Il mulino del Po: l’implacabile scorrere del fiume (1949)
“Così passa il bene e il male degli uomini e il tempo è simile al correre del fiume”
R. Bacchelli, Il mulino del Po - epilog
“(Lattuada) per contentare tutti, ha finito per scontentare tutti”
L’Osservatore romano
Mentre la cinematografia cattolica cerca di imporre, per la prima volta, una propria visione del mondo con Fabiola (Blasetti, marzo1949; vedi) e Cielo sulla palude (Genina, settembre 1949; vedi), l’universo laico del film, guidato dalla potente Lux, replica con due pellicole di grande impatto spettacolare e di notevoli ambizioni: Riso amaro (De Santis, settembre 1949; vedi) e
Il mulino del Po
(agosto 1949; 107 min.). Appare evidente che l’ultimo terzetto di lavori, uscito nelle sale negli stessi giorni, offre visioni antitetiche dell’universo rurale prevalente nella penisola. In un caso la miseria è una sciagura ineluttabile che porta con sé violenze imprevedibili e dalla quale ci si salva solo confidando nella Provvidenza divina; nell’altro invece il popolo delle campagne può tentare di reagire seguendo le dottrine “moderniste” del socialismo, sebbene gli esiti siano tutt’altro che scontati.
Alberto Lattuada, sensibile cantore degli umili (Il bandito, 1945; Giovanni Episcopo, 1947; Senza pietà, 1948), trova accenti di inequivocabile poesia e di perfetta maturità nella trascrizione in
immagini di una parte dello sterminato romanzo storico di Riccardo Bacchelli (1938-40), i cui tre volumi raccontano lungo un secolo la saga dei “molinari” Scacerni nelle terre di Ferrara, dall’epoca
napoleonica fino alla prima guerra mondiale. Il regista, coadiuvato da numerosi sceneggiatori (innanzitutto Bacchelli, poi Comencini, Fellini e Pinelli), si limita a narrare alcuni travagliati episodi ambientati in epoca umbertina (tratti dal terzo volume Mondo vecchio sempre nuovo,
1940) e nel farlo incentra la propria riflessione intorno all’idea chiave del testo ossia quella del fiume, del suo ineluttabile scorrere che tutto porta con sé, l’idea cioé di una Natura dalla quale uomini e cose emergono per
un breve lasso di tempo per venire poi nuovamente sommersi e trascinati via. Pertanto la descrizione delle innumerevoli tragedie che scuotono la piccola comunità padana, è innervata dall’ottica scettica e perfino nichilista di
chi non crede fermamente in nessun valore definitivo. Il film inizia e termina sul fiume: le sue acque tempestose quasi travolgono il mulino nell’incipit; dalle medesime per due volte emerge la sinistra barca dei finanzieri
che vengono a controllare l’attività produttiva in relazione alla ferrea tassa sul macinato (la seconda volta, per causa loro, il mulino va a fuoco e Princivalle viene arrestato); al mulino giunge Berta (Carla del Poggio) per
raccontare alla famiglia di essere stata insultata dai contadini; nel dolente episodio finale il corpo esanime di Orbino Verginesi (Jacques Sernas) viene trascinato dalla corrente di fronte alle donne disperate e all’assassino,
un Princivalle (Giacomo Giuradei) folle e smarrito. La poetica immagine del fiume, allegoria della Natura e del Tempo che tutto nullifica, trova un’importante antecedente (certamente noto sia allo scrittore, autore tra l’altro
di una fortunata biografia su Gioachino Rossini, sia al regista figlio di un apprezzato operista) nel Tabarro pucciniano (1918): in questa concisa opera tragica (in un atto), che si svolge interamente su un barcone, gli eventi sono ritmati dal leitmotiv del fiume, un tema circolare che imita l’inesausto e lento scorrere dell’acqua, avvolgendo l’insieme in una pacata tristezza e in un sentimento di stanchezza esistenziale. Lo stesso atteggiamento disincantato pervade la narrazione di Lattuada: gli uomini si agitano, si combattono per la “roba” governati dal demone dell’avidità, si dividono in tre distinte fazioni (lavoratori uniti nella Lega socialista; i piccoli proprietari del mulino; i latifondisti spietati e intenti a modernizzare i metodi di lavoro nelle terre, al fine di rendere più alta la produttività) ma tutto risulta infine inutile. I lavoratori rifiutano le novità imposte dai padroni, entrano in sciopero, giunge l’esercito, ci si accapiglia, alcune donne vengono arrestate; poi tutto torna come prima. La circolarità avvinghia i destini umani e rende impossibile sfuggire al proprio ruolo sulla scena della “commedia umana”.
Il capolega predica la violenza e lo scontro senza crederci troppo; quando poi prende la parola la rappresentante dei liberi pensatori per inneggiare a Satana e al rovesciamento di ogni valore (bizzarra e in fondo
“simpatica” caricatura del massonismo carducciano, autore delle Polemiche sataniche, 1869, da parte di una casa laicista come la Lux; Bacchelli, nel romanzo, si mostrava assai più duro nei confronti della comiziante) i
contadini fuggono in massa a chiedere consiglio al parroco: il mondo è regolato da antiche tradizioni e il tentativo artificioso di scalzarle attraverso un uso abile delle parole viene irriso; il modernismo socialista o
laicista è dunque un evento astratto, una forzatura innaturale (le bestie lasciate morire durante lo sciopero) che verrà presto dimenticato; esso risulta anzi foriero di altre violenze e soprusi, di confusione e scontri e
sfocerà infine nello scatenamento dell’ira da parte del temibile balordo Princivalle e alla morte ingiusta di Orbino. Il fiume si incarica di cancellare ogni cosa. La vita, nonostante tutto, prosegue. Lo stile della
scrittura di Lattuada è elegante e disteso, capace di alternare ampi squarci paesaggistici sull’argine del Po o nel piccolo paesino con primi e primissimi piani volti a sottolineare il dramma incombente, il disagio del singolo,
l’angoscia. Qualcosa del solenne cinema sovietico di Eisenstein pervade i momenti più tesi del racconto sebbene nell’insieme la narrazione proceda fluida e lenta, quasi imitando lo scorrere delle acque del fiume. Il più
importante musicista della prima metà del secolo, Ildebrando Pizzetti, compone le musiche che accompagnano le immagini secondo una scrittura tardo romantica, fatta di aspri e taglienti leitmotive, spesso ripetuti e
sovrapposti in un pregnante e denso stile imitativo, che intensifica i passaggi cruciali del racconto, donando all’insieme una patina di magnifico classicismo. Se il film possiede a tratti un enfasi quasi operistica, parte del
merito è ovviamente dell’autore di Debora e Jaele (1922); e tale enfasi deve aver colpito il Bertolucci di Novecento (1976), il quale ripete molte situazioni del Mulino del Po (gli argini, lo scontro con l’esercito, la centralità delle donne nella contrapposizione con le forze dell’ordine) calandole in un’aura epico-verdiana.
La stessa organizzazione del racconto, impostato con duttile intelligenza intorno a due coppie contrastanti, l’una sensuale (Princivalle e la sua amante), l’altra seriosa (Orbino e Berta), rimanda alla tradizione lirica,
nella quale questo gioco di specchi tra coppie di amorosi è stato uno dei pilastro drammaturgici, soprattutto all’epoca dell’opera buffa settecentesca. L’opera di Lattuada, presentata dapprima al festival di Locarno, poi
fuori concorso a Venezia, ottiene un buon successo (nessuno se la sente di aggredire un’opera tanto equilibrata e onesta) e ciononostante la critica marxista appare fortemente indispettita di fronte all’atteggiamento
equidistante tenuto dall’autore (e da Bacchelli con lui) nel descrivere le lotte nelle campagne. Al di là della sopracitata impostazione filosofica, basata su un apollineo e saggio distacco antimaterialista, va detto che la
genesi del film può in effetti contenere elementi “sospetti”. Già si era notato che, senza reali motivi, l’atteso Riso amaro viene congelato per un intero anno. Nel frattempo la direzione Lux commissiona a Lattuada il Mulino del Po nel quale si mostra una scottante realtà politica in fondo simile a quella del dopoguerra, piena di forti tensioni sociali, tra scioperi e repressioni poliziesche e lo si fa con un’ottica assai conciliante, in cui i padroni hanno le loro ragioni e lo scontro trova un proprio accomodamento basato su una negoziazione molto “italiana” e assai poco rivoluzionaria. A questo punto, uscita in gran pompa l’opera rassicurante di Bacchelli, può comparire nei cinema anche Riso amaro;
pellicola in cui la visione del mondo, per quanto ambigua e “corrotta” da influenze “americane”, è altrimenti aspra e combattiva. Non bisogna scordare che proprio nella valle padana nel maggio-giugno 1949 ci sono stati
lunghi scioperi contadini e che Scelba (ministro dell’interno) è intervenuto con mano pesante per riportare l’ordine. A Molinella e in altre campagne emiliane si giunge allo scontro frontale tra scioperanti della CGIL decisi a
impedire con ogni mezzo che i lavoratori aderenti ad altri sindacati (contrari alle manifestazioni) possano recarsi al lavoro (c’è scappato un morto, è intervenuta la polizia; i fatti hanno destato ovviamente clamore e sono
giunti fino in Parlamento, causando il 20 maggio feroci diverbi tra comunisti da una parte, democristiani e “socialdemocratici” dall’altra). Dunque pellicole orientate in una direzione nettamente filomarxista sono da
considerarsi pericolose, non tanto per la stabilità del quadro politico (ormai assestato dopo l’esito elettorale del 18 aprile 1948), bensì per l’ordine pubblico e per le gravi conseguenze che un clima di prolungato scontro
sociale può generare (gli anni settanta saranno in tal senso molto istruttivi). L’ala laicista torinese aveva trovato un importante accomodamento con il potere democristiano: un suo uomo, Luigi Einaudi, era asceso alla
presidenza e la DC di De Gasperi riconosceva esplicitamente nei piccoli partiti centristi (Pli, Pri) un’importante componente politica alleata egemone nel mondo imprenditoriale e finanziario, alla quale affidare incarichi
decisamente sproporzionati rispetto alla reale consistenza numerica. Non era più il caso quindi di sobillare la popolazione verso oscuri orizzonti. Così la Lux film si allinea e, mentre continua a strizzare l’occhio ai compagni
di strada socialcomunisti finanziando De Santis (ma rimandandone l’uscita in periodi giudicati opportuni), d’altro lato produce opere di taglio conservatore come il bacchelliano Mulino (in cui tra l’altro appare evidente il ricordo della politica corporativa del fascismo nell’atteggiamento del latifondista che ricerca la collaborazione della parte più giovane e moderna del ceto rurale) e In nome della legge di Germi, tutt’altro che duro nei confronti della mafia (vedi).
Sulla genesi del film le dichiarazioni dell’autore non lasciano dubbi: si è trattato proprio di un’iniziativa della Lux. Lattuada dichiara: “L’idea di fare Il mulino del Po è di Gatti, della Lux, che amava l’opera di Bacchelli. Io avevo letto solo il terzo libro... Quando uscì fui attaccato da destra e da sinistra; da sinistra perché, dicevano, non avevo risolto con una indicazione precisa la strada da seguire, da destra perché avevo girato uno sciopero talmente provocatorio, per l’epoca..., per cui nei cinema l’aria vibrava di una tensione simile a quella di quelle scene, piuttosto cocente”.
E’ bizzarro rilevare che le forze in campo in quel di Ferrara a fine Ottocento somigliano a quelle dell’Italia repubblicana successiva al 18 aprile: ci sono realtà politiche socialiste forti e radicate, piccole formazioni
laico-massoniche (quelle del comizio “satanista”) incapaci di diffondere il proprio credo tra le genti, c’è la chiesa rispettata e influente che offre alle masse contadine un orientamento equilibrato e convincente. D’altronde
pretendere una pellicola marxista da una traduzione in immagini di un romanzo storico nato ed edito negli anni del fascismo è pretesa assurda e le critiche della sinistra appaiono completamente fuori bersaglio. Semmai era
sospetta la politica culturale della Lux che decideva di produrre il romanzo di Bacchelli negli stessi mesi di Riso amaro, nonché di fare uscire i due film negli stessi giorni secondo una logica totalmente
anticommerciale (trattandosi di due affreschi rurali di argomento piuttosto simile) e tuttavia dotata di un proprio senso politico consistente nel tentativo di bilanciare un prodotto con l’altro, di promuovere nella stessa
misura atteggiamenti progressisti e conservatori, di dar voce agli alleati di un tempo (la Resistenza) e a quelli attuali (i cattolici moderati). Nel 1963 Sandro Bolchi propone nuovamente Il mulino del Po in uno sceneggiato televisivo in cinque puntate cui collabora lo stesso Bacchelli e che prende spunto dalla prima parte della trilogia (Dio ti salvi,
1938), quella che racconta di Lazzaro Scacerni, ex soldato napoleonico, che costruisce un mulino sul Po, aiutato dalla moglie Dosolina. Nel 1971 ancora Bolchi, sempre aiutato da Bacchelli, gira un secondo sceneggiato televisivo
in quattro puntate che traduce in immagini le vicende della seconda parte (La miseria viene in barca, 1939).
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