Il Decameron, La Betia, Una cavalla tutta nuda, Decameron n. 2, Decameron n. 3, Decameroticus, Decameron proibitissimo, Le notti peccaminose di Pietro l’Aretino,
Quando le donne si chiamavano madonne, La bella Antonia..., Quel gran pezzo dell’Ubalda... , Beffe, licentie et amori..., Metti lo diavolo tuo.... , Decameron n. 4, Il Decamerone nero, Jus primae noctis, La Calandria, Fratello
homo sorella bona, Racconti proibiti... di niente vestiti, Masuccio salernitano e Fiorina la vacca: erotismo medievale e anticlericalismo repubblicano (1971-72)
“Il consumismo è un vero cataclisma antropologico,
è pura degradazione”
P. P. Pasolini (1973)
Pasolini, dopo avere sepolto l’ideologia marxista con Uccellacci e uccellini (1966), si era immerso nella dimensione atemporale del mito con la tetralogia
iniziata con Edipo re (1967) e terminata con Medea (1970). La successiva “trilogia della vita”, che esordisce con Il Decameron
(agosto 1971; 110 min.) prosegue nella stessa direzione: si tratta sempre – per il poeta friulano – di riscoprire l’uomo originario, i suoi aspetti più semplici e incorrotti quali il sesso, l’avidità, l’amore, la contemplazione del bello per contrapporli all’orrore del consumismo degli anni sessanta e del cosiddetto boom economico che sta omologando tutto, distruggendo le culture particolari e trasformando il proletariato, un tempo miserabile e marginale, in piccola borghesia produttrice e consumatrice di merci. E’ una visione un po’ astratta e manichea, questa che contrappone il proletario di ieri al benestante piccolo borghese di oggi e tuttavia è quella che guida le scelte ideali e polemiche dell’ultima fase dell’attività del saggista e cineasta. Tutti ricordano le sue proposte estreme: eliminare la televisione e la scuola dell’obbligo per salvare quella preziosa diversità che – semmai è esistita – ora sta scomparendo mentre i suoi rappresentanti vengono progressivamente assorbiti dal mondo del benessere diffuso, promosso da una borghesia produttiva e capitalista.
Pasolini, intellettuale formalmente di sinistra, si trova così a difendere la Tradizione e a contrapporsi a tutte le recenti “acquisizioni” del progressismo modernista; pertanto egli si schiera contro le contestazioni
studentesche e contro la battaglia in corso per l’aborto seppure continui a combattere fieramente la DC e il suo entourage. Il Decameron – enorme successo commerciale legato innanzitutto ai suoi contenuti trasgressivi e alle sue immagini relative a una sessualità esplicita e libera – diviene la pellicola trainante un filone erotico che sfrutta il varco aperto “per motivi artistici” dal cineasta-poeta. Così il film, anziché fornire un’alternativa all’esistente, diviene rapidamente l’apripista di un fgenere che sfocerà, di lì a poco (confluendo nell’altro filone, quello “familiare”, inaugurato da Malizia, Samperi,
1973), nella dilagante commedia erotica degli anni settanta la quale, a sua volta, anticipa il più schietto cinema pornografico. Insomma Pasolini vuole contrapporsi al produttivismo capitalista e invece ne diviene – senza
volerlo - un alfiere, contribuendo ad ampliare le possibilità di sfruttamento del corpo femminile nell’ambito dell’industria dello spettacolo. Elenchiamo gli episodi scelti dal poeta per il suo Decameron, episodi organizzati
in due pannelli (ossia in due tempi) in qualche modo corrispondenti ai due riquadri dipinti dal ”pittore” Pasolini nel film; manca visibilmente un terzo riquadro nel polittico del pittore trecentesco così come manca il terzo
tempo del film, progettato dal regista nella prima fase di stesura della sceneggiatura. Nella prima parte: Andreuccio da Perugia
(quinta novella della seconda giornata), ricco commerciante romano, giunge a Napoli dove viene derubato di ogni avere da una finta sorella. Seguendo il suggerimento di due manigoldi si trasforma allora in ladro, si introduce nella tomba di un arcivescovo e sottrae al cadavere un anello prezioso. Ninetto Davoli, nel ruolo di Andreuccio, inserisce un tipo di recitazione dilettantesca e forzata che poco si amalgama col resto; il regista, qui come altrove nel film (e come già in Uccellacci e uccellini;
vedi), cerca di rimediare inserendo sequenze accelerate nello stile delle vecchie comiche mute, approdando a un problematico e poco soddisfacente eclettismo. Immagini di notevole valore pittorico e marionette quasi farsesche
non sono componenti facilmente miscelabili. Masetto da Lamporecchio
(prima novella, terza giornata) si finge muto, si introduce come lavorante in un convento femminile e, presto, diventa l’amante di tutte le suore. Quando queste scoprono che il ragazzo parla, urlano al miracolo e decidono di tenerselo nel convento in pianta stabile.
Peronella
(seconda novella, settima giornata) ha un’amante; il marito mezzo deficiente torna a casa anitempo e la donna spaccia l’uomo per un compratore interessato alla loro orcia. Riuscirà a far l’amore con lui mentre l’ignaro marito pulisce l’interno del vaso.
Ser Ciappelletto
(prima novella, prima giornata), ladro e assassino, in punto di morte gioca un’ultima beffa al clero, confessando solo peccati risibili spacciate per enormi colpe. La sua salma viene venerata come quella di un santo.
Nella seconda parte Caterina da Valbona (quarta novella, quinta giornata) dorme sul balcone così da poter amoreggiare col fidanzato; i genitori li scoprono e li obbligano a sposarsi. La benestante
Lisabetta da Messina (quinta novella, quarta giornata) ha per amante un povero garzone; i suoi tre fratelli lo scoprono e lo ammazzano. La giovane conserva la testa dell’amato in un vaso. Gemmata
(decima novella, nona giornata) vorrebbe potersi trasformare in una cavalla così da poter essere utile al marito. Un amico si finge mago e tenta l’incantesimo erotico, ma sul più bello il marito rovina tutto.
Tingoccio e Meuccio
(decima novella, settima giornata) si promettono confidenze ultraterrene: il primo che morirà riferirà all’altro come si sta dall’altra parte. Tingoccio muore e avvisa Meuccio che far l’amore non è considerato un peccato nell’al di là. Il sopravvissuto, fino ad allora assai morigerato per paura delle fiamme dell’inferno, può finalmente scatenarsi (il soggetto si ritroverà abbastanza simile nel Lazzaro di Pirandello).
Un allievo di Giotto (quinta novella, sesta giornata) ossia Pasolini stesso è intento a creare un polittico in una abbazia. E’ un artista che viene da fuori (dal nord), è estraneo al contesto clericale che lo
ospita, non parla con i frati, non fa il segno della croce insieme agli altri. E’ completamente assorto nel proprio lavoro il quale viene a collocarsi al di fuori della cultura religiosa coeva. Se Pasolini aveva mostrato di
apprezzare la figura del Cristo e il Vangelo di Matteo, con questo Decameron – e con il suo provocatorio personaggio – ribadisce l’abissale distanza che lo separa dall’universo sacerdotale, da frati, suore, vescovi e
papi. L’artista ne fuorisesce come un intellettuale colto, sensibile e immerso/perso in un orizzonte sensuale: quello dei bellissimi colori del pittore giottesco come quello dei magnifici piani pittorici di cui è animato
l’intero film come pure quello dei bellissimi ragazzi (le figure femminili sono, in genere, tipi assai più prosaici e quotidiani) scelti per i ruoli principali, tutti ritratti con amore e grande attenzione ai loro attributi
virili. Questa divorante attrazione per la terra, per le sue bellezze materiali, architettoniche (interni di chiese e chiostri), anatomiche (i già citati giovinetti) e naturali (le luci soffuse e intense che accarezzano persone
e cose, trasformando il racconto in una raccolta di quadri d’epoca) è la vera ed unica essenza del film. Non mancano quindi citazioni pittoriche dai pittori del MedioEvo e del primo Rinascimento: oltre a quelle letterali da
Bosch, risalta, per il carattere provocatorio, quella che ritrae il pittore Pasolini adagiato su una tavola come il Cristo del Mantegna, abbagliato da una visione mistica ovvero una sorta di Giudizio universale in cui però –
variante di non poco conto – al posto di Dio in trono si trova la Vergine che possiede il severo volto di Silvana Mangano. Insomma Pasolini finisce per prendere addirittura il posto di un Cristo, visitato da un Dio Madre tipico
della tradizione gnostica e neopagana, nonché tormentato dalle pene inflitte dai diavoli ai suoi personaggi, tutti fieri peccatori. Quella che emerge è quindi una differente religione della Terra, neopagana e sensuale, i cui
principali saerdoti sono appunto gli artisti come Pasolini. Non siamo tanto lontani dall’affresco de La dolce vita (1960) e dal suo paganesimo immanentista: il giornalista Mastroianni corrisponde al pittore Pasolini, entrambi assorti cantori di un mondo nuovo.
Seguendo questa lettura, la rievocazione pasoliniana di un mondo antico si trova in perfetta concordanza con la previsione felliniana di un orizzonte nuovo: in entrambi i casi il nemico principale è costituito
dall’orizzonte dei valori immutabili, dunque innanzitutto i valori cristiani, come pure quelli marxisti. Si comprende pertanto la nota principalmente anticlericale che attraversa entrambi i film, atteggiamento che in Pasolini
si esplica con un tono di aggressiva ed esagerata ostilità (infatti il Centro Cattolico, che era stato fino a quel punto attento all’opera di Pasolini, lodando soprattutto il Vangelo secondo Matteo, prende una posizione durissima contro questo Decameron e contro i successivi Canterbury e Le mille e una notte).
In fondo non c’è novella che non abbia un fondo di pesante critica alla sessuofobia cattolica la quale, nel finale, viene addirittura sconfessata da Tingoccio, messaggero che proviene direttamente dall’al di là. Negli altri
racconti la chiesa è il luogo deserto in cui rubare immense ricchezze (primo episodio), i conventi somigliano ai bordelli (secondo racconto) mentre i frati confessori sono dei poveri creduloni raggirati dal primo forestiero di
passaggio. Accanto alla battaglia polemica contro i valori dell’ordine repressivo (ma necessario, aggiungerebbe il Freud del Disagio della civiltà) - una battaglia perfettamene allineata a quella portata avanti da
tutta l’ondata di cinema anticattolico di quegli anni (si veda il capitolo su La moglie del prete, Il prete sposato ecc.) - si snoda l’inno ai valori di una sensualità libera, giovane e spontanea, priva di vincoli, anch’essa non dissimile a quella che si ritrova nel coevo cinema della contestazione giovanile (da Il
laureato a Easy Rider, da Zabriskie Point a Bob & Carol & Ted & Alice, da Fragole e sangue a Taking Off, da Ultimo tango a Parigi a La grande abbuffata); in fondo
era l’epoca degli hippies e del free love. Nè va sottovalutato il fatto che il film fu tra quelli più denunciati presso le procure dell’epoca per pornografia (la procura competente assolverà la pellicola) a riprova del
carattere realmente trasgressivo e quindi provocatorio, presente nell’opera. Insomma Il Decameron di Pasolini si segnala innanzitutto per la sua raffinata rievocazione pittorica di un mondo perduto. Fatto salvo questo aspetto artistico di grande fascino, tutto il resto – nonostante le intenzioni dell’autore - appare terribilmente allineato alle tendenze prevalenti, anche se, appunto, mascherato dall’ambientazione in un passato medievale e dalla derivazione colta dal testo del Boccaccio. Il Decameron, insomma, è uno dei tanti film del periodo che rivendicano la rivoluzione sessuale e l’annullamento della “nefasta” presenta del cattolicesimo.
Certamente nella visione pasoliniana gli istinti dei suoi giovani del Trecento rimangono incontaminati, diffidenti di fronte a tutti i valori costituiti (in particolare quelli clericali,
come si è visto) percepiti come convenzione e mera rappresentazione. Essi, inoltre, sono estranei all’invidia e alla conseguente “lotta di classe”: non vi è collera per il ricco e la ricerca di un Paradiso è semmai quello di un Paradiso terrestre. I colori vivacissimi, i costumi sgargianti, le movente estroverse vogliono evocare un universo antitetico a quello freddo e grigio delle metropoli degli anni settanta, già ingabbiate negli inesorabili ritmi produttivi. E tuttavia Pasolini – in modo certo inconsapevole – gira un film non estraneo all’egemone pensiero libertario e modernista che attraversa quegli anni, pensiero che, nei suoi scritti, il cineasta cerca di condannare con toni spesso laceranti. Ne è riprova il fiorente e fortunato filone che da questa pellicola di enorme successo commerciale (la seconda nella classifica degli incassi della stagione 1971-72, dopo ... continuavano a chiamarlo Trinità e prima di Agente
007 Una cascata di diamanti) inizia e si prolunga – con differenti varianti - fino alla metà del decennio.
Già qualche mese dopo esce nelle sale La Betìa ovvero in amore, per ogni gaudenza, ci vuol sofferenza...
(dicembre 1971; 100 min.), film girato in Jugoslavia da Gianfranco de Bosio ed ispirato alla commedia omonima (1525) del Ruzante. Il cast (Nino Manfredi e Rosanna Schiaffino nei ruoli principali, Lino Toffolo, Mario Carotenuto ed alcuni bravi attori jugoslavi) come pure la regia affidata ad un autore poco avvezzo al cinematografo (questo è il suo secondo ed ultimo film) classificano il lavoro tra le pellicole dotate di una certa ambizione artistica, pari quasi a quella del film pasoliniano. Tuttavia la resa complessiva è alquanto modesta, sia per l’evidente scarsità di mezzi (non vi sono vere e proprie scene d’insieme, squarci urbani od altro), l’intera vicenda si snoda tra quattro case, qualche animale e molte vedute agresti, il testo è noioso, ripetitivo e oltremodo volgare (la qual cosa viene accentuata dal realismo fotografico del cinema) e gli attori sono all’altezza, ma più di tanto non possono fare. D’altronde De Bosio è innanzitutto un regista teatrale e l’impostazione piuttosto statica del racconto ne è la riprova.
E’ la storia dell’eterno triangolo: il ricco e furbo commerciante Nale (Manfredi) fa da mediatore alle nozze della bella Betia (R. Schiaffino) con l’innamoratissimo e poverissimo Zilio (Smoki Samardi). Si tratterà quindi di
un matrimonio a tre (la Betia accetta lo squattrinato solo perché insieme potrà godersi l’amore e i soldi di Nale), che in chiusura diventerà a quattro (c’è anche la moglie di Nale, interpretata da Eva Ras) e infine a cinque
(si aggiunge anche l’amante di quest’ultima). E vissero tutti fielici e contenti alla maniera delle comuni hippy. Come si nota anche in questo caso l’ambientazione storica nel Cinquecento (peraltro assai generica) è
pretestuosa, segue la moda del Decameron (con grande anticipo; certamente il produttore Bini, già collaboratore del Pasolini di Edipo re, ha intuito sul nascere le potenzialità del film boccaccesco e ha
messo in cantiere un lavoro simile) per adeguarsi alle ideologie imperanti sul finire degli anni sessanta. Giunto per primo nella scia del Decameron, il film ottiene a sorpresa un successo comemrciale inatteso (oltre 300 milioni) e si piazza al 14° posto nella classifica della stagione 1971-72.
Il senese Franco Rossetti si inserisce nel filone con il suo terzo lungometraggio, Una cavalla tutta nuda
(febbraio 1972; 92 min.). Il regista ha a disposizione un cast tutt’altro che scadente (Renzo Montagnani, Don Backy, Leopoldo Trieste e Barbara Bouchet) e, tuttavia, ripete, senza alcuna fantasia, la novella di Gemmata, resa popolare dal successo del Decameron pasoliniano.
La protagonista (B. Bouchet) è una donna “servizievole” che il marito (Leopoldo Trieste) vorrebbe poter trasformare a piacere in cavalla. Intorno ad essa Rossetti costruisce un racconto senza capo né coda che propone due
strampalati cavalieri – Folcacchio (Don Backy) e Guffardo (Montagnani) – i quali vagabondano per la campagna senese, tra l’abbazia di San Galgano e la celebre piazza del Palio, con pretesti privi di qualunque interesse
narrativo. Le vicende erotiche si limitano in fondo alla citata novella e a poco altro mentre il film, nel suo complesso, vorrebbe ispirarsi al genere mattacchione dell’ Armata Brancaleone (Monicelli, 1966), il cui secondo episodio, Brancaleone alle crociate (1970) è uscito solo due anni prima. Purtroppo attori, dialoghi e scenette non sono all’altezza del compito e tutto approda a una sequenza di fiacchi raccontini di taglio farsesco. Filo rosso dovrebbe essere l’ambasceria dei due cavalieri presso il vescovo di Volterra: ricevuti da costui, i due scoprono di non avere nulla da dirgli e finiscono sul rogo; li salverà la pioggia...
Tra le prime varianti del Decameron pasoliniano c’è Decameron n. 2 – Le altre novelle di Boccaccio
(marzo 1972; 90 min.), sei novelle del Boccaccio tradotte in immagini da Mino Guerrini. L’argomento è esclusivamente erotico (come accadrà a quasi tutti i film del filone) mentre gli accenni anticlericali, a base di frati
furbacchioni e santi poco mistici, sono un fatto dovuto e intrinseco alla narrazione dello scrittore trecentesco. Guerrini non pone particolare enfasi su questo aspetto. Per la verità il regista non pone enfasi su nulla: le
immagini sono sciatte, le vicende procedono scontate, i nudi femminili sono privi di qualunque fascino come pure, in generale, le protagoniste. Non si tenta neppure lontanamente di reinventare il Trecento (a parte le ovvie
ambientazioni tra torri, conventi e abbazie): in particolare un commento sonoro di marca settecentesca (e altrove ottocentesca) tende ad evocare l’opera buffa napoletana e gli scherzi che la animavano. In particolare la novella
padovana con lo studente Anichino che si gode la moglie del padrone mentre quest’ultimo, travestito da femmina su consiglio della perfida moglie, attende invano il corteggiatore della donna nel buio del giardino, rimanda negli
eventi e nel commento sonoro a Le nozze di Figaro di Mozart. Dunque più una mascherata che la rievocazione di un’era lontana e differente (alla maniera di Pasolini). Il livello rimane modesto e un certo grigiore aleggia sull’intera pellicola.
Da rimarcare poi lo spirito sessantottesco della sesta novella utilizzata e posta in chiusura del film. Spinelloccio e l’amico Zeppo prima si cornificano a vicenda, poi decidono di chiudere il tutto in un tranquillo menage
a quattro (un po’ come in Bob & Carol & Ted & Alice, Mazurski, 1969). Come si vede, dopo Pasolini anche Guerrini afferra lo spirito del tempo e sceglie quelle novelle il cui permissivismo è in perfetta sintonia con la rivoluzione sessuale in corso. D’altronde il testo di Boccaccio non viene minimamente forzato; vi si legge infatti:” Il Zeppa fu contento; e nella miglior pace del mondo tutti e quattro desinarono insieme. E da indi innanzi ciascuna di quelle donne ebbe due mariti, e ciascun di loro ebbe due mogli, senza alcuna quistione o zuffa mai per quello insieme averne”.
Le altre quattro storielle mettono in scena mariti babbei, mogli furbastre e frati profittatori. In generale i “decamerotici”, girati nel tentativo di bissare l’enorme successo di quello pasoliniano, ebbero nell’insieme
un modesto riscontro commerciale (raramente incassavano più di un decimo dell’originale); tuttavia i costi di queste produzione erano talmente bassi da rendere comunque estremamente redditizio il prodotto filmico finito.
Pochi mesi dopo è la volta del Decameron No. 3 - Le più belle donne del Boccaccio (giugno 1972; 100 min.) di Italo Alfaro, un regista cinematografico attivo
solo nel biennio 1972-73. La pellicola – che ebbe un successo assai limitato – allinea sette episodi pressoché identici: furbe matrone che riescono a beffare i propri mariti brutti e vecchi, spassandosela con giovanetti
compiacenti. L’ambientazione è poverissima, quasi tutta in interni il che rende l’insieme tedioso e perfino teatrale; la qualità delle immagini è dignitosa come pure quella degli interpreti. Tra le attrici spiccano Beba Loncar,
Femi Benussi e Marina Malfatti. I frati vengono presi di mira solo in uno dei racconti mentre l’afflato libertario e vagamente hippy
– presente in altri film della serie – qui non compare. Le vicende non vanno oltre le consuete tresche triangolari.
Nel Decameroticus (giugno 1972; 90 min.) di Giuliano Biagetti, si prende ispirazione, oltre che dalle novelle di Boccaccio anche da quelle di Matteo Bandello e
dell’Aretino. Riguardo alle prime troviamo sia il racconto della moglie che beffa il marito travestito da confessore ossia Un geloso in forma di prete (novella quinta, decima giornata), sia il racconto di Isabella e dei
suoi due amanti nascosti nella sua camera da letto al sopraggiungere del marito: erano entrambe già presenti nel modesto Decameron. n. 3 e vengono rese ora con maggiore brio. Seguono altre tre episodi, sempre impostati sul tema
del marito fesso e cornuto. Il film – noioso come la maggior parte dei “decamerotici” – può contare su dialoghi più vivaci del solito e interpreti brillanti e simpatici. La qualità visiva e l’ambientazione sono invece
mediocri.
Anche il veterano Marino Girolami si cimenta nel genere con Decameron proibitissimo
(agosto 1972; 92 min.) nel quale, basandosi su una sceneggiatura di Bruno Corbucci, mette in scena sei novelle del Boccaccio. La resa è notevolmente superiore a quella degli altri imitatori pasoliniani: le inquadrature sono dignitose, i dialoghi curati, la recitazione accettabile, le musiche gioconde, l’ambientazione umbro-toscana ariosa.
Le vicende sono sempre le stesse, impostate su una lunga serie di mariti scemi e beffati (non manca l’ennesima riedizione della novella Un geloso in forma di prete); tuttavia anche la scelta delle interpreti
femminili è felice e l’elegante erotismo delle immagini è di gran lunga migliore non solo di quello presente nei film finora usciti nelle sale, ma perfino del tipo di erotismo pasoliniano, come si è detto apprezzabile
essenzialmente da un pubblico gay. I racconti non prevedono ammucchiate, nè l’esaltazione dell’amore di gruppo (in linea con lo spirito hippy di alcune di queste pellicole); al contrario vi si narrano semplicemente le gesta
sessuali di coppie giovani e aitanti (sempre ai danni di un marito stolto), ritratte con inedita dovizia di particolari. La pellicola artistica di Pasolini ha spianato la via a un erotismo di massa e a un universo mediatico
(si pensi soprattutto a spot e foto pubblicitarie) che, a partire da questi anni, farà un uso sempre più audace del corpo femminile. Non si tratta di una novità: il cinema ha sempre utilizzato – nei limiti impsoti dalla censura
delle varie epoche – quella componente come forte elemento di richiamo. Con gli anni settanta, e con l’operazione pasoliniana in particolare, ci si è messi con decisione su questa “autostrada” che porterà – di lì a qualche anno
– al sorgere di una fiorente industria pornografica. Quest’ultima costituisce lo sbocco naturale di tutti questi “decamerotici”, così come della scollacciata commedia sexy italiana, naturale prosecuzione delle fantasie
trecentesche di questa fase.
Con Le notti peccaminose di Pietro l’Aretino (agosto 1972; 98 min.) ci si sposta nel Cinquecento e si prende spunto dai testi dello scrittore toscano
(1492-1556). La pellicola diretta da Manlio Scarpelli (fratello del più noto Furio, sceneggiatore) è la sua seconda ed ultima regia; con essa l’autore (firma anche soggetto e sceneggiatura) si inserisce, senza alcuna
originalità, nel filone boccaccesco, inanellando una serie di mediocri novelle tenute insieme dalla figura della narratrice ossia l’esperta cortigiana Longobarda (una brava Adriana Asti, catapultata in un contesto che non è
alla sua altezza) la quale porta con se la figlia Prudenza, giovinetta ed inesperta (o almeno tale ella la crede), verso Roma dove la attende uno smanioso cardinale. Durante il tragitto la donna racconta alla ragazza una serie
di novelle erotiche (imperniate su frati sporcaccioni, conventi ridotti a bordelli, mariti beoti e mogli ninfomani; c’è però anche un marito furbo che ammazza la moglie infedele e il suo amante in modo orribile) mentre un
noioso frate le accompagan a distanza predicando la fine del mondo e ammonendo intorno alla decadenza dei costumi. Nel beffardo finale le due donne apriranno un’elegante casa di appuntamenti romana mentre il frate moralista
viene bruciato come eretico. La pellicola scorre lenta e tediosa tra immagini sgraziate, storie ripetitive, attori modesti, donne poco attraenti o poco valorizzate. Siamo di fronte a uno dei prodotti più scalcinati del
filone.
Aldo Grimaldi firma con Quando le donne si chiamavano madonne (agosto 1972; 94 min.) il suo unico “decamerotico” (su sceneggiatura propria) e il suo ultimo film
prima di una lunga pausa di sette anni dalla regia. Il titolo rieccheggia quello di Quando le donne avevano la coda (Campanile, 1970), film di successo all’origine del genere “cavernicolo” e ripropone le ben note
situazioni del filone boccaccesco: tre giovani in cerca di avventure erotiche obbligano lo zio (un ottimo Mario Carotenuto) di uno di loro ad ospitatli a Prato. Nonostante le minacce di evirazione poste in atto dal padrone di
casa, riusciranno a sedurre numerose donne di differenti età ovvero giovinette al loro primo amore, donne mature, fanciulle che si credono lesbiche ecc. Sul fondale si svolge il processo dell’adultera Giulia (Edvige Fenech) -
sorpresa dal marito con l’amante Mercuzio (Don Backy) – la quale riesce a dimostrare al giudice (Vittorio Caprioli) e ai suoi assistenti che il coniuge è troppo “inefficiente” e che le sue esigenze poligamiche sono pertanto più
che giustificate. Verrà assolta e nel farsesco finale la donna si appresta a soddisfare l’intera corte di giustizia. Il film è di buona fattura, tra inquadrature gradevole, scenari indovinati, attori convincenti (la Fenech
non è ancora famosa: il successo di questo film contribuirà a renderla una star) e una briosa colonnna sonora di matrice rinascimentale firmata addirittura da Giorgio Gaslini. Inoltre vi si affaccia una certa vena femminista
(allora di gran moda) nell’episodio del processo durante il quale Giulia difende il diritto delle donne al piacere sessuale al di fuori degli obblighi coniugali e viene, in questo, accontentata da una giuria compiacente. Gli
effetti sono grotteschi: dopo la sentenza Giulia dapprima soddisfa il marito in pochi minuti, poi lo sbatte fuori dalla camera da letto e si dedica ai numerosi amanti, in qualche modo “legalizzati”. A parte questa trovata
“progressista” che colloca la pellicola nell’ “ala sinistra” dei decamerotici, le altre vicende sono tutte dozzinali e vengono sviluppate senza troppo umorismo, producendo episodi di evidente noia. Ciononostante la simpatia
degli interpreti e la messa in scena spesso brillante dona alla pellicola qualche motivo di interesse.
Di qualità accettabile risulta anche La bella Antonia, prima monica e poi dimonia (agosto 1972; 85 min.) girato dall’esperto Mariano Laurenti, basandosi su una
sceneggaitura di Sandro Veo ispirata ad alcuni racconti di Pietro Aretino. Il film, felicemente ambientato a Gubbio, non racconta – come sembrerebbe dal titolo – una sola vicenda, bensì si struttura sul consueto, ampio
numero di episodi. Questi però, anziché susseguirsi in modo meccanico, sono ben intrecciati e restituiscono un affresco organico ed efficace. L’argomento è il solito: audaci giovanotti riscono ad ottenere le grazie di belle
madonne, in barba ai loro mariti. Così il pittore Rinaldi (Piero Focaccia) seduce sia la moglie del suo committente, sia quella (Malisa Longo) dell’oste dove soggiorna ed infine anche la bella Antonia (Edwige Fenech) nel giorno
delle sue nozze. Quest’ultima, pur di ottenere in sposo Folco Piccolomini (inviso al padre), si fa monaca: inutile dire che il convento somiglia molto a una casa d’appuntamenti... Attori tutti convincenti, scenari adeguati,
inquadrature dignitose, un ritmo più movimentato del solito rendono il film sostanzialmente piacevole anche se privo di sorprese nelle situazioni inscenate, nonché mancante di vera comicità. La carica erotica invece è garantita
non solo dalla Fenech ma anche dalle altre attrici, tutte molto belle e fotografate con gusto. Il pubblico appare conquistato e sancisce un consistente successo commerciale della pellicola che porta a una replica che
ottiene un consenso ancora maggiore. Pochi mesi dopo infatti esce Quel gran pezzo dell’Ubalda, tutta nuda e tutta calda (ottobre 1972) girato sempre da Laurenti con la Fenech nel ruolo principale. Il film riscuote un
successo ancora maggiore e sancisce l’attrice franc- algerina quale stella di prima grandezza nel firmamento del cinema erotico italiano. A differenza degli altri decameroni, in questo caso la sceneggiatura (di Carlo Veo e
Tito Carpi) è di pura invenzione e si snoda lungo un unico racconto con quattro personaggi principali, accantonando lo schema episodico che ha prevalso fino a quel momento. Lo scalcagnato milite Olimpo (Pippo Franco), di
ritorno dalla guerra, trova la moglie Fiamma (Karin Schubert) poco disposta a soddisfare le sue legittime smanie. Prende allora di mira la bella Ubalda (Edwige Fenech), moglie dell’acerrimo nemico Mastro Oderisi (Umberto
d’Orsi) con qualche transitorio successo. Entrambe le madonne hanno ricca quantità di giovani amanti e i due mariti, dopo svariate traversie, finiranno semicastrati a intonar laudi in un coro diretto da un frate manesco e
donnaiolo (Pino Ferrara). Valgono le osservazioni fatte per il film precedente: tutto è di fattura dignitosa, anche se di grana grossa; le inquadrature sono piacevoli, i corpi femminili valorizzati con gusto, la musica
(firmata da Bruno Nicolai) briosa quanto basta. L’ambientazione però è mediocre (non si vedono che campi a perdita d’occhio), l’intreccio assai prevedibile e la comicità tutt’altro che esilarante. Come ne La bella Antonia, la lotta per le belle è senza quartiere e senza accomodamenti “di gruppo”: la logica hippy rimane estranea al racconto e anche il tentativo finale di avviare un menage a quattro da parte dei due sciocchi mariti fallisce miseramente, mentre le due mogli si tengono stretti i giovani amanti. Implicitamente si ricorda che anche nell’ambito erotico vigono diseguaglianze difficilmente colmabili e che ogni modernismo razionalista di stampo ugualitario (il modello della comune, insomma) è mera astrazione.
In fondo anche in questo cinema di mero intrattenimento si può cogliere una sottesa distinzione politica tra visione conservatrice e visione progressista. In ogni caso, incurante di siffatte sottigliezze, il pubblico
accorre in massa, attratto innanzitutto dall’ottimo cast femminile. Come dargli torto.
Un respiro unitario possiede anche Beffe, licenze et amori del Decamerone segreto (agosto 1972; 90 min.) firmato dal veterano Giuseppe Vari (con alle spalle una
ventina di pellicole) su sceneggiatura di Antonio Racioppi e Gastone Ramazzotti. La pellicola pone al centro del racconto le beffe messe in opera dal poeta Cecco Angiolieri (Dado Crostarosa), tutte sistematicamente progettate
per riuscire a possedere sia le mogli di una serie di mariti rimbambiti, sia le suore di un convento. Punto di partenza di quasi tutti gli episodi è un locale bordello nel quale il nostro spadroneggia senza rivali. Le
storielle sono scontate, il cast femminile è di buon livello (Malisa Longo e Orchidea De Santis tra le altre), la qualità della recitazione è accettabile, le inquadrature sono di buona qualità, l’ambientazione è abbastanza
curata (i vicoli sono quelli di S. Gimignano) e i dialoghi posseggono qualche ricercatezzza. L’elemento più insolito è nel commento musicale (firmato da Mario Bertolazzi) nel quale prevalgono sonorità novecentesche come la
trasfigurazione del sensuale e cromatico motivo del Prélude à l'après-midi d'un faune (Debussy, 1894) e alcuni brani di fusion ossia di quel jazz elettrico che – dopo il grande successo di Bitches Brew (Mile Davis, 1969)
– era molto diffuso agli inizi degli anni settanta. Inutile aggiungere che la figura principale del film si ispira in modo assolutamente generico al vero Cecco Angiolieri (1260- 1313 circa), poeta senese contemporaneo di
Dante Alighieri mentre l’unica novella del Boccaccio di cui è protagonista (quarta novella della nona giornata) ci mostra un Cecco che viene ingannato e derubato, pertanto agli antipodi di quello beffardo e dissacratore messo
in scena da Giuseppe Vari.
Piacevole e brioso risulta l’esordio alla regia di Joe D’Amato (Aristide Massaccesi) con Sollazzevoli storie di mogli gaudenti e mariti penitenti
(agosto 1972; 90 min.), film codiretto da Romano Gastaldi. In questo caso le novelle (ispirate a differenti autori) sono solamente tre e, pertanto, i personaggi godono di un maggiore approfondimento caratteriale. Non che si sia in presenza di qualche reale novità – il canovaccio prevede come al solito mariti vecchi e scemi e amanti giovani e furbi - anche se il disegno delle figure, tutte interpretate in modo convincente (perfino brillante), da un cast semisconosciuto è ricco di particolari.
La più originale delle tre è quella centrale, imperniata su una moglie terribile (Maria Piera Regoli), dotata di un marito enorme e manesco, la quale dapprima provoca e seduce un fraticello sciocco (Ari Hanow), facendosi
regalare di tutto; poi, quando quest’ultimo si ribella pretendendo prestazioni più generose, se ne lamenta col marito e lo fa evirare. Questo episodio appare insolito nel filone dei “decamerotici” per la brutale misoginia che
lo anima ed è interpretata in modo efficace dalla brava protagonista. Una vena misogina attraversa anche il primo episodio nel quale due cognate (Monica Audras, MarziaDamon) ante per quattro giornate, riducendolo a una
larva; quando questi infine protesta, viene cacciato in malo modo. Il terzo ed ultimo racconto anticipa invece il tema de La Calandria (vedi), narrando di un uomo che, per sedurre la bellissima moglie di un avaro, si
inserisce in casa sua in vesti femminili come cameriera tuttofare. La moglie sarà ben contenta di scoprire la vera identità della sua “dama di compagnia” mentre il marito, scoperto l’arcano, penserà di essere in presenza di un
ermafrodito... Musiche gioconde e brillanti rendono scorrevole la pellicola, girata con buon mestiere (inquadrature ben composte, costumi accettabili) anche se priva di scenari di un qualche interesse.
Con Metti lo diavolo tuo ne lo inferno mio (settembre 1972; 85 min.) di Bitto Albertini
torniamo invece a un livello molto mediocre. Il film, di vaga ispirazione boccaccesca, si articola intorno a una storia unitaria, per quanto sviluppata in un’ossessiva ripetizione delle medesime situazioni. Al centro stanno
le prodezze amatorie del pittore Ricciardo (Antonio Cantafora) il quale riesce a cornificare tutti i mariti del paesello mentre l’amico tenta invano di ottenere i favori di una bella moglie, ma viene regolarmente interrotto
dall’arrivo del coniuge. La pellicola – girata presso il castello di Balsorano (in provincia de l’Aquila) – è scadente da quasi tutti i punti di vista: recitazione, dialoghi, costumi, ambientazione (incapace di valorizzare
il suddetto castello), intreccio, qualità visiva. Anche le numerosissime presenze femminili, generosamente spogliate, risultano quasi sempre inerti a causa sia della generica direzione degli attori, sia della poca cura
messa nella composizione delle immagini. All’attivo rimane solo l’originalità del titolo. Ciononostante il film ebbe un buon successo, tale da giustificare una seconda puntata (E continuavano a mettere lo diavolo ne lo
inferno, 1973) sempre di Albertini.
Più scadente ancora è Decameron n. 4. Le più belle novelle del Boccaccio
(novembre 1972; 95 min.) di Paolo Bianchini, cinque episodi filmati in buona parte nel quartiere medievale di Viterbo. Le storie sono stucchevoli e puerili (c’è perfino un marito che si crede gravido, né la moglie sembra avere dubbi al riguardo... ), gli attori modesti, le inquadrature scialbe. Perfino il cuore “commerciale” del discorso, ovvero l’erotismo, è latitante poiché le protagoniste sono ordinarie, poco convincenti e male inquadrate.
Insomma un prodotto da dimenticare.
Una vera e propria curiosità è costituita da Il Decamerone nero
(ottobre 1972; 90 min.) che Piero Vivarelli gira in Senegal con attori poco noti, prendendo spunto dai racconti di Das Schwarze Decameron (1910) dell’etnologo Leo Frobenius, editi in Italia nel 1971 da Rizzoli col titolo di Decamerone nero.
Il film, prodotto dal “pasoliniano” Alfredo Bini, richiama il film del poeta friulano nell’utilizzo di volti del tutto nuovi e nella cornice selvaggia che, tra l’altro, anticipa quella de Il fiore delle Mille e una notte (Pasolini,
1974). Le sei novelle non si distaccano troppo da quelle del ciclo boccaccesco sia nelle storie, sia nel tono farsesco; tuttavia grazie ai colori di una natura lussureggiante e ai suoni di un soundtrack ispirato a brani
africani, la pellicola acquista una propria cifra stilistica e risulta sostanzialmente interessante, nonostante le lentezze e le numerose ovvietà. Tra i sei racconti si ricorda soprattutto quello del marito che si finge
cieco per scoprire gli amanti della moglie adultera ai quali – giovandosi della propria falsa minorazione - gioca scherzi beffardi di ogni tipo. In seguito l’uomo – dopo aver liquidato i suddetti - afferma di avere riacquistato
la vista grazie ad un unguento datogli dallo stregone. Gli altri episodi si basano invece sulle solite mogli furbe o, peggio, ninfomani e sugli abituali stratagemmi (non manca il classico travestimento femminile) posti in atto
da giovani aitanti al fine di sedurre principesse e mogli altrui. Il successo fu modesto.
Nell’autunno 1972 escono due film di Pasquale Festa Campaniele che aderiscono al filone pasoliniano. Il primo, Jus primae noctis (settembre 1972; 105 min.), si
svolge interamente in un borgo medievale (Castello Caetani di Sermoneta, vicino Latina) nel quale spadroneggia il tiranno Ariberto interpretato da un Buzzanca in piena forma, insolitamente calato nel personaggio di un
sognorotto sicuro di sé, duro e sprezzante. Il comico palermitano era al culmine della propria popolarità grazie ai successi di Homo eroticus (Vicario, 1971) e de Il merlo maschio (sempre Festa Campanile, 1971) e
in qualche modo replicava, con Ariberto, il personaggio del latin-lover del film di Vicario. Alle sue ribalderie – la principale delle quali è l’avere ristabilito lo “jus primae noctis”, a danno di tutti gli abitanti del borgo
– si contrappone il furbo Gandolfo (un Renzo Montagnani altrettanto brillante) il quale dapprima riesce solo a tenergli testa mentre nel finale organizza una vera e propria rivoluzione popolare che culmina con la cacciata del
signorotto. Come personaggio secondario compare addirittura il papa (Paolo Stoppa) ora in fuga da Roma, ora in procinto di rientrarvi ovvero una sorta di clone di Ariberto in uno scenario più grande. Risulta evidente che
l’ambizione di Festa Campanile (e dei suoi sceneggiatori Malerba e Jemma) è di proporre una divagazione seria sul potere, sulla Chiesa e sulla rivoluzione - non troppo distante per impegno dal film pasoliniano - il cui stile
visivo e narrativo attinge più al ciclo di Brancaleone che a quello delle avventure erotiche dei numerosi Decameron (tra l’altro le figure femminili sono tutte marginali, compresa quella della protagonista, Marilù Tolo; vi si
nota poi una giovanissima Enrica Bonaccorti, una delle tante paesanotte “costrette” a concedersi al cavaliere). Dai film di Monicelli si riprende il tratteggio dei due principali protagonisti e la lunga scena del duello (prima
con i bastoni, poi a mani nude) mentre ai film boccacceschi si rifà tutta la questione relativa al titolo con le tante contadine ben felici di dovere soggiacere alle smanie del cavaliere Ariberto. Purtroppo però l’andamento
del racconto è fiacco, i dialoghi sono generici e l’intreccio alquanto ripetitivo nonostante le buone prove degli attori, i costumi azzeccati e la bella ambientazione. Inoltre il taglio anticlericale – addirittura più drastico
di quello pasoliniano – appare manicheo e, alla lunga, stucchevole mentre gli umori “rivoluzionari” suonano quanto mai generici e un po’ troppo didattici. Il film di Festa Campanile – complessivamente gradevole – è quindi
un’occasione mancata. Il notevole successo commerciale di Jus primae noctis induce il regista a tentare il bis con La Calandria (dicembre 1972; 100 min.), pellicola ispirata all’omonimo testo teatrale
(1513; in cinque atti) del Bibbiena. La pellicola, girata a Pienza, è addirittura migliore di Jus primae noctis, anche perché il regista tralascia gli artificiosi addentellati politico-rivoluzionari e si dedica esclusivamente a mettere ins cena in modo gustoso e vivace un testo ricco di situazioni comiche. Inoltre a un Buzzanca ancora più estroso che nel film ambientato a Sermoneta si aggiunge un ottimo Salvo Randone nella parte grottesca di un anziano marito che preferisce alla bellissima moglie (Agostina Belli) la sua precettrice ovvero Buzzanca in abiti femminili.
Il soggetto è presto raccontato: Livio, per scommessa, deve sedurre Fulvia (Agostina Belli), la moglie del vecchio Calandro (Salvo Randone). Per riuscirvi prende il posto della precettrice (una prostituta in realtà)
chiamata dalla suocera della giovane per svegliare la pudica e imbranata Fulvia. Equivoci a non finire costellano il racconto, molti esilaranti: in particolare appare assai riuscita tutta la parte relativa al goffo
corteggiamento che Livio subisce ad opera dello sciocco Calandro. Per il protagonista le cose finiranno male: vincerà la scommessa, ma una beffa di troppo ai danni di Ferruccio (Cesare Gelli), il signorotto locale e della sua
amante (Barbara Bouchet), gli costerà l’evirazione. La pellicola è brillante sotto molteplici punti di vista e fa certamente parte del filone “colto” dei “decamerotici”, insieme a La Betia e Jus primae noctis. Ambientazione,
attori, dialoghi e musiche funzionano egregiamente mentre il legame coi film boccacceschi si coglie soprattutto nel nucleo centrale del racconto ossia nell’ennesima variazione della figura del marito vecchio e rimbambito.
Quest’ultimo però, da tipica comparsa persa nel fondale, diviene uno dei due protagonisti e, grazie alla bravura dell’attore, tende a tratti perfino ad oscurare l’estroversa presenza di Buzzanca.
La pellicola maggiormente anticlericale del ciclo è certamente Fratello homo sorella bona
(ottobre 1972; 90 min.) girata dall’esperto Mario Sequi sulla base di una sceneggiatura di Alfredo Tucci. Fin dal titolo – una storpiatura di Fratello sole sorella luna (Zeffirelli, 1972), la quasi coeva biografia per immagini di San Francesco – l’opera si accanisce con atteggiamente chiaramente blasfemo intorno ad un insieme di consuetudini religiose. Non a caso la “scintilla” narrativa consiste nella richiesta di ricovero in due monasteri rurali da parte degli abituali residenti di un bordello fiorentino. Nella città toscana infuria la peste e pertanto quattro prostitute e i loro compagni divengono monache e frati, portando l’insieme delle loro abitudini entro le sacre (si fa per dire) mura di queste istituzioni religiose. In breve tutti i religiosi si “convertono” ad una sessualità libera e di gruppo. Oltre ad alcune gioconde orgette di sapore hippy, la messa in scena prevede apparizioni di santi che si uniscono sessualmente con adoranti fanciulle, frati che declamano il cantico di San Francesco sulle fattezze nude della moglie del podestà, un religioso che pretende quale penitenza dalla solita moglie insoddisfatta una sorta di masturbazione “rituale” e via discorrendo.
La regia è sufficientemente accurata, sicura e dotata di un buon senso dello spettacolo, alcuni episodi risultano perfino divertenti a tratti, mentre il taglio dissacrante non stupisce chi ricorda alcune pellicole giovanili
di Sequi (ad es. la fiaba demoniaca Incantesimo tragico, 1951; vedi). Il racconto, per quanto parcellizzato in numerosi episodi, possiede un chiaro intreccio primario di assoluta convenzionalità: il podestà impone
alla bella figlia (Antonio Santilli) le nozze con un orribile, vecchio e grasso notaro; la fanciulla, spalleggiata dalla disinibita madre, riuscirà a farsi beffe del padre e a fuggire con i falsi monaci. Il film, che ottiene
un discreto successo, rispecchia le tendenze di un’Italia sempre più laica e in preda ad una radicale rivoluzione dei costumi sessuali. Di lì a poco il referendum sul divorzio (maggio 1974) sancirà la definitiva affermazione di
questo tipo di società civile, divenuta maggioritaria. Il cinema trasgressivo e libertario dei primi anni settanta diede un contributo fondamentale a questa mutazione antropologica secondo una prospettiva che andava ben oltre
le sofisticate intenzioni pasoliniane relative alla rievocazione di un mondo arcaico, puro e precapitalistico.
Quanto a tendenze anticlericali non scherza neppure Racconti proibiti... di niente vestiti (ott. 1972 100 min.) dell’esperto Brunello Rondi, già collaboratore
alla sceneggiatura di numerosi capolavori felliniani (La dolce vita, Otto e mezzo, Fellini-Satyricon), giunto ora alla settima regia. La pellicola scritta dall’autore con Gianfranco Bucceri e Roberto Leoni,
possiede ambizioni alte e risulta tra le più interessanti della serie. Il pretesto narrativo è costituito dai racconti che Lorenzo Del Cambio (Rossano Brazzi), un cavaliere cinico e navigato, fa a un giovane piuttosto
ingenuo per illuminarlo intorno alle cose del mondo, con particolare riferimento all’universo sessuale. Il tono è particolarmente scanzonato e beffardo: la pulsione sessuale appare l’unica realtà indiscutibile di un mondo
popolato da vane credenze e sciocchi sentimentalismi. Ovviamente l’ideologia dominante – quella clericale – viene considerata come una sequela di ipocrite fandonie volte a coprire il potere ed il benessere di alcune cerchie
colte e furbe a danno di popolani creduloni. Ecco dunque un nobile che esercita il diritto dello “jus primae noctis” in una versione rovesciata (sarà il ragazzo a dover soddisfare la moglie del nobile), un “santo” (Mario
Carotenuto) che afferma di miracolare una giovane sposa sterile di fronte ad una massa di ignoranti mentre la prende con l’inganno; un convento in cui si pratica il sesso di gruppo spacciato come purificazione dei corpi;
l’antro della maga Dirce (Tina Aumont) la quale, con la scusa di predizioni e mezzi favori sessuali, soggioga e spoglia decine di popolani; i rituali di una nobildonna dalle tendenze sadomasochistiche (Barbara Bouchet; già
protagonista del recente Valeria dentro e fuori di Rondi di cui qui si riprendono alcuni temi) la quale, incoronata di spine, afferma di volere rivivere le sofferenze di Cristo, frustando, facendosi frustare
ed infine, per “mortificarsi” ulteriormente, soggiacendo alle brame del protagonista. Tutti gli episodi vengono realizzari con mano sicura (belle inquadrature, un cast efficace, varietà di situazioni, una piacevole colonna
sonora di taglio barocco), restituiscono un quadro nichilista (particolarmente provocatorio appare l’episodio con la Bouchet) che è direttamente relazionabile con la visione del coevo cinema felliniano, al quale Rondi si rifà
espressamente nelle atmosfere e in alcuni personaggi (l’episodio della maga Dirce). Tra l’altro anche il cast conta alcune significative presenze tipiche del cinema del maestro riminese quali Leopoldo Trieste (il marito scemo
della “miracolata”) e Magalì Noel (donna Prudenza). Rispetto al Decameron pasoliniano, il film di Rondi è segnato da un’aura malinconica: la sessualità, più che il simbolo di una vitalità ritrovata, trasgressiva o
rivoluzionaria, appare l’unico rifugio di esistenze senza luce, imprigionate entro il reticolo di valori non autentici, valori da alcuni sbeffeggiati (le figure della classi dominanti, ovvero cavalieri e chierici), da altri
subìti con acritica condiscendenza. Il grande finale bergmaniano ne è palese conferma: alla fine del suo cammino, l’attempato cavaliere – come il protagonsita de Il settimo sigillo (1956) – si trova di fronte la Morte
(Monica Strebel) nelle vesti di una bella e seminuda fanciulla che gli fa cenno. L’esistenza è dunque solo un sogno, mera apparenza, invano allietata dalla grazia femminile. Dunque il film di Brunello Rondi appartiene solo
esteriormente al ciclo dei decamerotici (tra l’altro è ambientato nel Cinquecento) del quale accetta in parte le regole non scritte (donne furbe, sempre in cerca di giovani amanti, mariti babbei, tono generalmente giocondo).
Pur rimanendo centrale, il tema della sessualità (trattato, peraltro, senza eccedere nelle scene di nudo) rimanda, questa volta, a una riflessione più ampia e filosofica, sganciata da quelle pressanti tematiche contemporanee
(la rivoluzione sessuale del ’68, un anticlericalismo militante ed astioso) che fanno capolino qua e là nei decamerotici. Gli uomini del Potere spadroneggiano, usano i corpi dei più deboli, si travestono con varie fogge
ideologiche e religiose, ma si tratta solo di un’amara e amorale commedia che si svolge in un orizzonte svuotato, privo di valori metafisici condivisi; quello de La dolce vita, per interderci, alla cui disincantata
visione il film rimanda in più punti (il cinico cavaliere, in fondo, somiglia al reporter Marcello). Alla fine la Morte attende tutti, senza eccezioni.
L’esperto Silvio Amadio si ispira invece a Masuccio e al suo Novellino (1450-57; cinquanta racconti) per Masuccio salernitano (novembre 1972; 90 min.) e
colloca il centro gravitazionale dell’antologia filmica in un convento. Il film aderisce pertanto all’anticlericalismo diffuso in questo genere filmico, anche se la satira è compelssivamente bonaria e scontata. La pellicola,
basata su una sceneggiatura dello stesso regista con altri, musicato con sfrontati motivetti e girato senza ricorrere a scenari di rilievo, affida la propria narrazione a un cast di attori poco noti ma tutti convincenti e
simpatici. Le novelle sono arricchite con qualche elemento insolito: così una moglie in cerca di amante si finge indemoniata in una lunga sequenza che anticipa, in modo umoristico, alcuni vocaboli de L’esorcista (Froedkin,
1973); invece
un frate, per procurarsi i denari necessari a compensare l’amante, diviene l’informatore del signorotto locale, inventandosi cospiratori e bande rivoluzionarie pronte ad agire. In particolare due burloni, travestiti da frati, ingannano in ogni modo sia gli abitanti del convento, sia quelli del borgo: vendono false reliquie e falsi gioielli, recuperano le brache di un seduttore dimenticate nella stanza da letto della donna inscenando il ritrovamento di una santa reliquia, immediatamente sottoposta ad adorazione popolare...
In definitiva una pellicola dignitosa che si colloca tra quelle più accettabili del modesto filone “decamerotico”.
Sempre di buon livello è Fiorina la vacca (dicembre 1972; 100 min.), pellicola ispirata ad alcuni racconti del Ruzante. Il regista è Vittorio De Sisti che si
basa su una sceneggiatura di Fabio Pittorru la quale si vorrebbe ambientata nei dintorni di una Padova cinquecentesca (che non si vede mai) mantre il film viene girato nei dintorni di Roma (vi compare il Castello di Corcolle,
scenario ricorrente del periodo; si vedano, tra gli altri, Le colt cantarono e fu tempo di massacro, Fulci 1966 e I corpi presentano tracce di violenza carnale, Martino, 1973). Anziche un pretestuoso narratore,
questa volta a fare da filo conduttore è il destino della vacca Fiorina la quale passa di padrone in padrone, sempre al culmine di un episodio erotico. Le vicende riguardano le solite donne assatanate (Ewa Aulin, Angela
Covello, Jenny Tamburi, una giovanissima Ornella Muti) le quali, più intraprendenti rispetto alle colleghe dei vari decameroni, sembrano disposte a tutto pur di procurarsi un nuovo amante. Fanno loro corona i soliti mariti
tonti o accomodanti. Fra questi ritroviamo validi attori quali Gastone Moschin, Mario Carotenuto e Renzo Montagnani. Le inquadrature sono di buona fattura, gli scenari offrono squarci suggestivi (anche se prevalgono le aperte
campagne e i casolari isolati), il ritmo è abbastanza vivace e le situazioni relativamente diversificate. Una lode particolare va alle musiche, scelte tra i brani d’epoca rinascimentale (composizioni di Tromboncino, Allegri
ecc.). Se l’insieme sembra giungere a una stentata “sufficienza”, rimane il fatto che nulla in Fiorina la vacca è memorabile o quanto meno originale e la ripetitività delle situazioni provoca un evidente tedio. Alcune
timide allusioni politiche (la lamentela sull’arroganza dei padroni, il felice menage a quattro di stampo hippy su cui termina un episodio) non vengono approfondite.
|