I mariti, Fedora e A che servono questi quattrini?

I mariti, L’ultimo ballo, Oro nero, Fedora, La bocca sulla strada e A che servono questi quattrini?: generosità e diffidenza (1941-42)

              “Non bisogna lavorare... alla domenica; la gente si
               annoia perché manca del necessario allenamento
               all’ozio”
              marchese Edoardo Parascandalo

Camillo Mastrocinque, nato a Roma (1901), si laurea in architettura ed esordisce nel cinema in qualità di scenografo. Dopo un periodo di lavoro trascorso in Francia, torna in patria dove passa alla regia a partire dal 1936. Nella seconda metà degli anni trenta firma un paio di pellicole l’anno; nel 1940 gira La danza dei milioni, una commedia di ambientazione bancaria e Don Pasquale, una versione cinematografica della celebre opera buffa donizettiana (1843). I mariti - Tempesta d’amore (settembre 1941, 88 min.) porta sullo schermo ancora un soggetto ottocentesco liberamente ispirato alla omonima commedia (1867) dello scrittore napoletano Achille Torelli, definito dal Manzoni “gloria del teatro italiano”. Il testo, salutato al suo apparire a Firenze da un clamoroso successo, è tra i più popolari nel repertorio teatrale della seconda metà del secolo.
Vi si narra l’amore senza limiti dell’integerrimo avvocato Fabio (Amedeo Nazzari) per l’aristocratica Emma d’Herrera (Mariella Lotti) la quale vive in un ambiente tanto sofisticato quanto ottuso e corrotto. Il fratello è dedito al gioco, la sorella sposata è l’oggetto del desiderio di uno spregiudicato amico di famiglia, Amelia (Clara Calamai), una ricca borghese, tradisce platealmente il marito malato e regala somme ingenti all’amante, il conte di Riverbella. Insomma tutto è marcio intorno all’irreprensibile protagonista il quale - per le proprie origini sanamente popolari - è naturalmente estraneo a quell’universo. Emma accetta di sposare Fabio nonostante sia innamorata dell’amante di Amelia; quest’ultimo però finisce in galera per frode ed è proprio l’inarrestabile avvocato a difenderlo in tribunale e a salvarlo dalla prigione, conquistando per tale inconsueta via l’amore incondizionato della capricciosa moglie.
Come si nota Mastrocinque piega il testo di Torelli (semplificato e sfoltito nel numero dei personaggi) a un’invettiva nei confronti di un’alta borghesia e di una nobiltà infide e poco raccomandabili, allineandosi in tal modo, alla politica culturale prevalente nel cinema fascista dell’epoca. Sebbene l’opera sia ambientata nell’Italia umbertina di fine Ottocento appare chiaro l’intento di esaltare, attraverso l’unico personaggio positivo della commedia affidato ad un ottimo Nazzari, le doti probe e fattive di quella piccola borghesia che di lì a poco sarebbe andata a soffrire nelle trincee venete per redimere Trento e Trieste ed in seguito avrebbe saputo evitare la catastrofe rossa aderendo alla rivoluzione fascista (1922). La pellicola, per quanto ampiamente prevedibile nel disegno degli ottusi personaggi, si avvale di una capacità di raccontare con ritmi serrati, di un abile “orchestrazione polifonica” nel fitto intreccio di figure ed eventi e di un elegante gusto figurativo (il film è quasi interamente girato in lussuosi interni).
Il confronto con il testo letterario è istruttivo nella misura in cui la distanza posta in essere da Mastrocinque e dallo sceneggiatore Alessandro De Stefani tra l’avvocato e tutti gli altri esaspera in modo strumentale un aspetto della commedia originaria (lo conferma anche la scelta di avere posto in ombra la felicità coniugale dell’anziana, aristocratica coppia degli Herrera, componente essenziale nel testo di Torelli) al fine di esprimere la consueta, popolaresca diffidenza del fascismo per le classi sociali medio-alte, tanto più ora, negli anni drammatici del conflitto bellico, durante i quali quelle classi sociali vanno sempre più prendendo le distanze dal regime mussoliniano per prepararsi al differente scenario del dopoguerra.
Pochi mesi dopo Mastrocinque replica con un film quasi identico, L’ultimo ballo (dicembre 1941; 95 min.), formalmente ricavato da una commedia ungherese sceneggiata d Sergio Amidei, nel quale ancora un marito (Renato Cialente) troppo generoso sopporta una moglie, la baronessa Marcus (Elisa Merlini), la quale non vuole convincersi di essere ormai alle soglie della vecchiaia e non cessa di farsi corteggiare da chiunque ne abbia la voglia. Circola perfino un gigolò - un pittore pieno di debiti (Nerio Bernardi) - che intrattiene le mature signore dietro congruo pagamento.
Lo scabroso soggetto viene opportunamente spostato in una Budapest di comodo mentre a Nazzari spetta questa volta il compito del galante corteggiatore, imbarazzato non poco dalla assidua presenza del marito della baronessa. Nel finale tutto si aggiusta: la donna capisce il proprio errore e si sottomette al volere del benevolo marito. Non manca una gustosa lezione universitaria sulla differenza - tutta weiningeriana - tra donne pure e donne mascoline, queste ultime simili nei tratti fisici (bacino stretto, seno piatto) e caratteriali all’uomo. Tra le righe, dunque, si consiglia il pubblico di evitare queste ultime in quanto poco materne, aggressive, incapaci di sottomettersi alla naturale autorità maschile e inadatte a mantenere intatta l’armonia familiare.
Circola per l’intera pellicola una vena misogina appena mascherata: si addita nella fatua baronessa - oltre che il simbolo consueto di un’inutile e dannosa classe aristocratica - anche il ritratto della donna seduttrice e antimaterna (ancora di weiningeriana memoria - si veda il noto testo Sesso e carattere, nonché quanto scritto per Eyes Wide Shut in questo sito) la quale risulta pericolosa per l’ordine sociale in quanto alla ricerca perenne di impossibili conferme di una femminilità ormai al tramonto. Insomma nell’aristocrazia di Budapest circolano siffatte, pericolose creature ossia donne egoiste e cieche, incapaci di assolvere alla propria naturale funzione di madri attente (la baronessa neppure sa che sua figlia si è laureata) e mogli amorose; da esse il cinema fascista invita a stare alla larga (e in questo caso non si può proprio dargli torto... ).
Per il resto la pellicola, decisamente inferiore a Mariti di cui condivide il taglio teatrale, si lascia seguire abbastanza piacevolmente in forza della quantità di differenti caratteri, tutti abbastanza ben individuati. C’è l’eterno perdente (un gustoso Paolo Stoppa), una coppia di parassiti squattrinati che sopravvive stando alle calcagna della baronessa e inoltre la figliola di quest’ultima (sempre interpretata dalla Merlini), una pedante studiosa che rappresenta l’arida donna mascolina che - completamente assorbita dai propri esperimenti scientifici - spreca la propria giovinezza e le proprie naturali qualità femminili rinchiusa dentro ai laboratori di chimica.
Poco dopo Mastrocinque accentua quelle tematiche antiborghesi nel fim di pura propaganda Oro nero (marzo 1942; 94 min.). La pellicola, basata su una sceneggiatura frammentaria e pasticciata di Silvano Castellani e Pietro Lissia e girata in collaborazione con Enrico Guazzoni, celebra la nascita di Carbonia (inaugurata dal duce nel dicembre 1938) centro minerario sardo, sorto nei pressi di Iglesias e a poca distanza da Bacu Abis, piccolo borgo di minatori di inizio secolo. La pellicola, divisa in una prima sofferta parte ambientata nella misera Bacu Abis e in una seconda, ridente e luminosa, girata nel contesto della nuova Carbonia, affastella temi e vicende senza alcuna convinzione. Ci sono le fantasia fiabesche di un bambino, l’amore impossibile di un operaio per una maestra innamorata invece di un ingegnere, la tenace passione per la miniera di un roccioso minatore (Juan De Landa) e così via. In realtà l’unico tema che sembra interessare gli autori consiste nella celebrazione della dura lotta dell’uomo contro la natura inclemente, in linea con il discorso inaugurale pronunciato da Mussolini nel “più giovane comune d’Italia” in cui si diceva che “sotto lo stimolo dell’autarchia questa vecchia, fedelissima terra di Sardegna rivela i suoi tesori. Ma il più prezioso fra tutti è costituito dal suo popolo di tenaci lavoratori e di combattenti intrepidi...”. Sono pertanto soprattutto le sequenze di taglio documentaristico che ritraggono il lavoro in miniera a possedere una propria austera bellezza che tocca vertici inattesi all’inizio della seconda parte dell’opera, con immagini, movimenti di macchina e un montaggio serrato che sembrano ricalcare quelle classiche della cinematografia sovietica. D’altronde una medesima logica totalitaria, volta a sorpassare l’individo nel gruppo all’interno di un sentimento opinabile di statolatria, anima entrambe le correnti filmiche, lontane e divise solo in apparernza. In tale contesto l’esaltazione populistica dell’universo dei minatori e lo sguardo scettico nei confronti dei vecchi padroni di inizio secolo appaiono ulteriori elementi di continuità con l’ideologia sovietica, nonché atteggiamenti perfettamente comprensibili alla luce della politica fascista del periodo.
Un altro aspetto sviluppato con coerenza “fascista” (aspetto che pone una importante differenziazione rispetto all’universo staliniano) è invece l’esaltazione della collaborazione tra le classi sociali, ben distinte tra loro ma unite nell’agire all’unisono per il bene della nazione. Perciò a Carbonia minatori e ingegneri vivono separati, vestono in modo differente e posseggono linguaggi specifici, tuttavia essi collaborano lealmente, ciascuno convinto della necessità dell’ “altro”. Perfino quando una scontata rivalità amorosa sembra dividere e porre l’uno contro l’altro un minatore e un ingegnere, i due, rimasti prigionieri nella miniera a causa di una frana, faranno di tutto per aiutarsi vicendevolmente. Così il film di Mastrocinque e Guazzoni offre un inno senza remore alla politica mussoliniana in ogni suo aspetto: l’attenzione per i lavoratori più umili, la pacifica coesistenza delle classi sociale nella logica corporativa, il fattivo entusiasmo che porta a costruire intere città in pochi mesi. Lo sguardo celebrativo sulla Carbonia residenziale e sui macchinari avanzati che percorrono le gallerie delle miniere è in fondo l’unica ragion d’essere di questa insolita pellicola.
Con il film successivo Mastrocinque torna agli abituali drammi borghesi e sceglie nientemeno che Fedora (settembre 1942; 90 min.) ossia il celebre testo teatrale (1882) del commediografo francese Victorien Sardou, reso popolare in Italia dalla fortunata opera (1898) di Umberto Giordano. Il film segue in modo fedele lo schema narrativo (in tre atti) del melodramma di cui utilizza in larga parte le belle creazioni musicali, creando così l’ennesima riprova della stretta continuità esistente tra opera lirica e film, la prima al suo crepuscolo, il secondo nella sua fase sorgiva.
Il tirannico Vladimiro (Osvaldo Valenti) viene misteriosamente ucciso a San Pietroburgo; l’assassino, subito individuato in Loris (Amedeo Nazzari) fugge a Parigi dove gli dà una caccia spietata Fedora (Luisa Ferida), un’aristocratica che si stava preparando a sontuose nozze con Vladimiro. Nella capitale latina la donna finisce con l’innamorarsi proprio dell’assassino del suo fidanzato; quando però Loris confessa il suo delitto, Fedora dapprima lo denuncia alle autorità, poi scoperto il vero movente del gesto (Vladimiro era l’amante della moglie di Loris) lo perdona e lo convince a fuggire precipitosamente in Svizzera. Nella calma delle vallate elvetiche il dramma raggiunge nuovamente la coppia: la madre e il fratello di Loris sono morti a causa della delazione di Fedora la quale non regge la situazione e si suicida.
La Fedora di Giordano (come peraltro la Tosca di Puccini, anch’essa ricavata da un dramma dello scrittore francese) possiede un ritmo incalzante e precinematografico (l’opera verista nel suo complesso anticipa lo stile filmico); si pensi che la durata del melodramma teatrale è più  o meno la stessa del film. Quest’ultimo, tra l’altro, cerca di  essere all’altezza del capolavoro lirico e in parte vi riesce. L’ambientazione appare estremamente curata, totalmente inverosimile in un’ottica realistica ma perfettamente adeguata alle migliori convenzioni dei teatri lirici; gli attori sono tutti convinti e convincenti, il ritmo corre veloce e la sorpresa finale (tale solo per i pochi che non conoscono il melodramma) si impone in modo efficace.
Mastrocinque infonde suspense e sinistra tensione al “primo atto” russo, eleganza e mistero al “secondo atto” parigino, quiete agreste, presto tragicamente interrotta, al “terzo atto” svizzero; inoltre riesce a inserire nell’operazione le consuete direttive ideologiche del cinema di regime: l’universo nobiliare è fatuo e perverso (qui si può calcare la mano, tanto più che si sta parlando della nemica Russia, ora sovietica, in via di “redenzione” grazie alla disgraziata Operazione Barbarossa) mentre l’assassino, mosso da un più che lecito movente, è una figura di artista popolare (Loris dipinge con successo) che si inserisce naturalmente nella Parigi dei fuoriusciti e dei cospiratori liberali alla quale il fascismo guarda spesso con simpatia (Mussolini, in fondo, si ritiene a suo modo l’ultimo prodotto di quella tradizione rivoluzionaria, pseudopopolare e carbonara). Anche il finale tragico, ripreso dalla tradizione romantica ottocentesca (in un soggetto più “moderno” e puramente cinematografico, Fedora si sarebbe in qualche modo salvata), finisce con il comminare la giusta pena a un universo decadente e supeficiale quale quello di un’aristocrazia improduttiva e compiaciuta. Insomma un’operazione perfetta per le coordinate storiche dell’epoca e, ciononostante, abbastanza godibile anche oggi.
Va infine rilevata la presenza di un perfido mercante ebreo parigino (cui Loris vende le sue tele in cambio di cifre irrisorie) descritto con evidente malevolenza - figura assente nell’opera di Giordano - nella quale si respira l’atmosfera dell’Italia delle vigenti leggi razziali e il generico clima antiebraico che animava tutti (indistintamente) i giornali dell’epoca (1938-43).

Nel suo penultimo film La bocca sulla strada (ott. 1941; 85 min.) Roberto Roberti (padre di Sergio Leone) mette in immagini una sceneggiatura accademica e prevedibile di Guglielmo Giannini.
Il portinaio (Armando Falconi) di una cosa nobiliare riceve, dal suo padrone morente, il compito di prendersi cura di Graziella (Carla Del Poggio), una sua figlia illegittima. L’uomo si affeziona alla ragazza, le paga gli studi e la introduce presso i nuovi padroni (Guglielmo Barnabò e Vera Bergman) dello stabile, imprenditori esuberanti e poco rispettosi del passato aristocratico dell’edificio. Nasce l’inevitabile storia d’amore col figlio degli industriali e, superati gli inevitabili ostacoli classisti, la coppia convola a felici nozze.
La pellicola, verbosa e di taglio teatrale (tutta in interni), si snoda melensa e scontata. La morale è sempre quella interclassista e a suo modo ugualitaria del regime fascista anche se, in questo caso, la classe nobiliare – sempre nullafacente, dedita al gioco e a sciocchi duelli - è ritratta con meno astio del solito.

Su tutt’altro versante si dispone A che servono questi quattrini? (aprile 1942; 84 min.), pellicola di Esodo Pratelli, anch’essa tratta da un lavoro teatrale. Il regista, originario di Lugo di Romagna (n. 1892) firma pochi lungometraggi nel perdiodo 1939-43, mentre nel dopoguerra tace. Il film in questione è ricavato dall’omonima commedia di Armando Curcio (1940), sceneggiata da Pratelli e da Mario Massa ed affidata alla vincente comicità di Eduardo e Peppino De Filippo (i quali, si dice, abbiano aiutato lo scrittore in fase di redazione). La vicenda, assai flebile, dipinge le peripezie dello squattrinato marchese Edoardo Parascandalo il quale va filosofeggiando intorno alla inutilità del denaro, alla morte incombente e alla ignoranza dell’umanità intorno alle domande fondamentali sull’Essere. Eduardo insomma ci regala una versione popolaresca e godibile del pensiero socratico (il pensatore greco è ripetutamente citato) il cui disincantato e indolente scetticismo suona assai insolito quando non apertamente  provocatorio nell’ambito del cinema dell’era bellica. De Filippo è insomma l’antiNazzari (in riferimento a Mariti di Mastrocinque), è svogliato e sornione, ironico e distaccato da ogni pensiero ideologico forte.
La commedia di Pratelli va insomma inquadrata in quel cinema silenziosamente afascista che andava sviluppandosi in quegli anni turbolenti, facendo leva sul tradizionale lassismo meridionalista, condito da un poco di filosofia pirandelliana.
A proposito di ques’ultima e dell’eterno conflitto tra essere e apparire, si sviluppa al centro del racconto la vicenda di Vincenzino Esposito (Peppino De Filippo), discepolo del “maestro”, il quale riceve un’enorme, inattesa (e fasulla) eredità: di colpo tutte le porte si aprono al poveraccio, finora considerato una figura marginale da tutti; non conta dunque avere realmente i quattrini, basta far credere al prossimo di possederne in quantità per ottenere ogni cosa.
Il disprezzo del denaro, asse centrale del film, porta con sé il disprezzo per le beghe della realtà materiale, intrisa di avidità sciocca e immemore del destino mortale dell’individuo; tale disprezzo innerva i discorsi del protagonista e tacitamente implica il disprezzo per l’accanimento fascista a volere conquistare, imporre e guerreggiare. Insomma mentre i futuri soloni del neorealismo, per ora, firmano pellicole patriottiche (Rossellini, Vergano), in questo modesto lavoro di Pratelli invece si possono cogliere reali istanze antifasciste.

testo scritto nel 2005; ultimo aggiornamento: ott.2017