Il Gattopardo: il tramonto dell’aristocrazia latifondista (1963)
“Una volta, mentre inzuccherava la tazza di tè tesagli da Angelica,
si accorse che stava invidiando le possibilità di quei tali Fabrizi Salina e Tancredi Falconeri di tre secoli prima, che si sarebbero cavati la voglia
di andare a letto con le Angeliche dei loro tempi senza dover passare davanti al parroco, noncuranti delle doti delle villane (che del resto non esistevano)...“
riflessioni di Fabrizio principe di Salina (cap. 3°)
“Complimenti per il fidanzamento di tuo nipote. La ragazza è una bellezza: l’esempio sarà presto imitato da molti”
un invitato alla festa parla con il principe (frase assente nel romanzo)
Visconti mette in immagini Il Gattopardo (feb.1963; 185 min.), lo straordinario romanzo (1958) di Tomasi di Lampedusa raccontando una Sicilia nel cuore della
burrasca risorgimentale. La pellicola, complessivamente fedele al testo, si concentra sul periodo 1860-62 (il racconto filmico si ferma al grande ballo palermitano, rinunciando ai due ultimi, amarissimi capitoli ambientati nel
1883 e nel 1910) e focalizza la propria attenzione sul principe di Salina (un eccezionale Burt Lancaster) e sul suo tragico cedimento alla nuova, volgare e mercantile classe di borghesi, arricchitisi con traffici loschi
all’ombra delle gesta dei Mille e delle complicità massoniche, classe simboleggiata da don Calogero Sedàra (un altrettanto indimenticabile Paolo Stoppa). Come Rocco e i suoi fratelli finiva con l’esprimere la decadenza della purezza originaria, rappresentata dal protagonista e dalla decisione di abbandonare la propria terra per emigrare in un nord più ricco ma estraneo, così il ritratto del principe, che ci accompagna dalla prima all’ultima immagine, offre il disegno dolente di una classe nobiliare giunta al propro inarrestabile declino la quale cerca di sopravvivere mischiando il proprio sangue con quello di gentaglia accecata dalla ricchezza e incapace di apprezzare l’intima bellezza delle cose. Non a caso Sedàra, in differenti momenti, cerca di valutare oggetti dotati di aristocratica eleganza, riducendoli al loro semplice valore venale, espresso in “salme di terreno”. Visconti, in modo forse inconsapevole, intona un accorato requiem per l’aristocrazia latifondista, abbandonando per sempre le quisquilie marxiste con cui aveva superficialmente flirtato in gioventù. Nel romanzo di Lampedusa c’è il profondo scetticismo nei confronti dell’impresa dei Mille e della “nuova” Italia: questa unione (alla quale guarda con poca convinzione perfino parte della classe dirigente piemontese), inventata da ambigui avventurieri vestiti di rosso e appoggiati dalla marina angloamericana, nasce con l’ennesima invasione subita dalla Sicilia nei secoli; i Piemontesi sono i nuovi invasori che vengono a sostituire i Borboni, governo italiano quanto il loro, e meglio calato nelle cose del meridione rispetto a quello che verrà impsoto da questi forestieri che parlano soprattutto francese.
Il medesimo scetticismo innerva l’intero racconto viscontiano, facendo del Gattopardo un film incline a cantare le lodi della Tradizione, di credenze solide e antiche, ora “superate” dalla moda dell’ugualitarismo massonico, prevalente nel 1860 come nell’Italia del centrosinistra di Fanfani e Moro (del 1963). Focalizzando il racconto sulla tormentata e nobile figura di Fabrizio Salina, con il quale Visconti mostra una totale empatia, il regista milanese racconta all’Italia del boom economico quanto fragili siano le fondamenta dello stato italiano, nato dal tradimento dei nobili meridionali per la propria casta e per la corona borbonica e sviluppatosi poi sempre all’insegna del più pragmatico opportunismo (cui il film chiaramente allude) come testimoniano le svolte della Marcia su Roma (il cedimento del re al fascismo), dell’8 settembre (la fuga del re) e della Resistenza (l’Italia fascista, soprattutto del nord, si scopre, di colpo, tutta quanta, antitirannica, repubblicana e democratica). D’altronde per sopravvivere bisogna adeguarsi ai tempi che mutano: il principe lo dice continuamente, loda Tancredi (un altrettanto eccezionale Alain Delon) che simboleggia proprio la capacità di adattare, in modo spregiudicato, le idee al corso dei tempi, ma nel fondo del proprio animo intuisce che quello che sta accadendo coincide con il crepuscolo della propria casata e della propria storia. Scrive Lampedusa nel capitolo relativo alla morte del principe: “Lui stesso aveva detto che i Salina sarebbero sempre rimasti i Salina. Aveva avuto torto. L’ultimo dei Salina era lui. Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto”.
Sui titoli di testa Rota espone i quattro temi principali della propria partitura: dapprima un motivo impulsivo e pieno di vita, associato alla figura di Tancredi, poi una melodia solenne e scolpita, legata al personaggio
del principe, un tema più vaporoso che esprime le sue intime e sofferte meditazioni ed infine un tema flessuoso e dolcissimo affidato agli archi, poi all’oboe e al clarinetto (riferito ad Angelica). Il primo, il secondo e il
terzo tema riprendono, in modo fedele, i motivi del quarto movimento della Sinfonia sopra una canzone (1947) di Rota mentre il tema di Angelica dominava il terzo movimento della medesima composizione: tutti quanti sono attraversati da un’intenso romanticismo innervato da reminiscenze brahmsiane. In più punti della pellicola questi quattro motivi risuonano in associazione ai personaggi citati, così da rendere anche Il gattopardo - come tutti i principali lavori di Visconti - un vero e proprio meolodramma filmico in cui l’apporto musicale rimane essenziale. Non solo la colonna sonora crea l’attesa in momenti chiave - si pensi alla memorabile entrata in scena di Angelica, la primadonna, preannunciata da una lunga introduzione sonora (come accadeva alla Mimì pucciniana) dal suo meraviglioso tema che esprime oltre alla sua bellezza anche lo stupore che incute in chi la contempla - ma, molto spesso, accompagna i lunghi, importanti monologhi dei singoli personaggi creando, come in Rocco e i suoi fratelli, delle vere e proprie “arie” cinematografiche.
Il film si può suddividere in tre atti di un’ora circa ciascuno (la versione americana, curata o meglio rovinata da Sidney Pollack, venne ridotta di circa mezz’ora, ennesima riprova della limitatezza culturale degli Usa e
dell’incapacità del pubblico americano di comprendere pellicole parzialmente estranee alla propria storia). Il primo atto termina con la grande scena del pranzo nel castello di Donnafugata (nel ragusano; ricostruito a Ciminna,
non lontano da Palermo) che coincide con la prima apparizione di Angelica: in questo Finale primo, iniziato nel segno del sarcasmo (il goffo arrivo di don Calogero, commentato da un motivetto degno di un’opera buffa) e della
bellezza (l’entrata di Angelica), termina su una nota dissonante allorchè la giovane si lascia andare a una sguaiata e volgare risata a commento di una battuta audace di Tancredi; l’intera famiglia del principe, scandalizzata,
abbandona la tavola. E’ il primo concreto segnale del declino che attende la casata. Il secondo atto si chiude, invece, con il lungo e dolente monologo del principe, interamente commentato dai suoi due Letimotive, al
cospetto dell’inviato piemontese, nel quale si sintetizza il senso profondo della Sicilia, terra immobile ed irredimibile, e la premonizione di un prossimo tramonto dei Salina. Il terzo atto è interamente occupato dalla grande
festa a Palermo, viene commentato da musiche di danza tra le quali prevale un valzer di Verdi rielaborato da Rota e termina con una sequenza silenziosa - il lugubre silenzio della musica, dopo 50 min. di ininterrotte, fastose
danze, assume un carattere fortemente funereo - scandita solo dal suono delle campane: il principe, assai provato dopo un malore, si incammina solitario verso una viottolo buio e miserabile. Nel primo atto notiamo la
presenza dei temi di Tancredi e del principe nella sequenza che illustra il lungo viaggio della famiglia del principe verso Donnafugata: terminata l’avventura garibaldina, l’irruenza di Tancredi serve per ristabilire la propria
autorità (e quella della propria classe sociale) nei confronti di una soldataglia intimorita dai suoi titoli di merito (riesce a farsi aprire la via a un posto di blocco) mentre i due temi del principe commentano la sua
crescente perplessità nei confronti dei tempi nuovi. E’ interessante rilevare anche l’uso simbolico di alcune celebri pagine operistiche. Nella sequenza in cui don Fabrizio riceve un generale garibaldino (Giuliano Gemma),
quest’ultimo intona in modo maldestro “Vi ravviso o luoghi ameni” (Bellini, La sonnambula, 1° atto), l’aria del conte Rodolfo, intrisa della malinconia di chi sente avvicinarsi la fine. Questa scelta appare ricca di
significati: un garibaldino cerca di accreditarsi come persona colta presso la vecchia classe dirigente e canta in modo approssimativo un brano musicale e, di fatto, senza accorgersene, dà voce al disagio del principe,
anch’egli al tramonto in un mondo che sta subendo radicali cambiamenti. La situazione suscita un complesso insieme di riflessioni - lo stonare del cantante corrisponde alla dissonanza complessiva della situazione - presso un
uditorio principesco distratto e preoccupato d’altro, che mal sopporta quella esibizione, non a caso conclusa da una sorta di involontaria pernacchia (l‘effetto sonoro che apre la sequenza successiva). Qualcosa di molto simile
si ha con l’arrivo a Donnafugata della carovana principesca: l’entrata in scena del rozzo don Calogero Sedàra coincide con l’esibizione, anch’essa approssimativa e quasi “felliniana”, della banda musicale che saluta Fabrizio di
Salina con una versione del coro Noi samo zingarelle (Verdi, La traviata); subito dopo, in chiesa, gli aristocratici, stanchi e perplessi, ascoltano una versione organistica del celebre Amami Alfredo (La traviata).
Calogero, ora ricco quanto e forse più del principe, manifesta la propria natura volgare nell’utilizzo di pagine musicali di grande bellezza, create dal cantore stesso dell’epopea risorgimentale che ha generato tanti “Sedàra”
nella penisola, deformate da esecuzioni mediocri e inserite in un contesto clericale che è “dissonante” rispetto a quel contesto musicale. Il ricco borghese, di cui scopriremo gradualmente l’avarizia e la pochezza, si rivela
fin d’ora totalmente estraneo alle cose artistiche. Il memorabile terzo atto - la grande festa a Palermo - corrisponde con l’incoronazione di Angelica quale erede dell’universo aristocratico. E’ lei il centro della della
serata il cui momento culminante consiste nel valzer ballato, in solitudine, dal principe e Angelica. Il principe in realtà si sente male e si chiude in una stanza del palazzo a rimirare un lugubre quadro di Greuze che ritrae
un uomo morente, circondato dalle figlie. La grandezza di questo finale consiste nel contrasto netto tra i colori sfavillanti della festa (l’interminabile ballo), la felicità dei convitati e lo stato psicologico del
protagonista che percepisce la morte vicina. Quel contrasto tra il chiuso e l’aperto, tra la solitudine del singolo (il principe) e la coralità festosa (che attornia Angelica, l’erede designata) crea una situazione di profondo
conflitto che anima questa grande pagina cinematografica che è lungi dall’essere meramente ornamentale. C’è chi tramonta e c’è chi nasce (la coppia Tancredi-Angelica): l’avvicendarsi delle classi sociali al potere sembra
replicare i ritmi inesorabili della natura. Coppola si ricordewrà di questa eccezionale pagina cinematografica nelle tre grandi sequenze che aprono The Godfather (1972), The Godfather Part II (1974) e The Godfather Part III (1990), anch’esse musicate da Rota, in cui si alternano le immagini di una grande festa a quelle del padrino che riceve amici e questuanti.
Dopo avere elogiato, tramite Rocco e i suoi fratelli, la purezza originaria della cultura rurale lucana e il suo conflitto con la modernità, ora Visconti mette in scena un sontuoso melodramma in cui narra, con
evidente rimpianto, la fine dell’era aristocrazia borbonica, anch’essa messa in ginocchio dalla modernità italiana ai suoi albori ossia da una borghesia massonica (la Massoneria è citata all’inizio del racconto dal gesuita)
volgare e mercantile, momentaneamente alleata con i “criminali” garibaldini (presto scaricati con l’episodio di Aspromonte come si affrettano a raccontare il colonnello Pallavicini e lo stesso Tancredi durante la festa), con la
marina inglese e con i puntigliosi e tristi savoiardi. L’ugualitarismo banale e inconsapevole della nuova era viene messo alla berlina da un autore profondamente innamorato della bellezza in tutte le sue forme (pittoriche,
teatrali, musicali ed umane; in quegli anni Visconti era notoriamente infatuato di Alain Delon) e nostalgico di una società ordinata in classi gerarchicamente distinte e ciononostante affiatate e solidali tra loro. Si veda al
riguardo il rapporto di sincera amicizia che lega il principe al suo confessore, il gesuita padre Pirrone (Romolo Valli) come pure al sua guardiacaccia (Serge Reggiani), due figure ricche di umanità che si accontentano di
vivere nell’ombra del nobile al quale guardano, in definitiva, come a un’autorità indiscussa. Lo pseudocomunista Visconti dedica un paio di immagini fugaci ai miseri vicoli palermitani e qualche succinto dialogo, così da
mettersi l’anima in pace: una qualche preoccupazione per gli ultimi bisogna pur sempre mostrarla; tolti quei pochi minuti, il resto del racconto si occupa esclusivamente del destino di casa Salina. Inoltre non è secondario
notare che la figura della prostituta (da cui si reca di nascosto il principe), mostrata di sfuggita nella prima parte del film, possiede, non a caso, lineamenti non troppo dissimili da quelli di Angelica, sebbene invecchiati e
deformati dalla miseria. E’ un altro modo, più sottile, con cui l’autore registra la distanza del mondo dei Salina da quello delle classi inferiori e, in qualche modo, illumina il carattere illusorio dell’attrazione che lega
l’aristocratico Tancredi alla (momentaneamente) bella Angelica, nei cui modi emergono, in mondo intermittente ma costante, atteggiamenti sguaiati e cafoni. Anche verso la chiesa Tomasi e Visconti non si mostrano teneri: nei
dialoghi iniziali tra il principe e il gesuita appare evidente che chi teme per il proprio futuro è giustamente solo il prinicpe: è la sua classe ad essere sul punto di venire inghiottita dalla Storia; la chiesa, con i suoi
eserciti di sacerdoti, monaci e suore, saprà sempre trovare un modo per rimanere a galla - adattando il proprio malleabile arsenale di sermoni e prediche alle esigenze del contesto storico - anche con i nuovi politici liberali
che non potranno certamente fare a meno dei suoi servigi. Il principe di Salina ricorda tutto ciò a un padre Pirrone in una serie di “duetti” particolarmente riusciti (non a caso Bertolucci, il più fedele o dotato “allievo” di
Visconti, riproporrà il duetto Lancaster-Valli nella prima parte di Novecento, 1976, probabilmente la pellicola più vicina a questo capolavoro viscontiano). Più avanti Visconti ci mostra il gesuita a colloquio con alcuni
popolani in un’osteria, perfettamente a proprio agio e apertamente scettico intorno ai valori e alle abitudini dei nobili. Con pochi tratti il regista mostra la vera natura di questi sacerdoti, gente del popolo che si è elevata
al rango dei nobili attraverso l’esegesi delle Scritture e gli studi teologici (si veda al riguardo l’esemplare figura di Julien Sorel, il protagonista de Il rosso e il nero di Stendhal) e che, accolta, tra le fila dell’aristocrazia, si rivela utile soprattutto a raccogliere le confidenze delle mogli e delle figlie dei nobili, radunandole in lunghe sedute di preghiera; il vero mondo aristocratico rimane però lontano dall’animo profondo di queste figure di popolani travestiti.
La critica militante rimase spiazzata da Il Gattopardo: ne parlò in modo tiepido, a volte lo attaccò frontalmente e rimproverò a Visconti di non avere messo a fuoco la misera realtà rurale che circondava il principe;
inoltre accusò il disegno dei personaggi in quanto troppo stereotipato e colorito e la musica eccessivamente frastornante. Insomma quella critica avrebbe voluto che Visconti tornasse al grigiore del neorealismo del dopoguerra,
a certe lungaggimi opache de La terra trema e soprattutto non capì (o finse di non capire) a cosa si trovava di fronte ovvero ad un fiammeggiante e magnifico melodramma filmico. Il disegno dei personaggi infatti, come già in Rocco,
si staglia in modo nitido, chiaro e seducente, esaltato dalla colonna sonora (nelle modalità sopra descritte), su un fondale sbiadito e irrilevante (come sempre accade al teatro d’opera). Ogni personaggio rappresenta una
tipologia completa, perfettamente disegnata e, come tale, certamente poco realistica come inverosimili sono Rigoletto, Violetta e Azucena: il protagonista è un “baritono” (il principe) come in tante opere politiche verdiane; ci
sono poi, un poco defilati gli amorosi “tenore e soprano” (Tancredi e Angelica), c’è la seconda donna (il “mezzosoprano” Concetta) animata dalla consueta rivalità rispetto alla protagonista, ci sono i “buffi” (Calogero e
l’inviato piemontese) e i necessari comprimari (il gesuita, il guardiacaccia, la moglie del principe) ed infine il coro sostituito, alla maniera francese, da un sontuoso balletto. La vicenda è divisa in tre atti abbastanza
evidenti. Questo è il quadro stilistico, coerente e ammirevole del’opera, quadro peraltro simile a quanto si trovava in Rocco e si troverà nelle opere successive dell’autore (si pensi soprattutto alla grandiosa trilogia
tedesca 1969-73) Come il romanzo di Tomasi di Lampedusa venne salutato con la ben nota sufficienza che caratterizzava letterati e artisti infatuati, in quel periodo, per un’arte sperimentale e trasgressiva che, praticamente,
non ha lasciato tracce (si pensi ad esempio al cosiddetto Gruppo 63), allo stesso modo il mondo del cinema, alle prese con le novità linguistiche di Resnais, Godard e Antonioni, sminuisce il valore de Il Gattopardo,
definendolo un film all’antica, uno spettacolo “d’altri tempi”, poco in linea con le spinte “rivoluzionarie” che, all’inizio del decennio, animano larghi strati del mondo giovanile e dell’universo artistico. Certamente il
capolavoro del regista milanese era estraneo a tutto ciò ed anzi raccontava l’opposto ovvero dipingeva un mondo armonioso e tradizionale sul punto di venire rovesciato da un modernismo volgare e materialista e lo raccontava
attenendosi alle solide ed auree regole del melodramma (di cui il cinema rimane il vero e unico erede), anch’esso un linguaggio artistico sostanzialmente “deriso” (in quegli anni) dai presunti e inutili innovatori del
serialismo e della musica aleatoria. Così facendo Visconti firmava un’opera ammirevole, destinata a rimanere tale nel corso dei decenni successivi.
testo scritto nel gen. 2016
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