Il capitano nero e I sette nani alla riscossa

Il capitano nero, La muta di Portici, La vendetta del corsaro, Le meravigliose avventure di Guerrin Meschino e I sette nani alla riscossa: tra pirati, ciclopi e popolani ribelli (1951-52)

                  “O santo ardor di patrio amor
                  Nostr'alma accendi, audace fa
                  Al patrio suol dobbiam la vita,
                  Avrà da noi la libertà”
                  Masaniello nell’opera di Daniel Auber (1828)

Il cagliaritano Giulio Ansoldi, dopo una coregia nel 1941, torna a dirigere un paio di film agli inizi degli anni cinquanta. Il primo è Il capitano nero (marzo 1951; 100 min.), un classico melodramma di ambientazione rinascimentale come se ne realizzavano molti negli anni del fascismo.
La famiglia Adinolfi è in guerra con i Corvara e i Garlandi. Giuliano Garlandi (Paolo Muller) violenta la fidanzata Luisa Adinolfi (che finisce in convento) e fa uccidere due fratelli della donna. Il sopravvissuto conte Marco Adinolfi (Steve Barclay) riesce a vendicarsi, nonché a sposare la bella Barbara Vivaldi (Marina Berti), già promessa al perfido duca di Corvara (Mario Ferrari). Il film di qualità ordinaria, girato con buon mestiere ma senza estro, ripete i canoni noti e ottiene un discreto successo di pubblico.
Certamente quello che un tempo era un genere filmico di primaria importanza - si pensi a Kean, Salvator Rosa, La cena delle beffe, Ettore Fieramosca, Beatrice Cenci tanto per citare solo alcuni dei titoli che tennero banco nella prima metà degli anni quaranta – in larga parte derivato dagli schemi narrativi della librettistica dell’opera lirica, ora appare del tutto secondario e marginale, affidato ad attori e registi di secondo piano. Il cinema degli anni cinquanta guarda al mondo contemporaneo con uno sguardo più disincantato e cinico rispetto agli anni del regime; può dunque trarre i propri soggetti drammatici e polizieschi dalla realtà di tutti i giorni (cosa proibita dalla politica culturale fascista che voleva mostrare agli Italiani una realtà sempre edulcorata e tranquillizzante), evitando di doverli spostare in un artificioso passato.
La scabrosa situazione della violenza, imposta alla giovane con l’inganno, costa al film la qualifica di “escluso” del Centro cinematografico cattolico.
Oltre un anno dopo Ansoldi gira La muta di Portici (novembre 1952; 85 min.), soggetto che deriva della sceneggiatura da La muette de Portici di Daniel Auber (Parigi, 1828), uno dei più grandi successi del teatro lirico francese dell’Ottocento. Nel 1940, con il titolo La fanciulla di Portici, Mario Bonnard aveva filmato un’interessante versione del racconto, sottomesso in quel caso alle direttive ideologiche del fascismo (vedi). La versione di Ansoldi è di molto inferiore ed il film, nel suo complesso, appare anche meno valido de Il capitano nero.
L’intreccio, scritto da Alessandro De Stefani (uno sceneggiatore attivissimo negli anni del regime), Giacinto Solito e dal regista, si mantiene sulla falsariga del film di Bonnard, esalta i popolani di Masaniello (Paolo Carlini), pone al centro la storia d’amore tra il figlio (Octavio Seňoret) del viceré e Luisa (Flora Mariel), sorella del pescivendolo ribelle e chiude il racconto su una nota di completo ottimismo con la rivoluzione riuscita e gli amanti in fuga. Il lugubre finale del melodramma di Auber viene attentamente evitato.
Come nella pellicola di una decina di anni prima, il taglio è decisamente fantasioso (rispetto ai fatti storici) e populista, tutte le simpatie vanno ai ribelli mentre i nobili vengono dipinti come una casta di idioti, nonché sadici (c’è una scena di tortura, ai danni di Luisa, piuttosto efferata per l’epoca). Il clero, evidente supporto del potere regale, viene invece descritto con qualche cautela (siamo pur sempre in epoca democristiana): un monaco fa interrompere le sevizie di Luisa ormai svenuta mentre amorevoli suore se ne occupano quando viene nascosta in un convento.
Il legame del film con le produzioni “storiche” tipiche del fascismo è confermata sia dalla collaborazione di De Stefani, sia dalla presenza di Doris Duranti nel ruolo di Elvira d’Herrera, l’aristocratica fidanzata ufficiale del viceré.
La muta di Portici, ultimo sforzo registico di Ansoldi, è dunque un film ordinario sia nella fattura, sia nel taglio ideologico. Il pubblico tuttavia lo premia con incassi consistenti, simili a quelli ottenuti da Il capitano nero.
Giulio Ansoldi muore a Roma nel 1999.

In questo filone avventuroso e popolare si inserisce il modesto  La vendetta del corsaro (ottobre 1951; 100 min.) di Primo Zeglio, in cui si narrano le avventure del conte di Roccabruna (Jean Pierre Aumont) - da tempo fattosi corsaro per vendicare i gravi torti subìti - il quale deve salvare la sorella Luana (Milly Vitale), rapita dal perfido governatore spagnolo (Enrico Glori) di Cartagena. Il lieto fine è scontato. L’intreccio, ambientato nella seconda metà del Seicento, è pieno di confuse giravolte, inverosimili quanto quelle di un fumetto; grazie ad esse però il film assicura azione continua anche se ripetitiva e stucchevole.
Gli incassi di questo romanzo d’appendice sono più che dignitosi e confermano la presenza di un pubblico popolare che sembra divertirsi di fronte a queste contorte macchine spettacolari.

Anche Pietro Francisci contribuisce a questo cinema di mero intrattenimento con Le meravigliose avventure di Guerrin Meschino (febbraio 1952; 90 min.), basato sul racconto Guerino il Meschino (1410 circa) dello scrittore toscano Andrea da Barberino (1370-1432).
Nella Costantinopoli del 1400, perennemente in guerra con i Turchi, il servo Guerrino (Gino Leurini) - un trovatello che si scoprirà figlio di un re – ama la principessa Elisenda (Leonora Ruffo). Quest’ultima viene rapita dal principe turco Pinamonte (Giacomo Giuradei) e Guerrino, prima di riusire a salvarla, dovrà attraversare una selva nera e incantata nella quale affronterà con successo un ciclope, un enorme coccodrillo e la seducente maga Alcina (Tamara Lees). Nel finale, oltre all’amata, l’eroe ritrova i regali genitori e sconfigge il turco malvagio.
Pellicola senza qualità, animata da figurine inconsistenti (gli interpreti sono modesti), il Guerrin Meschino di Francisci non suscita né emozioni, né meraviglia (gli effetti speciali sono amatoriali); anche il commento sonoro di Nino Rota - musicista particolarmente versato per la sfera del fantastico -  è del tutto anonimo.
In definitiva solo un’occasione sprecata alla quale arride comunque l’abituale discreto successo di pubblico. D’altronde la pellicola appare esplicitamente destinata ai ragazzi e la cosa non può che avere giovato all’esito commerciale del lavoro.

Il regista italoamericano Paolo William Tamburella contribuisce al cinema di svago per i più giovani con I sette nani alla riscossa (novembre 1951; 80 min.), suo terzo ed ultimo film. L’autore, partendo da un racconto di Wanda Petrini, inventa una sorta di continuazione della fiaba disneyana: Biancaneve (una giovanissima Rossana Podestà), felicemente sposata con il principe Biondello (Roberto Risso) viene rapita dal principe delle tenebre (Georges Marchal) il quale la costringe, col ricatto, a sposarlo. I sette nani, la governante (Ave Ninchi) della giovane e, infine, anche Biondello accorrono in suo soccorso e, dopo complicate avventure, riescono a salvarla, distruggendo l’intero regno dell’oscurità.
Pur tra inevitabili lentezze e ingeuità, il film possiede una propria grazia: gli attori stanno al gioco, gli effetti speciali sono accettabili, le musiche di Cicognini appaiono azzeccate e le scenografie (soprattutto quelle del reame del perfido principe) risultano efficaci, solenni e non esenti da reminiscenze del cinema muto tedesco degli anni venti.
Gli esigui incassi testimoniano però del fatto che – in fatto di fiabe cinematografiche - i ragazzini del dopoguerra preferivano quelle sofisticate - a disegni animati e in technicolor - prodotte da Hollywood.