Nos deux consciences, I confess e Le confessionnal: diffidando della modernità (1902-95)
Paul Anthelme (nome d’arte del giornalista francese Paul Bourde, 1851-1914), scrive, pubblica e fa rappresentare a Parigi Nos deux consciences
nel 1902. Si tratta di una commedia poliziesca in cinque atti, attenta al gusto popolare dell’epoca ma anche ambiziosa nel tentativo di illustrare il conflitto esistente tra due mentalità antitetiche (le due coscienze del titolo): quella tradizionale-religiosa e quella liberale-moderna. La prima, illustrata in modo sommo dal protagonista, il curato, figura vicina alla santità, vive l’esistenza terrena come un passaggio transitorio di cui si dovrà rendere conto a Dio e percepisce l’al di là come l’unico mondo reale; la seconda, rappresentata da Bordier, amico carissimo del curato, è invece in linea con i tempi moderni e secolarizzati, deriva dal 1789 e non crede a un mondo dietro al mondo; pertanto vive la realtà materiale con un’ottica differente, per certi versi più drammatica, non concependo nessuna forma di realtà metafisica atta a compensare le disgrazie di questo mondo.
Fenaille, figura ambigua e scostante, viene assassinato da un uomo vestito come il curato; l’assassino - lo scopriamo subito - è Bressaud, il marito poverissimo di una parrocchiana che, disperata, si reca dal curato e gli
racconta tutto, sotto il vincolo della confessione. Gli eventi precipitano, il curato viene accusato dell’omicidio e non riesce a discolparsi. Pur sapendo chi è l’omicida, non può denunciarlo ed inoltre la sera del misfatto era
in compagnia della moglie dell’amico Bordier per discutere di una materia scabrosa e inconfessabile (la donna, da giovane, era stata sedotta dal fratello del curato e da quella breve relazioen era nato un bambino...). Egli
allora subisce l’intero processo come una prova di Dio e perfino la coraggiosa testimonianza della moglie di Bordier, non riesce a scagionarlo (i due si erano lasciati alle ore 23 e l’omicidio era avvenuto mezz’ora dopo); anzi
peggiora la situazione del falsco colpevole poiché Fenaille aveva inviato alcune lettere anonime proprio riguardanti i misteriosi incontri del curato con quella donna, cosicchè ora il tribunale ha trovato anche un
possibile movente. Allorché viene condananto a morte, il curato chiama a sé l’assassino, riesce ad ottenere da Bressaud il pentimento e la promessa che, d’ora in poi, vivrà espiando quella colpa. Sebbene l’amico Bordier non
abbia mai creduto nella colpevolezza del curato e si sia adoperato in mille modi per salvarlo, tutto sembra procedere verso un finale tragico allorché un classico e artificioso colpo di scena aggiusta tutto: Bressaud, sconvolto
dalla bontà del curato, pronto a morire al suo posto, si suicida e salva l’uomo di fede. Pur non trattandosi di un capolavoro, Nos deux consciences è un testo che si legge tutto di un fiato e i cui personaggi (ce ne sono molti altri) appaiono ben disegnati e funzionali alla vicenda. Emerge inoltre il quadro della cultura francese di inzio secolo, divisa - centoquindici anni dopo la Rivoluzione - tra due visioni del mondo inconciliabili, le quali tuttavia sembrano aver trovato una modalità di coesistenza pacifica (dopo gli eccessi sanguinari del periodo rivoluzionario enapoleonico). In fondo però a vincere è la visione religiosa (d’altronde è il curato il protagonista del dramma), in quanto essa appare viva e vegeta accanto a quella visione modernista che credeva di potere distruggere la concezione religiosa e prenderne il posto (si pensi a tutta la filosofia positivista ed evoluzionistica di Auguste Comte e Herbert Spencer).
Hitchcock, cui è noto il dramma di Anthelme fin dagli anni trenta, decide di filmarlo in una versione hollywoodiana di notevole qualità, I Confess
(feb 1953; 90 min.). Non volendo spostarsi in Europa, ambienta la vicenda a Quebec (in Canadà), una cittadina di antiche origini in cui prevale la lingua francese e il cattolicesimo (negli Usa a maggioranza protestante, questa vicenda di sacerdoti e confessioni inviolabili sarebbe apparsa fuori luogo). Perfino l’urbanistica del luogo è titpicamente europea e il regista gira il film in esterni reali (cosa per lui inconsueta), ottenendo un magnifico effetto realistico. In alcune sequenze (il finale nell’hotel) arriva ad utilizzare gente del posto (gli impiegati del medesimo) ossia attori non professionisti.
Hitchcock mantiene inalterata l’intera struttura narrativa della commedia, elimina tutti i riferimenti alla rivoluzione francese e allo scontro tra le due mentalità (quelle che davano il titolo al dramma di Anthelme),
modifica anche la figura del curato anziano e prossimo alla santità mutandola in quella di padre Logan, un sacerdote giovane, attraente ed altrettanto convinto della propria vocazione (un ottimo Montgomery Clift, forse un po’
sopra le righe in qualche sequenza). Il regista sostituisce la confessione della moglie (la signora Bressaud) del colpevole con la confessione dell’assassino in persona ossia Keller (O. Hasse), un emigrato tedesco che è anche
il sagrestano della chiesa dove vive padre Logan. La cruciale vicenda dell’alibi che si trasforma in movente diviene un fatto personale di Logan il quale da giovane era stato fidanzato, per un lungo periodo, con Ruth (Anne Baxter), ora sposa di Pierre (Roger Dann), un importante politico locale; anche nella pellicola la vittima aveva, in qualche modo, aggredito quella coppia di personaggi (ricattava la donna per averla sorpresa in atteggiamenti ambigui con il sacerdote, alcuni anni prima). Come si nota l’intero intreccio narrativo, così ben calibrato da Anthelme, si trasforma in un perfetto poliziesco in cui il perno delle indagini è ora l’ispettore Larrue (Karl Malden) il quale intrattiene un lungo “duello” con padre Logan (non diversamente da quanto accadeva nel dramma teatrale tra l’inquirente e il curato). L’ottima prestazione di Malden deve avere colpito il Dario Argento de Il gatto a nove code (1971) che lo vorrà per un ruolo analogo (quello dell’enigmista cieco che indaga su una serie di misteriosi delitti).
Hitchcock quindi si attiene compiutamente al testo, aderisce al suo ritmo e al clima oppressivo che lo attraversa. Inoltre il classico tema del falso colpevole è uno dei temi preferiti del regista inglese il quale ci
racconta come l’ordinaria realtà di un modesto sacerdote si trasformi progressivamente in un incubo senza vie d’uscita. Da un lato il regista elimina tutta la parte “filosofica” del racconto,verosimile nella Francia di inizio
secolo ma impossibile da situare nel Canadà del 1950; ciononostante egli mantiene la figura di un sacerdote integro e assorbito dalla propria vocazione, fin quasi a farne (grazie alla interpretazione di Clift) un personaggio
“spiritato” e chiuso in un universo metafisico. Lo conferma anche lo scarto esistente tra l’atmosfera mistica che attraversa le sequenze ambientate nella chiesa (si tratta della chiesa Saint-Zéphirin-de-Stadacona) e quello
mondano e un po’ sciocco che ritroviamo alle feste private di Ruth e Pierre. A suo modo Hitchcock recupera, in questa radicale antitesi di ambienti - che è poi opposizione di sacro e profano, di autentico e futile - il discorso
dei due universi ideali contrapposti che animavano le “due coscienze” di Anthelme. In particolare il materialismo un po’ sprezzante e ottuso dell’ispettore e soprattutto quello infido del procuratore Robertson (Brian Aherne),
un “amico” di Ruth che non esita a interrogarla facendo pesanti allusioni alla sua correttezza di moglie pur di inchiodare il sacerdote, gettano un’ombra negativa sul “mondo moderno” laddove la visione hitchcockiana
dell’universo chiesastico è segnata dalla più totale, armoniosa positività. Gli unici accenni umoristici si trovano proprio in questo contesto (la simpatica gag, ripresa in più tempi, della bicicletta parcheggiata in
corridoio... ). L’autore inglese si conferma, insomma, un conservatore, rispettoso del clero, diffidente dell’umanitarismo moderno (un invenzione di Rousseau e del 1789) e poco incline a fidarsi delle istituzioni terrene (la
polizia, i tribunali, i processi). Anche Keller, l’assassino, all’inizio sinceramente pentito (durante la confessione), in seguito cambia atteggiamento e non esita a costruire prove (la tonaca insanguinata lasciata tra le cose
del sacerdote) che possano accusare Logan; in tal senso anche questa figura si rivela come crudele e irriconoscente, nonostante abbia ricevuto ogni possibile beneficio dall’ambiente che lo circonda (è un rifugiato tedesco che
nessuno voleva ospitare...). E’ un’ulteriore componente di quella diffidenza hitchcockina verso l’ “uomo buono” di Rousseau (quello della Rivoluzione, spesso citato dal Bordier di Anthelme) e come tale verso la modernità nel
suo complesso. Il regista inglese è dunque ancor più scettico dello scrittore francese intorno ai cosiddetti valori universali del 1789. La fedeltà al testo viene meno solo nel finale dove Hitchcock non poteva accontentarsi
della sbrigativa soluzione di Anthelme, assai poco “cinematografica”. Accade allora che il tribunale assolva (e non condanni come in Anthelme) Logan e che la tragedia precipiti a causa di Alma (Dolly Haas), la moglie di Keller,
la quale, presa dal rimorso, denuncia pubblicamente il marito. Questi allora fugge, uccide ancora e viene finalmente reso inoffensivo dalla polizia all’interno di un elegante hotel. Va infine notato che mentre Bressaud aveva
escogitato un preciso piano per far ricadere la colpa sul curato (aveva rubato la sua veste e si era fatto volutamente
vedere in prossimità dell’abitazione della vittima), Keller la utilizza come un mascheramento generico, senza una finalità precisa ed anzi, nel nuovo contesto inventato da Hitchcock (non dimentichiamo che Keller è un sagrestano), la cosa risulta controproducente in quanto indirizza le indagini della polizia verso le parrocchie di Quebec, nelle quali egli stesso lavora. Si tratta di un’incongruenza dettata dal desiderio del regista di rimanere il più possibile fedele ad Anthelme, mantenendo l’idea scioccante di un assassino vestito da prete.
In una pellicola così efficace sarebbe stato interessante avere una colonna sonora di valore (come quelle che comporrà Herrman per Hitchcock, a partire dalla seconda metà del decennio); invece Tiomkin si limita ad alcune
variazioni sul classico tema del Dies Irae e ad un commento sinfonico, nel consueto stile tardo romantico, che aggiunge poco alla narrazione. Negli Usa I Confess fu un mezzo fiasco, probabilemnte per la
poca familiarità del grande pubblico con i dogmi del cattolicesimo e per la conseguente poca comprensione/condivisione del dramma interiore del protagonista.
Nel 1995 il canadese Robert Lepage esordisce alla regia con Le confessionnal (100 min.), un pregevole film che costituisce una variazione sul tema di I Confess.
Sempre a Quebec, nei dintorni della cattedrale che fu utilizzata come set del film hitchcockiano, Lepage organizza due storie ad incastro (come due erano le vicende del film preso amodello): la prima è ambientata nei giorni
della realizzazione del film hollywoodiano (1952-53), la seconda invece è situata nel maggio/giugno 1989, l’anno delle rivoluzioni europee e soprattutto della mancata rivoluzione cinese (i telegiornali trasmettono notizie
relativa ai tragici scontri di piazza Tienanmen). Pierre (Loitheau Bluteau), rientrato a Quebec dopo una lunga permanenza in Cina (di cui, peraltro, non parla mai), cerca di reincontrare il fratello Marc (Patrick Goyette) il
quale, finito in un giro di prostituzione maschile, lo evita accuratamente. Quest’ultimo, figlio adottato, è alla ricerca della prpria verità esistenziale e tale ricerca prende la forma di un’indagine sulla misteriosa identità
del padre naturale. Pierre condivide tale indagine (la coppia, in qualche modo, sostituisce la figura dell’ispettore ossia di Karl Malden) la quale riguarda eventi accaduti nei giorni in cui Hitchcock era a Quebec per girare il
noto film. Rachel (Suzanne Clèment), la giovane ragazza madre di Marc, zia materna di Pierre, si era suicidata poco dopo aver dato alla luce il bambino, la famiglia di Pierre lo aveva adottato e la madre (Marie Gignac) sospettò
sempre che il padre fosse da ricercare nella sacrestia della cattedrale in cui la ragazza lavorava come donna dele pulizie. C’è infatti il sacerdote Massicotte (Normand Daneau) che raccolse la sua confessione riguardo alla vera identità del padre e i sospetti vengono equamente ripartiti tra il sacerdote stesso e il sagrestano. L’aggrovigliata matassa si complica con la scoperta che il sacerdote di allora, gettata la tonaca, è ora Raymond Massicotte (Jean-Louis Millette), un potente uomo politico omosessuale che ha asservito Marc, obbligandolo a divenire il proprio amante esclusivo. Sarà proprio quest’ultimo a svelare la verità al giovane (a tradire il segreto di quella antica confessione... ), verità di fronte alla quale il già fragile Marc non riuscirà a reggere. Egli si suicida e, in qualche modo, il fratello Pierre ne prende il posto: nel finale lo vediamo vestito come Marc, prendersi cura del bambino che il fratello aveva avuto da una spogliarellista. Il vero padre del giovane era l’insospettabile padre (Francois Papineau) di Pierre, il quale non aveva saputo resistere alla bellezza della giovane cognata.
Il film di Lepage si pone agli antipodi del testo di Anthelme e di Hitchcock, sebbene mostri una sincera adorazione per le immagini hitchcockiane, citate a più riprese nel racconto. All’indiscusso rispetto nei confronti dei
dogmi cattolici, della loro visione tradizionale come pure della centralità della chiesa si sostituisce una visione ipermodernista nella quale la centralità è occupata da ritrovi mondani (gli alberghi di lusso, i club
omosessuali) e che cita l’universo cattolico solo per ricordare che la svolta ecumenica degli anni sessanta (il Concilio Vaticano II) ha portato alla perdita della fede da parte di numerosi sacerdoti tra cui Massicotte, il
quale è poi diventato una figura spregevole, la cui negatività si riverbera sull’intero universo chiesastico. La confessione, evento centrale nei racconti del 1902/53, diviene un fatto marginale, superato dalla Storia e,
dunque, facilmente aggirabile dallo spretato Massicotte. La comunità del 1952-53 viene descritta come benpensante e ipocrita, soprattutto per quanto riguarda la figura del padre di Pierre, mendace e codardo seduttore che
fequenta regolarmente le funzioni e finge di condividere i sospetti della moglie intorno alle presunte colpe del sacerdote. Tale comunità appare dominata dalla figura altera di Hitchcock (quasi sempre ripreso da lontano), il
cattolico che affronta con deferenza il tema della confessione, accordandosi sui dettagli delle riprese con le locali autorità religiose. La sezione moderna del racconto è invece dominata dall’ex sacerdote ed ora potente
politico Raymond (fisicamente somigliante ad Hitchcock) e dal colore rosso sangue della parete ridipinta da Pierre nella propria abitazione la quale rimanda al sangue dei morti di piazza Tienanmen e al dolore impotente delle
vittime di ogni forma di sfruttamento come quella cui è sottoposto Marc. La rivoluzione fallita in Cina (terminata in un lago di sangue) costituisce il vano tentativo di frantumare il gioco delle maschere sociali che sempre
cela l’asservimento del più debole al più forte; allo stesso modo la giovane soccombe ai desideri del cognato e poi si lascia morire nell’indifferenza di quest’ultimo (non a caso sul ponte di Quebec) come pure Marc decide di
suicidarsi per uscire da una situazione di asservimento senza vie d’uscita. Le due anziane figure maschili (Hitchcock e Massicotte) rappresentano una Tradizione rocciosa e inattaccabile, difficile da scalfire laddove i giovani
raffigurano la perenne ambizione della Modernità di creare uan società di eguali. Il confessionale è un film cupo e sinistro, girato con vivace creatività (si veda con quanta scioltezza - attraverso semplici pianosequenza - il passato e il presente confluiscono continuamente l’uno nell’altro, fino a dar vita ad un blocco quasi indistinguibile), animato da rarefatte e inquiete sonorità orientali nel quale l’universo della Tradizione (della religione e dei moralistici anni cinquanta, quando le chiese erano sempre piene di fedeli) è sentita come il luogo della menzogna laddove il presente modernista (era in cui le chiese sono vuote, come al funerale del padre di Pierre, mentre sono affollati i ritrovi del divertimento sessuale) è segnato dalla sincera ansia di conoscere la verità a qualunque costo. Così mentre in Cina i dimostranti muoiono per una libertà impossibile, a Quebec Marc muore per una sofferenza antica che è ora divenuta consapevolezza, ma anche “rinasce” nelle sembianze di Pierre che ha deciso di cambiare vita, di lasciare un ordinario posto di cameriere in un elegante hotel per un’esistenza che si immagina ora più avventurosa ed autentica. Il radicale rifiuto di una società ancora non abbastanza moderna (leggi egualitaria), apparentemente sconfitto, prosegue il proprio ostinato cammino. Le ultime immagini - un palese finale aperto - ci mostrano Pierre e nipotino camminare in bilico su un lungo ponte, simbolo quest’ultimo della difficoltà come pure della (presunta) necessità della transizione e del cambiamento.
Alla diffidenza nei confronti della modernità di Anthelme e di Hitchcock, si sostituisce l’insofferenza di Pierre e Marc per ogni forma di vita ordinaria, percepita come schiava di covenzioni false e opprimenti. Lepage
accetta in toto la visione libertaria degli anni sessanta e dei primi anni settanta, fa proprio un certo nichilismo wendersiano (si pensi soprattutto ad Alice nelle città, 1973, cui sembrano alludere le bellissime
immagini conclusive) e lo ripropone con sincera coerenza in questo ammirevole e isolato film degli anni novanta.
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