavi” dentro la “prigione tessile”: dapprima cercano di concedere loro qualche sciocchezza; poi, vista l’inutilità dei tentativi, fanno venire altri operai (disoccupati) da fuori ma l’iniziativa, lungi dall’avere successo, provoca uno scontro violento sui binari dei treni e causa la morte per incidente dell’operaio Pautasso (Folco Lulli).
Giunte entrambe le parti in contesa allo stremo, gli operai tentano di occupare la fabbrica mentre i padroni – dopo avere invano chiesto alla polizia di trovare ed arrestare Sinigaglia, identificato quale vera anima della rivolta operaia - chiedono l’intervento della forza pubblica. Lo scontro è brutale, l’esercito spara e sul terreno resta Omero (Franco Ciolli), uno degli operai più giovani (praticamente un ragazzo). La battaglia termina con una pesante sconfitta operaia: alla morte di Omero, seguono l’arresto di Sinigaglia e la clandestinità di Raoul. Però il solco è ormai tracciato: gli operai, pur dopo alcune incertezze e incomprensioni dovute soprattutto alle dolorose perdite subìte, hanno saggiato la propria forza e acquisito una coscienza dei propri interessi di classe; quasi certamente al prossimo sciopero otterranno ciò che chiedono.
Il film di Monicelli è un’opera rispettabile e ben costruita. La mancanza di attori forti e la lenta messa a foco delle singole figure e problematiche rende la prima parte leggermente opaca. Poi però – quando tutte le carte sono sul tavolo - il film inizia a funzionare bene, a correre in modo spedito e a inquadrare ogni vicenda (numerose sono le sottostorie, tutte interessanti; in particolare emerge la vicenda amorosa che lega un’operaia – l’esordiente Raffaella Carrà – con un soldato) in un armonico quadro d’insieme. La sincera, quasi commossa adesione degli autori alla tragedia della condizione oepraia ottocentesca risuona intensa ed efficace: nessuno può negare la giustezza di quelle richieste finalizzate ad ottenere un trattamento più equo e un’esistenza più dignitosa. Perfino il padronato ci avrebbe in seguito guadagnato nell’avere a che fare con un’utenza operaia più soddisfatta, nonché in grado di acquistare – almeno in minima parte - i prodotti che contribuiva a creare con il proprio lavoro.
D’altro canto il film contiene una serie di evidenti riferimenti all’attualità: Sinigaglia (il cui personaggio dal cognome ebreo allude a Claudio Treves, dirigente isrealita del Psi dell’epoca, spesso ricercato dalle forze dell’ordine o costretto a periodi di esilio) è in fuga dalla polizia dopo che a piazza De Ferrari (Genova) ha ucciso un poliziotto per legittima difesa durante una manifestazione. In questo racconto appare chiaro il rimando ai recenti disordini genovesi (giugno 1960) e a quei morti che, contribuendo a determinare la caduta del governo Tambroni e la fine dell’alleanza tra DC e MSI, avevano spianato la via al centrosinistra di Aldo Moro. Allo stesso modo il finale tragico (uno dei probabili motivi dell’insuccesso di un film che proponeva argomenti troppo desolati nell’Italia del boom economico) allude da un lato ai grandi disordini milanesi del 1898, la cui repressione sanguinosa sarà tra le cause dell’omicidio di re Umbeto I a Monza (si noti che alla scuola serale uno degli operai scrive alla lavagna appunto “Morte al re”), dall’altro nuovamente agli scontri di piazza avvenuti a Genova, a Reggio Emilia e in altre città italiane nel giugno 1960, scontri durante i quali rimasero sul terreno alcuni dimostranti uccisi dalle forze dell’ordine (se ne ricordano perfino Guareschi e Gallone in Don Camillo monsignore...  ma non troppo, 1961).
I critici di sinistra, pur apprezzando nell’insieme il tentativo di Monicelli, non sostengono con convinzione la pellicola. In genere I compagni viene criticato in quanto non abbastanza impegnato; in particolare l’inserimento di elementi comici sembra a costoro un elemento stonato e quasi una mancanza di rispetto a tematiche troppo importanti. D’altronde non si può dimenticare che il cinema è anche intrattenimento e che gli eventi narrati ottengono un pubblico a patto di venire spettacolarizzati in una certa misura, pena l’inutile ghettizzazione (si veda ad esempio il cinema politico sperimentale di Godard, visto solo da una nicchia di fedelissimi). Monicelli, in tal senso, appare abilissimo nel saper veicolare contenuti importanti (fin eccessivamente carichi, si ricordino le “false” 14 ore come pure alcuni eccessi patetici come quelli dell’acqua congelata nella brocca della fredda abitazione operaia nel triste incipit del racconto) miscelati a episodi più sorridenti o addirittua a gag degne di un film comico (soprattutto inerenti la figura di Pautasso la cui morte si porta via ogni ulteriore accenno umoristico). Semmai è proprio la figura di Sinigaglia ad apparire un po’ troppo macchiettistica: questo professore perennemente in fuga, pacifico e un po’ gigionesco (entra in un caffé del centro e intona il mozartiano Là ci darem la mano con l’ottavino per chiedere l’elemosina come pure per attirare l’attenzione della prostituta Niobe/Annie Girardot... ), interpretato da un Mastroianni prigioniero della maschera stralunata che si è creato, è certamente uno degli elementi più inverosimili dell’ordito, tendente spesso a far precipitare la tragedia in fumetto. A controbilanciare questa componente tranquillizzante e fittizia ci sono però i freddi ambienti della fabbrica, le catapecchie miserabili, le sofferenze reali di chi muore e le brucianti indecisioni dei soldati posti di fronte alla dura necessità di aprire il fuoco su gente povera quasi quanto loro.
Va rilevato che questo film, sfortunato in patria, ottiene un notevole riconoscimento hollywoodiano in quanto Age e Scarpelli vengono nominati nella cinquina che concorre per l’Oscar 1965 alla migliore sceneggiatura; il premio non verrà vinto ma è lo stesso significativo che il cinema americano e la sinistra democratica di quel paese guardino con favore a I compagni e in generale all’Italia del centrosinistra come conferma l’oscar al miglio film straniero assegnato in quella edizione a Ieri, oggi, domani di De Sica. La visione socialista, umanitaria e riformista, che anima il lavoro di Monicelli (di rivoluzione violenta, marxista come di espropriazione dei mezzi di produzione, nel film non si parla mai) è certamente considerata negli Usa, notoriamente anticomunisti, una concezione sostanzialmente condivisibile. In quella primavera 1965 non appare ancora del tutto archiviata l’era della distensione Usa- Urss che ha avuto come protagonisti Kennedy – Giovanni XXIII – Crusciov, tre importanti personaggi i quali però sono prematuramente scomparsi dall’orizzonte politico.
I compagni conclude un genere filmico e una fase storica. Alla fine degli anni sessanta quelle tematiche torneranno prepotentemente al centro del cinema italiano in un contesto politico arroventato dallo stragismo di destra e dalla spada di Damocle di un golpe risolutore. Allora -  in sale cinematografiche gremite all’inverosimile -  ritroveremo le frustrazioni di una differente classe operaia esemplificate nell’indimenticabile Lulù Massa (Gian Maria Volonté) de La classe operaia va in paradiso (Petri, 1971) e gli scontri tra esercito e braccianti nell’affresco verdiano di Novecento (Bertolucci, 1976). Ma questa è un’altra storia.

testo scritto nell’apr.2011