Cuore di cane, Oh Serafina, Così come sei, Il comune senso del pudore, Caro Michele, Un borghese piccolo piccolo, Brutti, sporchi e cattivi, Signore e signori
buonanotte, I nuovi mostri, Al piacere di rivederla, Gran bollito, Il mostro, Il gatto: mostri in agguato (1976-78)
“Questo è ciò che si ottiene quando invece di procedere secondo le leggi di natura e il loro ritmo, si accelera
il passo artificialmente. Risultato: Bobikof, un farabutto ingovernabile” prof Preo Preobazemskij in Cuore di cane
Nel biennio 1976-78 appaiono sugli schermi una serie di film italiani che mettono in scena personaggi mostruosi e situazioni smisuratamente grottesche. Inaugura la
serie la trascrizione di Lattuada del romanzo satirico (1925) dello scrittore ucraino Bulgakov, Cuore di cane (gen 1976; 113 min). Va ricordato che il regista milanese nel 1952 aveva già portato in immagini, con
risultati interessanti anche se non del tutto soddisfacenti, Il cappotto di Gogol (vedi) e, in seguito, si era cimentato con Puskin (La tempesta, 1958) e Cechov (La steppa, 1962). Nella Mosca degli anni
venti, in preda ai primi deliri dell’ugualitarismo marxista, il professore borghese Preobazemskij (Max von Sydow) attua esperimenti folli. In particolare trapianta una ghiandola pituitaria (che controlla la secrezione di
numerosi ormoni) e i testicoli di un uomo morto nel simpatico cagnolino Bobby il quale, in breve tempo, si trasforma in un essere umano a tutti gli effetti (Cochi Ponzoni, al proprio esordio cinematografico). Questi comincia
presto ad odiare il proprio padre padrone e soprattutto il suo aiutante (Mario Adorf), fa combutta con gli odiati comunisti che assediano lo scienziato (pretendono che rinunci a parte delle troppe stanze del suo lussuoso
appatamento) e addirittura denuncia alle autorità (sempre comuniste) il proprio creatore. Quest’ultimo, compreso l’errore di voler far fare un “salto” alla natura, rimette a Bobby il suo cervello originale. Quando un giudice
viene a chiedere che fine ha fatto l’uomo-cane, si ritrova di fronte un vero e proprio cagnolino, anche se con qualche reminiscenza umana (infatti parla...). Il divertente racconto di Bulgakov trova in Lattuada un fedele,
sensibile ed intelligente trascrittore: la vicenda assume colori decisamente anticomunisti e diviene una metafora intorno alla presunzione illuminista tipica di coloro che pretendono di imporre i propri ritmi alla natura. E’
una tecnica che produce mostri: così l’uomo-cane diviene una allegoria dell’orribile sistema comunista il quale sta imponendo schemi esistenziali insensati, in omaggio al dogma ugualitario inventato da una ragione fanatica che
pretende di “correggere” la natura. Non a caso appena sviluppa un minimo di coscienza, l’uomo-cane diviene uno zelante comunista il quale non esita ad utilizzare tutte le proprie armi ideologiche per danneggiare il proprio
padre borghese. Nel romanzo e nel film lo scienziato può tornare sui propri passi e “restaurare” il cagnolino ma purtroppo il corso storico ha tempi differenti ed esigenze più complesse. Va riconosciuto poi che il romanzo è, a
suo modo, profetico in quanto prevede (o meglio auspica) la scomparsa del comunismo nel ravvedimento finale del professor Preobazemskij. Il discorso era già compiutamente presente nel testo dello scrittore - un autore
coraggiosamente anticomunista nella Russia sovietica (basti ricordare che il suo romanzo più importante, Il maestro e Margherita, scritto negli anni trenta, verrà pubblicato postumo solo nel 1967) - il quale si diverte a
immaginare un sofisticato borghese quale creatore dell’uomo-cane “comunista” ovvero egli indica nelle tendenze riformatrici della cultura borghese (da Rousseau a Marx) il luogo d’origine dell’eresia comunista che porterà al
disastro la stessa classe borghese che ha inventato quel rivoluzionario sistema sociopolitico. Insomma “l’uomo nuovo” della rivoluzione d’ottobre è per Bulgakov un uomo-cane ossia un mezzo animale, un essere ottenebrato in cui
è presente un miscuglio inestricabile di umano e animalesco. Ricordiamo che il testo di Bulgakov fu sempre vietato in Russia e che verrà pubblicato per la prima volta nel 1987 (!!) mentre in Europa sarà disponibile a partire
dal 1968. Tornando al film di Lattuada va rimarcato che gli attori sono ottimi e buona risulta pure l’ambientazione, interamente risolta a Cinecittà (anche se forzatamente teatrale, visto che ricreare gli esterni moscoviti
sarebbe stato decisamente troppo costoso) mentre le musiche taglienti di Piero Piccioni aggiungono qualche elemento di drammaticità. Insomma la seconda immersione di Lattuada nell’universo russo appare migliore di quella di
venticinque anni prima. Ciononostante il film ottiene un successo molto limitato. Nel 1988 - l’anno successivo alla prima pubblicazione sovietica del testo - Vladimir Bortko gira una discreta versione televisiva in due
puntate (130 min.) di Cuore di cane, elegante, ben recitata, un tantino scolastica e, ovviamente, molto meno esplicita quanto ad allusioni anticomuniste. Nel 2005 lo stesso regista tradurrà Il maestro e Margherita in un lungo serial televisivo.
Nello stesso anno esce un secondo film di Latuada, Oh Serafina! (ott. 1976; 100 min.) ovvero un racconto erotico-ecologista tratto dall’omonimo racconto (1973; il sottotitolo recita Fiaba di ecologia, di manicomio
e d’amore) di Giuseppe Berto. Probabilmente irritato dal cattivo esito commerciale di Cuore di cane, il regista mette a punto un prodotto semiscandalistico con il quale è sicuro di farsi notare dal grande pubblico.
La vicenda è una delle tante in cui si manifesta un’evidente disagio nei confronti di una società sempre più caotica e meschina, mettendo in scena personaggi estremi e favolistici. In questo caso il “mostro” di turno è
l’industriale Augusto Valle (un monocorde Renato Pozzetto) il quale
preferisce parlare con gli uccellini, come un novello San Francesco, anziché occuparsi della fabbrica. Un’operaia furba (Angelica Ippolito) se lo sposa, seduce poi tutte le autorità del paesotto - il sindaco masochista (Gino Bramieri) e qualche assessore - e riesce a far interdire l’ingenuo marito. Questi, in manicomio, si trova benissimo e amoreggia con Serafina Vitale, una giovane ribelle (Dalila Di Lazzaro) che ha creato problemi di ogni genere al proprio padre, produttore di armi. Nell’epilogo desichiano (il riferimento è a Miracolo a Milano,
1951) la nuova coppia approda a Milano in piazza Duomo con un carro trainato da buoi e un’enorme voliera, popolata da uccellini che presto verranno liberati. La pellicola è modesta da ogni punto di vista. La storia si
trascina scontata, gli attori sono incapaci di conferire intensità e calore agli stravaganti personaggi, i dialoghi e le situazioni sono banali, l’ambientazione rurale è generica, le musiche di Bongusto sono zuccherose;
rimangono solo le numerose scene erotiche - la vera ragion d’essere del lavoro -
a tener desta l’attenzione del pubblico (ma nel giro di qualche anno il diluvio di sale a luci rosse renderà ininfluente il ricorso a questi siparietti). Ci sono poi due inserti turistici altrettanto mediocri che la dicono lunga sugli stereotipi dei primi anni settanta (quando Berto scrisse il testo): Augusto si reca nella Assisi degli affreschi di Giotto per contemplare soprattutto S. Francesco che parla agli uccelli (Basilica di S. Francesco), indicando il solito modello pauperistico tanto in voga tra i cattolici di sinistra (in quei decenni i film su Francesco si sprecano, da Rossellini a Zeffirrelli ai due lungometraggi della Cavani) mentre la giovane borghese, in crisi di identità, non trova di meglio che vagabondare perplessa tra i templi di Bangkok, secondo un altro ridicolo stereotipo del periodo che pretende di scovare chissà quale sapienza antica o dimenticata in Oriente (d’altronde anche i Beatles si affrettarono a fare il loro pellegrinaggio in India nella seconda metà degli anni sessanta... ). Né poteva mancare in un simile film il riferimento all’antipschiatria di Ronald Laing e al progetto Basaglia di abolizione dei manicomi in quanto luoghi repressivi nei confronti dei “diversi” ovvero altre questioni fasulle (con le quali stiamo ancora facendo i conti, per cio che riguarda i manicomi), dettate dall’ideologia ugualitario-massonica.
Pertanto Lattuada appare, in questa fase, singolarmente schizofrenico: dapprima prende le distanze dalla rivoluzione russa e subito dopo sostiene i peggiori stereotipi della sinistra libertaria europea.
Due anni dopo il regista abbandona le questioni più apertamente politiche e gira Così come sei (set 1978; 109 min), film scritto con Enrico Oldoini e vagamente ispirato al romanzo Homo Faber (1957) dello scrittore svizzero Max Frisch (in seguito questo testo verrà portato in immagini da Schlöndorff nel 1991, nel valido Voyager-Homo faber).
Vi si racconta l’infatuazione di Giulio (M. Mastroianni), un architetto romano di successo, per Francesca (Nastassja Kinski al primo ruolo importante), una studentessa (anche se non si capisce bene che cosa e quando studi... )
fiorentina. Poco dopo l’inizio della loro relazione però a Giulio sorge il dubbio che la ragazza sia in realtà sua figlia (tutto lo lascia presupporre) e a quel punto si blocca. Continua a frequentarla senza però andarci a
letto, in un crescendo di tensioni e ambiguità poiché la giovane non capisce le motivazioni che ostacolano il loro rapporto. Si giunge infine a un chiarimento (Francesca si dice disinteressata alla questione paterna... ) e,
dopo un’intensa vacanza d’amore, la ragazza lascia l’amante troppo complicato. Così come sei è una pellicola di routine, girata con garbo, ben interpretata, ambientata in una Firenze interessante e accompagnata da una colonna sonora di Morricone troppo zuccherosa. Negli anni delle contestazioni e delle libertà sessuali più ostentate (viene mostrata anche una vera e propria orgia in casa di Francesca, organizzata dalla sua bella coinquilina Ania Pieroni), l’architetto rappresenta gli scrupoli di una generazione superata e quasi incomprensibile, tanto è vero che Giulio, contagiato dal differente clima ideale (sua figlia - Barbara De Rossi al proprio esordio - è incinta, dapprima pensa di abortire a Londra - in Italia è ancora un reato - poi preferisce tenere il figlio, ma non il padre... ) che anima Francesca e i suoi coetanei accetta di vivere questa vicenda amorosa prendendo la giovane “così come è”, dimenticandosi del loro probabile legame di consanguineità. In ogni caso nel finale Francesca, stanca di tanti scrupoli, disinteressata a verificare se Giulio sia realmente suo padre (poiché nel pensiero prevalente della Modernità - affetta dal dogma ugualitario - paternità, discendenza, ereditarietà sono parole prive di significato), preferisce girare pagina e anche l’esausto architetto, in definitiva, lascia Firenze senza eccessivi rimpianti.
Così come sei vale soprattutto come riflessione su due generazioni a confronto, l’una più cauta, riflessiva, capace di sopportare anche quando è prigioniera di situazioni familiari opprimenti (la famiglia di Giulio è tale solo di nome...), l’altra più spregiudicata e fatua, decisa a vivere il presente assecondandone ogni spinta emotiva, senza troppo interrogarsi su ciò che comporteranno alcune scelte nell’immediato futuro.
Per il resto il film trascina troppo per le lunghe un’unica situazione, girando spesso a vuoto,”. Lo salva il carisma dei due attori, la bravura (a tratti un po’ impacciata) di Mastroianni e la luminosa bellezza della
Kinski. Allo spettatore attento non passa inosservato il consueto e un po’ volgare “spot” pro aborto (abilmente inserito in una vicenda secondaria), in quegli anni cruciali un “contributo” quasi obbligatorio per i cineasti
“impegnati”.
Giunto al proprio settimo film da regista, Alberto Sordi, con Il comune senso del pudore (apr. 1976; 130 min), aggredisce il mondo dello spettacolo di cui fa
parte. Aiutato da Rodolfo Sonego nella sceneggiatura, il comico filma quattro episodi strettamente legati tra loro quanto a tematiche e con un finale che riunisce sulla scena i personaggi dei quattro brevi racconti. Per
festeggiare le nozze d’argento, l’operaio Giacinto (che da anni non vede film) porta la moglie Erminia (Rossana Di Lorenzo) al cinema ma incappa in pellicole sfrenatamente erotiche. La donna è sconvolta, sta male ma poi, di
sera, cerca di imitare quei film per accontentare il marito Uno scrittore ingenuo e pudico (Cochi Ponzoni) si trasforma rapidamente nel libertario direttore di una rivista per soli uomini, sotto la guida della spregiudicata
proprietaria (Florinda Bolkan); verrà arrestato più volte... L’integerrimo magistrato Tiziano (Pino Colizzi), a furia di sequestrare film scandalosi e riviste pornografiche, se ne invaghisce come pure la moglie Armida
(Claudia Cardinale): il loro matrimonio, in crisi, sembra ripartire all’insegna di uno sfacciato erotismo. Un cinico e spassoso produttore italiano (un ottimo Philippe Noiret) ha imbastito una superproduzione con una grande
diva hollywoodiana (Dagmar Lassander) che, nella scena finale, ha promesso di farsi sodomizzare. All’ultimo la star scappa dal set: ci vorranno psicologi, critici e perfino un sacerdote “illuminato” per convincerla a farvi
ritorno in quanto il film promette di essere un capolavoro artistico. Il regista (Renzo Marignano) è una sorta di caricatura del Bertolucci di Ultimo tango a Parigi (1972)... Come si nota il film ondeggia tra
denuncia, dileggio e ironica accettazione del fenomeno dilagante della pornografia. Siamo negli anni dello scandalo di Ultimo tango a Parigi e soprattutto dell’invasione delle insegnanti, supplenti e governanti che, in una certa misura, discendono dal grande successo di Malizia (Samperi, 1973). Il film apre con un atteggiamento di forte rifiuto nei confronti di un fenomeno erotico che si ammanta di falsi alibi culturali ed artistici per semplicemente dar soddisfazione a una serie di banali istinti naturali, un tempo risolti dalla fiorente attività delle case chiuse. Il principale bersaglio sembra essere quell’universo radical-chic che sostiene le opere più scottanti e trasgressive dei cineasti della sinistra (Bertolucci, Pasolini, Ferreri), allora in gran voga. Esilarante è in tal senso tutto il dibattito che scoppia intorno alla “grande” diva che rifiuta di girare la scena più audace del suo film, con lo scaltro produttore (ex falegname) che insulta apertamente il proprio regista (che posa con una vistosa sciarpa a righe.. ), ammettendo di averlo assunto solo perché il suo nome potesse coprire, con il paravento dell’arte, una serie di risapute sconcezze. Della stessa opinione sono i mercanti di mezzo mondo, giunti a Roma per acquistare il film e decisi a farlo solo se ci sarà la famosa sequenza in discussione.
Gradualmente però l’atteggiamento degli autori si fa meno rigido (immaginiamo che Sonego abbia influito su ciò), più condiscendente fino al punto di approdare ad una sostanziale accettazione del fenomeno in quanto, pur
all’interno di una cornice fasulla e mercantile, sembra dar voce ad una serie di esigenze “libertarie” in qualche modo necessarie e stimolanti. Così il magistrato (che nel frattempo ha smesso di dare la caccia alle riviste
audaci) e sua moglie, così come Giacinto ed Erminia sono tra gli spettatori che applaudono alla prima mondiale la famosa diva e il suo “coraggioso” film Lady Chatterley ‘76. Il comune senso del pudore è un film indeciso e interessante proprio a causa di questa sua pensosa ambiguità: con esso Sordi registra la radicale mutazione antropologica che ha investito la penisola dopo la rivoluzione sessuale del ’68. I media impongono un erotismo esplicito e diffuso, le istituzioni, seppur memori delle antiche usanze (della tradizione), faticano a reprimere un simile diluvio e la gente comune utilizza con divertita curiosità il nuovo carattere “pubblico” impresso al corpo femminile e all’amplesso. In questo nuovo stile di vita si intersecano le esigenze trasgressive della cultura hippy, le esigenze commerciali del capitalismo e le esigenze pulsionali di un pubblico essenzialmente maschile (di lì a poco apriranno nella penisola migliaia di sale a luci rosse che saranno popolate esclusivamente da uomini), da tempo privato delle case chiuse e in evidente affanno nei riguardi della figura femminile, divenuta poco docile e sostanzialmetne inaffidabile a partire dagli anni sessanta ossia da quando ha conquistato una propria indipendenza economica.
Se il bersaglio principale della pellicola è la falsità dell’unverso radical-chic che sostiene una cultura socialcomunista poco sincera e deleteria e che si ritrova alleata con il grande capitale internazionale (Playboy è
pur sempre una rivista americana, trasferita in Italia), d’altro canto gli autori intuiscono che questa esplosione libertaria è anche il naturale approdo della commedia cinematografica che, a partire dalle maggiorate e dai
film-rivista degli anni cinquanta, ha fatto del corpo femminile uno dei principali elementi di richiamo del prodotto cinematografico. Il mondo è cambiato, probabilmente in peggio; tuttavia non è una tragedia e numerosi sono
i motivi di ilarità nel “nuovo corso erotico”.
Monicelli torna al cinema politico tre anni dopo dopo il modesto Vogliamo i colonnelli (1973; vedi) con l’interessante Caro Michele
(ago. 1976; 110 min), fedele trascrizione (la sceneggiatura è di Tonino Guerra e Suso Cecchi D’Amico) in immagini dell’omonimo romanzo (1973) semiepistolare di Natalia Ginzburg. Vi si racconta una coppia di storie parallele inventate su due differenti tipologie di personaggi sradicati e stravaganti. Da un lato c’è Michele, un personaggio assente di cui tutti parlano ma che non vedremo mai (se non steso, morto, in un obitorio nel finale del film), il quale è fuggito a Londra perché temeva di venire arrestato in relazione alla propria attività di agitatore comunista e forse di terrorista (nel suo scantinato si conserva un mitra...). Dall’altro c’è, fin troppo presente, Mara (Mariangela Melato), una sorta di oca giuliva scatenata e vagamente autistica, la quale si sposta da un’abitazione all’altra con il proprio neonato (di incerta paternità; potrebbe anche essere figlio di Michele... ) portando ovunque disagio e devastazione per i suoi atteggiamenti infantili ed egoistici. Intorno a questi due imprevedibili fanciulloni si raduna una selva di personaggi che vive un rapporto di odio-amore per l’uno o per l’altra. Innanzitutto la madre Adriana (Delphine Seyrig) e la sorella Angelica (Aurore Clement) di Michele, in ansiosa attesa di notizie del misterioso parente scomparso; poi c’è Osvaldo (un insolito Lou Castel), un tempo amante di Michele, che vive nel suo ricordo; ci sono altri parenti acquisiti di Michele che invece lo disprezzano o lo ritengono un immaturo senza prospettive; infine ci sono le numerose vittime della selvaggia Mara che vorrebbero anche aiutarla ma che finiscono col detestarla a causa della sua pericolosa anarchia. Il film è tutto qua: nella cronaca puntuale e misurata, ricca di chiaroscuri e sottigliezze, delle reazioni che le gesta dei due “guastatori”, ammirati ed odiati, provoca sul resto della società.
L’Italia sta attraversando uan delle fasi più complesse e pericolose della propria storia repubblicana (va ricordato che il testo letterario è ambientato tra l’autunno 1970 e l’estate 1971 mentre il film appare ancorato al
suo presente, dunque al 1976, in un’atmosfera socipolitica più lacerata e problematica) e il film di Monicelli - riprendendo idee e figure della Ginzburg - descrive un tessuto sociale romano nella sua relazione con questi due
personaggi simbolici delle tensioni un po’ oscure e velleitarie che stanno scuotendo la nazione. Alcuni guardano affascinati; la maggioranza però - anche se orientata a sinistra (l’editore amante di Mara; il cognato
sindacalista di Michele di area PCI che addirittura pesta Ray, un amico di Michele -
una sua “emanazione” - che lo ha definito ”revisionista”) - si ritrae presto con disgusto, continua a vivere secondo canoni di autoconservazione e osserva con sconcerto queste figure anarcoidi che hanno rifiutato le regole del sistema (la quotidianità con le sue naturali cadenze, la disciplina del lavoro ecc.). Michele vive ai margini, forse ricercato, attivo nelle manifestazioni più violente (al punto da finire ucciso dalla polizia a Bruges); Mara rifiuta qualunque lavoro le viene proposto e gioca qualunque altra carta (dalla sessualità all’amicizia più o meno imposta) per sottrarsi ai propri doveri (in particolare quelli verso il suo povero neonato).
Caro Michele è certamente uno dei film più suggestivi del periodo: esso, in modo forse inconsapevole, dipinge un’Italia indifferente o addirittura spaventata di fronte alle opzioni più radicali della rivolta in corso, pronta a rifugiarsi nelle abitudini e nella quotidianità pur di non doversi confrontare con stili di vita tanto disordinati e inconcludenti. Insomma se la rivoluzione sembra essere alle porte, d’altro canto la società nel suo complesso prosegue, saggiamente, nella propria composta routine e si guarda bene dall’aprire le porte all’ignoto. Ed infatti, nel giro di pochi anni, la valanga consumistica delle tv berlusconiane e l’invasione della pornografia (nei cinema e sui rotocalchi) cancelleranno tutte le utopie, sia quelle marxiste sia quelle più genericamente anarcoidi. Michele e Mara, in fondo, sono solo due spostati, due “mostri” simpatici e affascinanti per alcuni, solo fastidiosi per altri.
Monicelli prosegue in questo cinema politico con Un borghese piccolo piccolo
(mar. 1977; 120 min) ricavato dal romanzo omonimo (1976; nonché d’esordio) di Vincenzo Cerami. Il racconto viene sceneggiato dall’autore con Sergio Amidei. Giovanni Vivaldi (uno straordinario Alberto Sordi), a dispetto del
proprio nome “artistico”, è un modesto impiegato romano a un passo dalla pensione il quale cerca disperatamente di aiutare Mario, il figlio ragioniere (Vincenzo Crocitti) a trovare gli agganci giusti per superare il concorso
per un posto fisso nel medesimo Ministero in cui lavora. L’uomo cerca di compiacere in ogni modo il proprio superiore, dr. Spaziani (Romolo Valli), fino ad accettare di entrare in Massoneria per essere più certo riguardo
all’assunzione del figlio. Il giorno del concorso Mario viene ucciso dalle pallottole vaganti, sparate da un rapinatore in fuga. Il mondo di Giovanni crolla. Quando, per caso, incrocia nuovamente il criminale (nelle stanze
della polizia), anziché denunciarlo, lo segue, lo sequestra, lo pesta con un cric e lo tiene legato fino a farlo morire. Ormai abbruttito e solo (la moglie Amalia, interpretata da Shelley Winters, muore poco dopo per il
dolore causato dalla perdita del figlio) si trascina senza scopo per le vie di Roma fino a quando un altro losco figuro lo aggredisce; si mette allora a seguirlo, forse per ucciderlo. La pellicola ha il suo unico punto di
forza nella straordinaria interpretazione di Sordi il quale riesce, con il suo carisma, a rovesciare (in parte) l’irritante intenzione degli autori che è - fin dal titolo - denigratoria e caricaturale. A Giovanni Vivaldi
vengono messi in bocca, fin dalla prima sequenza, tutti gli stereotipi del borghese ipocrita, vile, egoista e meschino. Lo si incolpa, innanzitutto, di non avere aderito alla grande religione dell’umanesimo socialista e di
avere, invece, preferito la diffidenza hobbesiana verso tutto e verso tutti. Perciò egli viene descritto come un mostro. In questo ritratto di un impiegato senza qualità, il film però sbanda paurosamente tra l’intenzione
realistica (la descrizione della grigia quotidianità della famiglia Vivaldi) e la farsa più assurda (si pensi, tra le tante, alla fallimentare sequenza della sala d’attesa del cimitero, con le bare accatastate in modo
clownesco), di evidente matrice fantozziana (il grande successo del film di Salce è del 1975, cui aveva fatto seguito Il secondo tragico Fantozzi, 1976). Nella prima parte compare anche una divertente caricatura della Massoneria in cui la piccola loggia degli impiegati ministeriale viene descritta come il ritrovo di un gruppo di fessi opportunisti. Va detto che da un lato il film ha il merito di mettere in scena, per la prima volta nel cinema popolare italiano, usi e costumi della liberomuratoria, di chiarire la sua natura di contropotere o di potere parallelo; d’altro canto però il riduzionismo farsesco cotituisce una scelta prudente che evita di mostrare (ossia denunciare) il reale, enorme potere di questa associazione segreta. D’altronde pochi anni dopo i clamorosi elenchi fatti ritrovare nel 1982 a Castiglion Fibocchi (la P2 di Gelli) mostreranno, senza equivoci, la reale forza di questa organizzazione.
La tentazione surreale non abbandona il film nemmeno nella seconda parte, se si pensa alla assurda (e scadente) sequenza del funerale, con il sacerdote (Renato Scarpa) che insulta il genere umano e invoca il diluvio
universale. In ogni caso a metà film tutto cambia: i nostri due protagonisti si ritrovano nel bel mezzo di un poliziottesco e Mario muore. Da quel momento la pellicola abbandona ogni accento fantozziano e trapassa nel
territorio tipico de Il giustiziere della notte (Winner, 1974). Entro scenari piovosi e cupi, da tregenda operistica (può tornare alal mente il furore di Rigoletto e il finale nella taverna di Sparafucile, alla periferia di Mantova), Giovanni rivela un insospettabile coraggio e una sorprendente crudeltà (solo in parte anticipata dall’uccisione del luccio nella cruda sequenza iniziale). Così picchia, sequestra e lascia morire di stenti la propria vittima.
Si diceva che l’intento degli autori è di tipo ferocemente critico: il loro borghese piccolo piccolo dovrebbe risultare un essere ributtante e Sordi, per un certo verso, li accontenta scegliendo un tono fortemente
dramamtico, quasi mai utilizzato con questa intensità nella sua lunga carriera. Ciononostante è altrettanto intenso l’esacerbato dolore del padre per un figlio certo un po’ scioccone (ma questo ne aumenta l’empatia) al quale è
stata tolta la giovane vita senza alcun motivo, un figlio che costituiva per Giovanni (come Gilda per il buffone Rigoletto) la vera ragion d’essere della sua esistenza. Se il pubblico solidarizza con l’assassino Rigoletto (in
fondo Gilda la fa ammazzare lui... ) al quale è stato tolto molto meno (l’onore di Gilda, ma non la sua vita), esso potrà anche finire col comprendere le scelte estreme di Giovanni Vivaldi, proprio grazie alla sorprendente
mimica di Sordi: nei suoi gesti, così pieni di dolore, c’è qualcosa di simile all’intenso dolore “musicale” con cui Verdi tratteggia il canto del triste giullare. Così l’atto d’accusa di Monicelli, Amidei e Cerami nei confronti
del borghese inetto e violento, antisolidale e opportunista (formulato come si è detto con mezzi stilistici incoerenti, passando dalla farsa surreale ai toni di un cupo melodramma) tende
a venire oscurato dalla grandezza di Sordi, dalla profonda e tragica umanità con cui restituisce (nella seconda parte) il ritratto di questo padre umiliato e offeso.
In questo curioso film autori di sinistra si scontrano con un attore di destra. Il film riscosse un enorme successo.
Ettore Scola scrive insieme a Ruggero Maccari Brutti, sporchi e cattivi
(set. 1976; min), un film anomalo nel quale si mette in scena la vita di una baraccopoli situata alla periferia della capitale. Intorno a Nino Manfredi, patriarca guercio di una famiglia di scellerati, gira abbastaza a vuoto un film indeciso tra l’affresco realistico, la farsa e il film surreale.
Mettere in immagini la vita dei marginali più disperati costituisce un percorso irto di trappole per i cineasti. Ci aveva provato De Sica con Miracolo a Milano (1951), film deludente, sopravvalutato dai critici e snobbato dal pubblico; ci tenta ora Scola il quale, nella prima parte di Trevico-Torino (1973; vedi), aveva già cercato di ritrarre i miserabili del contesto torinese, con esiti disastrosi. Ora, affidandosi a un grande attore e ad un cast di attori secondari e perfino non professionisti, prova a ripetere l’esperimento in chiave grottesca, cercando di coniugare Fellini e Bunuel. Il risultato è del tutto insoddisfacente.
Intanto manca del tutto un vero soggetto. Il film ruota intorno alle “malefatte” di Giacinto (Manfredi) il quale maltratta l’intero suo parentado (una quindicina di persone che si accalcano nella sua misera baracca) e si
preoccupa soprattutto di tenere ben nascosto il gruzzoletto (alcuni milioni di lire) che è riuscito a mettere insieme fortunosamente. Nella seconda parte questa trovatina appare ormai esausta e allora Giacinto ravviva il
racconto, portandosi a casa una prosperosa e giovane amante (in realtà una prostituta) che impone alla moglie e all’intera comunità familiare. La misura è colma e la moglie guida la rivolta: in una “sontuosa” cena a Giacinto
vengono propinati maccheroni avvelenati (la situazione appare parzialmente ripresa dal finale del recente e sfortunato La notte brava del soldato Jonathan, film di Siegel con Clint Eastwood nel quale il
protagonista viene ucciso con un piatto di funghi avvelenati ad opera delle abitanti di un collegio femminile). Il canagliesco patriarca riesce a salvarsi, incendia la casa dei parenti e dichiara loro una guerra senza quartiere.
Scola cerca di rendere il proprio racconto umoristico nei personaggi ed esemplare nelle situazioni, senza riuscire a centrare i propri bersagli. Il racconto è fiacco e ripetitivo, gli attori non sono all’altezza delle loro
parti e scadono in figure macchiettistiche senza interesse ed anche Manfredi appare prigioniero di un ruolo assurdo e monocorde quanto quello dei comprimari. Queste figurine poste ai margini della metropoli appaiono poi
insignificanti quanto a documento di costume o peggio di denuncia. Alcuni si prostituiscono, altri lavorano, altri passano il prorpio tempo nella baraccopoli senza far nulla: il quadro che ne fuoriesce appare fasullo e i
personaggi non riescono a differenziarsi in nulla. Appaiono come un gruppo di famiglia animalesco e rozzo, in perenne lotta per motivi futili, incapace di progettare un’esistenza più dignitosa (però non vien spiegato perché
anche coloro che hanno un normale lavoro continuino a vivere in questa sorta di porcilaia... ). Va aggiunto che Scola sembra volere dipingere un universo sottoproletario - quello stesso dei film di Pasolini - che non conosce
l’idelogia, il marxismo, la coscienza di classe e l’orizzonte della rivoluzione sociale. Questi sottoproletari fracassoni e confusi vivono in uno stato di promiscuità imbarazzante e di guerra permanente, al punto di attendersi
un salto di qualità nella propria esistenza solo dalla morte altrui (innanzitutto quella di Giacinto). In tal senso il film appare decisamente estraneo alle corde abituali di Scola e di Maccari, quasi una maldestra vacanza, un
tentativo di dipingere uno situazione preculturale, lontanissima dalla visione solidaristica e utopica che animava Miracolo a Milano (1951). In quel film una sorta di neopagana Dea madre sembrava proteggere l’esperimento dei barboni di Lambrate; qui invece un Dio padre farabutto e ubriacone conduce le danze, in un universo cupo e senza speranza di riscatto.
Va anche detto che i sottoproletari di Scola risultano (nell’ideologica visione degli autori) in qualche modo corrotti dal consumismo dilagante (rispetto ad un immaginario, “precedente” eden perduto) e dalla voglia di
possedere gli oggetti del benessere borghese. Tutto ciò scandalizzava Pasolini che parlò a lungo di genocidio e mutazione antropologica degli umili; va anche detto che queste - di Pasolini e di Scola (e Maccari) - sono
proiezioni gratuite di intellettuali abituati a vivere nel benessere e a distinguere gli individui con categorie astratte (proletari, piccola borghesia, media borghesia ecc.) laddove la realtà è una sola e le acquisizioni che
permettono di migliorare la qualità della propria esistenza fanno gola a tutti, poveri e ricchi. Il clan di Giacinto, così come i vicini di borgata, vivono nella speranza di acquisire le comodità che sono usuali per i
benestanti e tutto ciò è un fatto normale se l’osservatore dismette gli occhiali dell’ideologia. Forse il regista voleva piangere intorno all’innocenza perduta di questi borgatari (in realtà questa prospettiva non viene
mai espressa con chiarezza, sebbene Scola ne parli in alcune interviste), ma
in tal caso egli ha sbagliato due volte: in primo luogo perché ha messo in scena delle inverosimili caricature, inadatte a ragionamenti profondi; in secondo luogo perché le avrebbe piegate al racconto di una sciocca fantasia - quella dello smarrimento dell’età dell’oro - uscita dalle antiquate pagine di Rousseau.
Le piacevoli musiche di Armando Trovaioli aggiungono valore alla pellicola, proponendo motivetti scanzonati e marcette umoristiche (da Armata Brancaleone, per intenderci) che alleggeriscono la programmatica
pesantezza di situazioni e dialoghi. Scola mette in scena una galleria di mostri i quali, però, a causa del loro carattere artificioso e stereotipato, risultano assai meno inquietanti di tante altre figure anomale (quelle
descritte in questo capitolo) che popolano il cinema italiano di quegli anni.
Mostri a profusione sono presenti anche in Signore e signori, buonanotte
(ott. 1976; 116 min.), quattordici episodi firmati da un esercito di registi (Magni, Monicelli, Comencini, Loy ecc.) nei quali si descrive una surreale giornata di programmi televisivi di un fantomatico terzo canale (la Rai contava allora due soli canali; Raitre esordisce nel dicembre 1979). Il filo conduttore è costituito dalle edizioni del telegiornale a cura di uno svogliato e scettico Mastroianni. Gli episodi sono brutti, a volte pessimi, prendono di mira politici corrotti, generali incapaci, industriali rapaci, agenti segreti balordi, ufficiali della gdf accondiscendenti e abietti religiosi secondo schemi usurati (fa piacere tuttavia notare che l’Italia del 1976 sembrava sull’orlo del precipizio quanto quella del 2012 e che le critiche ai politici erano allora le stesse di oggi, così come la lunga sequela di lamentele su ogni argomento possibile e immaginabile). La pellicola è girata in maniera frettolosa e sciatta e aggredisce in modo specifico le gerarchie vaticane (particolarmente noioso appare l’episodio di Luigi Magni intorno al cardinale - interpretato da Nino Manfredi - che, fingendosi malato, riesce a farsi eleggere Papa e, come prima cosa, fa giustiziare i suoi rivali), con una particolare attenzione al tema dell’aborto (allora al centro di numerose polemiche; verrà legalizzato con la legge 194 del 1978) in un paio di episodi particolarmente volgari. Nel primo un ragazzino napoletano, oppresso da una famiglia ipernumerosa si getta dal balcone mentre nel secondo Paolo Villaggio recita un macchietta tedesca in cui propone il cannibalismo per eliminare i bambini in eccesso... Lo stesso sguardo negativo intorno alle famiglie numerose si ripeterà in un classico del periodo, Una giornata particolare (Scola, 1977).
Nella pellicola la mancanza di trovate divertenti, il carattere inutilmente desolato e denigratorio e lo spreco di un cast eccezionale (Manfredi, Gassman, Tognazzi, Senta Berger... ) approdano ad uno dei peggiori prodotti
della cosiddetta commedia all’italiana.
Monicelli, Risi e Scola firmano con I nuovi mostri (dic. 1977; 108 min) la continuazione del film di Risi del 1963. In realtà i tre registi non hanno
collaborato alla sceneggiatura e dunque si limitano a mettere in immagini assai sciatte e televisive le invenzioni di Age, Scarpelli, Ruggero Maccari e Bernardino Zapponi. In quattordici episodi di differente lunghezza (alcuni
non arrivano ai tre minuti, altri si dilungano oltre i dieci) questo folto gruppo di cineasti cerca di raccontare l’Italia degli anni settanta ovvero la violenza politica, i sequestri di persona, le balere, il mondo dei
barboni, il mondo della rivista al suo crepuscolo, i sacerdoti-operai, l’emergente pornografia, il terrorismo di marca mediorientale, il tutto coniugato con personaggi caricaturali, segnati da un’esagerata grettezza. Il
quadro che ne risulta è, di fatto, abbastanza completo e stuzzicante anche se solo alcuni argomenti vengono trattati in modo pungente ed efficace mentre la maggioranza degli episodi si limita a mettere in scena barzellette in
cerca di un sorriso. Si segnala innanzitutto First Aid (diretto da Monicelli) con uno strepitoso Alberto Sordi nei panni di un aristocratico clericale che gira Roma in rolls royce per recarsi a un fantomatico incontro con un vescovo scismatico dell’ala lefebvriana, scambia il monumento a Mazzini per un monumento a Mussolini e si trova a dover portare un moribondo al Pronto Soccorso; di fatto tutti gli ospedali (compreso uno gestito da suore... ) rifiutano di dargli retta e il nobiluomo, dopo avere ammorbato il ferito con ogni geenre di surreale considerazione, lo abbandona là dove lo aveva raccolto. Il raccontino offre pertanto un ritratto satirico della cosiddetta aristocrazia nera (quella già presa di mira da Ferreri ne L’udienza, 1972; vedi) che si occupa di fede e carità solo a parole mentre si mostra del tutto indifferente alle disgrazie altrui.
Il tema dell’egoismo radicale caratterizza anche tutti gli altri episodi più riusciti. In Sequestro di persona cara (regia di Scola) il marito (Vittorio Gassman) di una sequestrata rivolge ai rapitori un lacerato appello, ripreso dalle telecamere della Rai, implorandoli di telefonare; quando la troupe lascia la stanza, scopriamo che il cavo del telefono è stato volutamente strappato dall’uomo. Sempre una bestiale avidità segna L’uccellino della val padana (regia di Scola) in cui il marito-manager (Ugo Tognazzi) di una cantante (Ombretta Colli) ne sfrutta il talento fino al punto di farla cadere dalla scale per poterne accrescere la notorietà. Ci sono poi (ne La pornodova,
regia di Risi) una coppia di genitori che permette a propria figlia (di sette anni) di avere un amplesso con una scimmia in un film porno, dietro lauto compenso. Con questo episodio si torna ad indicare (dopo Il comune senso
del pudore) nella pornografia uno degli affari più lucrosi e nuovi di quegli anni. Altrettanto amaro è l’esteso episodio Come una regina (regia di Scola) in cui Franchino (Alberto Sordi) abbandona la sorpresa e anziana madre in un ospizio orribile, per compiacere la moglie.
Spassoso è infine Tamtum ergo (diretto da Risi) nel quale un cardinale (Vittorio Gassman) si intromette in una sorta di comizio tenuto da un sacerdote di sinistra nella sua chiesa e, con pochi efficaci parole, blocca ogni velleità politico-sociale dell’assemblea, intimidisce l’uditorio e lo riconduce sui sentieri della preghiera.
Interessante anche Senza parole (regia di Risi) in cui una romantica storia d’amore tra un mediorientale e una hostess (Ornella Muti) nasconde una terrificante sorpresa: la donna porterà sull’aereo un mangiadischi
(avuto in regalo dall’amante) che contiene una bomba... Questi mostri sono tali in quanto affetti da una morbosa avidità e da un individualismo esasperato che li rende estranei a qualunque forma di solidarismo umanitario
ossia a quella sorta di verbo “religioso”, di impianto socialistico-massonico, che è il termine di paragone sottinteso (il non-detto) della maggior parte di questi film. I nuovi mostri è una pellicola stilisticamente modesta, la quale tuttavia, grazie soprattutto ai suoi straordinari interpreti, riesce a restituire le parole d’ordine, i colori, le usanze e le situazioni di un’epoca popolata da figure “mostruose”, epoca che, per molti aspetti, non esiste più.
Per il suo secondo lungometraggio Marco Leto sceglie il romanzo di Paolo Levi Ritratto di privincia in rosso (1975), lo rielabora con l’autore, Ruggero Maccari e Maurizio Costanzo e lo reintitola
Al piacere di rivederla (dic. 1976; 102 min). Nel ruolo centrale troviamo un ottimo Tognazzi, per l’occasione un poco balbuziente, che, in una certa misura, replica il personaggio del Commissario Pepe (Scola, 1969; tra gli sceneggiatori anche allora c’era Ruggero Maccari).
Il fuzionario ministeriale Mario Aldara (Ugo Tognazzi) viene incaricato di assumere informazioni sull’insolito suicidio di Cesare Bonfigli, un pezzo grosso della DC, avvenuto nella sua città natale. Si reca in questa
cittadina di provincia (nel film si tratta di una Bologna quasi irriconoscibile), dominata politicamente dal clan familiare del defunto e indaga. Tra l’altro la moglie del morto, Viviana (Francoise Fabian), era stata,
vent’anni prima, sua fidanzata e l’uomo ne è ancora innamorato (ciò motiva il titolo). Inutile dire che Mario scoperchia un nido di vipere ossia una famiglia potente, dalle abitudini sessuali molto disinibite, frequentata anche
da un frate (Alberto Lionello) affarista e libertino. Fin dal’inizio appare evidente ch qualcuno ha ucciso Cesare e che nella cerchia familiare (come in un romanzo della Christie) tutti hanno un buon movente. Alla fine gli
autori optano per quello più mostruoso: una costosa vicenda di pedofilia (uno dei familiari è ossessionato dalla ragazzine e le paga una fortuna...). Come per Vogliamo i colonnelli (Monicelli, 1973; vedi) la pellicola, del tutto inverosimile quanto a personaggi ed ambientazione, tiene fino alla fine grazie soprattutto alla bravura di Tognazzi. Intorno a lui i numerosi comprimari (Miou Miou, Paolo Bonacelli, Francoise Fabian) sono all’altezza dei loro ruoli anche se non sembrano crederci molto. L’affresco sociopolitico consiste in una stereotipata denigrazione a 360° gradi della classe dirigente democristiana, con tanto di sacerdote corrotto e palazzinaro, insomma la consueta sfilata di mostri avidi ed “antisolidali”. L’intento critico diviene grottesco ed eccessivo e pertanto manca completamente il bersaglio.
Se invece si intende l’insieme come una fiabesca galleria di mostri senza tempo, né luogo, allora la pellicola risulta godibilissima, dall’inizio alla fine.
Con il film di Mauro Bolognini, scritto da Nicola Badalucco, entra il scena il mostro per eccellenza. In Gran bollito (ott. 1977; 105 min) i due cineasti
rievocano la figura di Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio. Ispirandosi ai suoi scritti, essi ricostruiscono con puntigliosa precisione i tre delitti commessi dalla donna, originaria di Montella (Avellino), nel
1940 e per i quali verrà condannata a 33 anni di prigione nell’immediato dopoguerra. Lea (un’ottima Shelley Winters che, l’anno prima, era stata tra gli interpreti de L’inquilino del terzo piano di Polanski), che parla il dialetto campano, tiene un banco del lotto in un paesino dell’Emilia. Divenuta amica di tre donne sole e avvilite (nel film sono interpretate da Alberto Lionello, Max von Sydow e Renato Pozzetto, in panni femminili), le ammazza (decapita) una dopo l’altra, le smembra e dai loro resti ricava sapone e biscotti che offre a parenti ed amici. La donna che, nella realtà, praticava forme semplici di magia (tarocchi, lettura delle carte), intende attuare una serie di omicidi rituali in onore del demonio il quale, in cambio, dovrebbe tenere lontana la morte da lei e soprattutto dall’amatissimo figlio (Antonio Marsina), tanto più che la guerra incombe. Nel finale però Lea viene scoperta ed arrestata; mentre si avvia al carcere, ella inveisce contro tutti e afferma che ben alte stragi vanno preparando gli uomini...
Il film di Bolognini smorza i toni orrorifici, ambienta la vicenda in uno spazio astratto e quasi teatrale (si veda la tenda-sipario situata nella stanza dei “sacrifici”) e aggiunge un tono grottesco, facendo interpretare
le vittime a tre famosi attori travestiti. Ciononostante il film resta lugubre e inquietante al punto che la critica lo maltratta senza capirlo e il pubblico lo evita. Gli autori, in un’operazione alquanto discutibile,
finiscono col ritrarre la “strega” con una certa benevolenza: ne comprendono le preoccupazioni (è in fondo una sorta di madre “apprensiva”), ne spiegano la logica neopagana e antecristiana, inquadrano le vittime come donne
frustrate e sterili, prossime al suicidio e finiscono col contrapporre la magia nera dell’assassina, tutta femminile, al vortice bestiale, tutto maschile, in cui sta per precipiatare l’intera Europa. Ne fuoriesce una pellicola
del tutto insolita nel panorama nazionale (non a caso Badalucco aveva proposto il soggetto anche a Polanski) e pressoché unica nel trattare una materia tanto scottante quale quella dei delitti rituali (“Al mio Paese si
praticano sacrifici umani: conoscere la morte aiuta a tenerla lontana..." afferma Lea), un tema in cui la cronaca nera italiana si imbatterà spesso nei decenni successivi, a partire dal caso clamoroso e irrisolto del mostro di Firenze (ma di delitti rituali qualcuno ha parlato anche per i recenti delitti di via Poma, Cogne, Garlasco e Brembate).
La tematica magica del sacrificio rituale, centrale anche in Eyes Wide Shut (Kubrick, 1999; vedi), viene illuminata in tutta la sua sinistra sostanza: si tratta di uno processo cannibalistico in cui il sacrificato finisce col “donare” la propria energia ai propri carnefici; non a caso l’assassina mangia ed offre i biscotti realizzati con i resti umani delle vittime e, dopo tali pratiche, appare al figlio come “ringiovanita”. Gli stessi argomenti erano stata toccati da un altro film insolito per l’Italia, La
corta notte delle bambole di vetro (Lado, 1971; vedi), non a caso ambientato nella “magica” Praga. Gran Bollito presenta una figura mostruosa, slegata dal contesto politico e dalla stereotipata critica ad una borghesia che si vorrebbe corrotta e declinante. Il film affronta invece gli oscuri temi della magia nera - illuminati come una delle modalità della più generale lotta per la vita - con una tale esplicita durezza da lasciare sconcertati gli spettatori dell’epoca come quelli di oggi. Lo arricchisce una magnifica fotografia, morbida e ricca di charoscuri abbinata ad un elegante taglio visivo ed un leitmotiv fischiettato di Jannacci, intenzionato a ricreare le atmosfere di M - Il mostro di Düsseldorf (Lang, 1931).
In seguito Badalucco riadatta il testi per il musicista Egisto Macchi che ne ricava un’opera lirica in un atto, A Matra (1987), che andrà in scena postuma (Macchi era appena deceduto) a Roma nel 1992.
Il mostro (ott. 1977; min.) diretto da Luigi Zampa, sulla base di una sceneggiatura di Sergio Donati,
concepita agli inizi del decennio, si colloca all’incrocio di molteplici generi filmici. Donati aveva creato questo copione per il proprio esordio alla regia nel 1972. Qualcosa andò storto, l’aspirante regista si ritirò dal
set, vennero chiamati Goffredo Fofi per rivedere la sceneggiatura e Marco Bellocchio per la regia e nacque un classico del periodo, Sbatti il mostro in prima pagina (1972; vedi). Cinque anni dopo Donati affida la propria versione della sceneggiatura a Luigi Zampa che approda al film in questione. Nel frattempo nelle sale italiane sono dilagati dapprima i gialli argentiani e poi il “poliziottesco”: l’esito finale della pellicola di Donati/Zampa tiene conto di questi generi oltre che del classico hollywoodiano L’asso nella manica (Wilder, 1950), al quale peraltro lo lega l’infelice esito comemrciale.
Valerio Barigozzi (Johnny Dorelli) un giornalista frustrato, carico di odio per tutto e per tutti, riceve le minacciose lettere de “il mostro” nelle quali egli anticipa il nome delle proprie vittime. Su questo evento,
aiutato da Giorgio Mesca, il perfido figlio (il gelido Yves Beneuyton) del padrone del quotidiano per cui lavora, Barigozzi costruisce la propria fortuna personale e quella del giornale che viene rilanciato dalle speculazioni e
dagli scoop intorno a questa sanguinosa vicenda. L’assassino ammazza, nell’ordine, un attore televisivo (Gianrico Tedeschi), un calciatore e una cantante (Sydne Rome). Il giornalista possiede sempre le anteprime dei delitti e,
in tal modo, intralcia anche la polizia fin quando non finisce in galera come sospetto. Al centro del racconto si colloca poi l’omicidio del padrone del giornale il quale, abituato a gestire una tranquilla testata in perdita,
utile al sistema politico, cerca di bloccare l’operazione di rilancio voluta dal figlio Giorgio; quest’ultimo, invece, lo ammazza, simulando l’ennesimo delitto del mostro. Il film si era aperto sulle immagini di una
pellicola in stile argentiano che Barigozzi e suo figlio (Enzo Santaniello, il bambino ucciso da Henry Fonda in C’era una volta il West) erano andati a vedere al cinema e si chiude con un doppio finale seguendo la
ricetta de L’uccello dalle piume di cristallo: Barigozzi pensa di avere individuato l’assassino nella cinica ex moglie; in un finale pasticciato e troppo inverosimile - anche per un film sempre ai limidi dell’apologo
grottesco - la polizia ammazza la presunta criminale. Nelle ultime immagini il giornalista scopre che il mostro è il proprio figlio, un ragazzo trascurato dai genitori e morbosamente attaccato al padre. La violenza messa in
atto è quindi un disperato tentativo di aiutare il padre fallito e di farsi notare... La pellicola di Zampa vuole essere un’accusa generale a una società massmediologica invasa da una violenza onnipresente: siamo negli anni
di piombo le cui tensioni, peraltro, vengono citate solo di sfuggita. Ne risulta un racconto senza figure positive, attraversato da personaggi lividi e da un cinismo tanto esagerato da divenire prevedibile e stucchevole. Nel
modo di girare Zampa si ricorda sia dello stile ferreriano, sia del taglio follemente grottesco del notevole Nel nome del padre (Bellocchio, 1972; vedi) da cui riprende alcuni attori caratteristici (Yves Beneyton, Renato Scarpa, già vicerettore del collegio gesuitico, ora nel ruolo di un collega di Barigozzi; Guerrino Crivelli, uno dei convittori, ora in una parte minore); il risultato è curioso, a tratti interessante anche se complessivamente poco riuscito a causa dei troppi prestiti stilistici e contenutistici. Zampa non riesce a decidere quale strada prendere e così passa da sezioni di reale suspense (alla maniera di Argento) a pagine “poliziottesche” (secondo le modalità del vivace, coevo filone) a frammenti di commedia nera, a momenti surreali, quasi bunueliani. L’insieme - così ricco di riferimenti - riesce a tenere desta l’attenzione anche per merito dell’ottimo cast, ma finisce col deludere.
Il punto di vista è quantomai superficiale: una violenza senza quartiere innerva ogni gesto del racconto - dalle liti per un posteggio, a quelle interne al quotidiano, a quelle domestiche tra Barigozzi e la moglie, a
quelle vere e proprie del mostro - senza che si capisca cosa abbia innescato questo crescendo di aggressività. L’assassino poi risulta essere il figlio senza amore della ex famiglia Barigozzi - una coppia di separati in perenne
lite - così da situare, in modo forse inconsapevole, Zampa in un ambito ideologico conservatore: il divorzio e l’egoismo personale dei genitori diviene la causa della violenza in un figlio trascurato e immaturo, in cerca di
attenzioni. D’altronde tutte le vittime del ragazzo fanno parte di quel mondo massmediologico che, per il giovane, è divenuto più importante dei suoi latitanti genitori. Al suo fianco anche il secondo assassino è un figlio il
quale, addirittura, ammazza il padre per divenire il padrone del quotidiano. Nella parte iniziale Donati e Zampa inseriscono un elemento di preziosa critica sociale allorché tratteggiano il padrone del quotidiano come un
cinico disilluso, consapevole di lavorare essenzialmente per i propri mandanti politici e del tutto disinteressato all’esito commerciale della propria testata. I giornali non vengono creati e mantenuti in vita per “informare”:
il loro unico scopo è condizionare l’opinione pubblica, allora come oggi. Solo in tal modo si può comprendere il sopravvivere di centinaia di quotidiani, tutti con i conti rigidamente in rosso. In tal senso egli non comprende
il vano agitarsi del figlio e del Barigozzi, finalizzato a creare un quotidiano di successo sulla pelle della gente. Non è questa la vera finalità dell’attività editoriale: l’anziano padrone lo sa da decenni, conosce la
programmatica finzione che anima il mondo dell’informazione. In questo sottotesto, appena accennato, si cela probabilmente l’elemento più aspro e dirompente del film. Il mostro, nel suo andamento disordinato e confuso
(che na causa il fallimento commerciale) rimane una pellicola rilevante, ricca di stimoli irrisolti. Vi si ritrae una società agli albori di quella sbornia consumistica (tuttora in atto) che trascinerà il tessuto sociale
italiano verso lidi sempre più materialistici nei quali l’unica méta sembra essere il soddisfacimento di quei fittizi bisogni abilmente indotti negli individui dal sistema massmediatico.
Mostri in agguato sono infine presenti nell’originale e divertente Il gatto
(dic. 1977; 115 min) di Luigi Comencini, su sceneggiatura di Rodolfo Sonego e Augusto Caminito. Vi si narrano le surreali avventure di due fratelli, Amedeo (Ugo Tognazzi) e Ofelia (Mariangela Melato), i quali, proprietari di un imponente stable nel centro di Roma, cercano di ogni modo di sfrattare i pochi inquilini rimasti per potere vendere l’edificio a un’immobiliare per la bella cifra di un miliardo di lire. Bisbetici, litigiosi, avarissimi, incuranti dell’educazione, dei valori comuni e dei pericoli la stravagante coppia mette in atto ogni possibile trama per far sloggiare gli ostinati e spesso odiosi residenti. Frugando nei loro effetto personali, i due riescono a farne arrestare una buona parte (c’è chi traffica in droga, chi tiene una casa di tolleranza dietro un circolo scacchistico, ci sono mafiosi, omosessuali che se la intendono con uomini in vista e segretarie dedite al ricatto) e quasi riescono nel loro intento. In particolare le indagini che sorreggono la parte centrale del racconto (di fatto quasi un film a episodi) riguardano la misteriosa morte del loro amato gatto: risolvendo questo piccolo enigma, in realtà scoperchiano un caso di corruzione di rilevanza nazionale.
I veri “mostri” del film non sono tanto i mafiosi, i politici corrotti o le tenutarie di bordelli, bensì proprio i due selvaggi protagonisti i quali, mossi dal loro interesse particolare, perlustrano con implacabile
pignoleria le infinite stanze dello stabile (in tal senso il film può essere letto come una variazione umoristica e “debordante” de La finestra sul cortile). Inutile dire che ben presto questo surreale caseggiato e la
vicina sede di polizia, alla quale i due fano costante riferimento, divengono una sorta di simbolo dell’Italia coeva, lacerata da scioperi, rapine, sequestri e atti terroristici. La cosa più suggestiva della pellicola è il
totale disinteresse per la realtà nazionale che anima Amedeo e Ofelia i quali non si fanno scrupolo di scocciare un commissariato oberato di ben altre problematiche, imponendo ai maldisposti funzionari (in particolare Michel
Galabru) il caso del loro gatto assassinato. Insomma l’Italia sopravvive a tutto proprio grazie alla cinica sordità dei suoi abitanti: sebbene i media da decenni predichino la religione dell’umanitarismo, questi “mostruosi”
palazzinari passano indenni tra mille pericoli anche grazie al loro sfrenato egoismo. Avidi e immorali, insensibili alle norme più elementari della convivenza civile, immuni da qualunque infatuazione ideologica (di destra, di
sinistra o di centro), privi di qualunque rispetto per la religione (tentano di incastrare un loro inquilino sacerdote, inviando alla curia missive anonime, calunniose nei suoi confronti) fanno continuamente ricorso alla legge
al solo fine di arricchirsi. Mors tua, vita mea è il motto di questi feroci qualunquisti e, di fatto, sembra funzionare. Come nel caso de Un borghese piccolo piccolo, gli autori guardano con evidente sufficienza a questi coppia di balordi e cercano di additarli al pubblico disprezzo; ciononostante la bravura e la simpatia di Tognazzi e Melato finiscono col capovolgere l’intento del regista e col generare una sorta di empatia del pubblico con questi “mostri”, in fondo abbastanza “normali”.
Il gatto è un ottimo film, ben recitato da una coppia affiatata di comici così come da tutti i comprimari (ci sono anche Aldo Reggiani, Dalila Di Lazzaro e Philippe Leroy), ambientato quasi totalmente negli interni dello stable e commentato da motivetti morriconiani dal taglio grottesco (un po’ nello stile di Indagine su un cittadino... ) non particolarmente originali.
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