In nome della legge, Riso amaro, Il monastero di Santa Chiara e I pirati di Capri: inseguendo Hollywood (1949)
“La legge qua la facciamo noi secondo le antiche usanze. Siamo un’isola, qua: il governo è molto lontano; e se non ci fossimo noi con la nostra severità, la
malavita finirebbe per guastare ogni cosa,
come il loglio nel grano, e nessuno sarebbe più sicuro in casa propria. Non siamo delinquenti, noi siamo uomini d’onore, liberi e indipendenti come gli uccelli nell’aria”
Turi Passalacqua, In nome della legge
“La Mangano ho dovuto inventarla perché nel cinema italiano di allora non esisteva una Rita Hayworth” Giuseppe De Santis
Dopo le elezioni dell’aprile 1948 la DC detiene saldamente il potere politico ma è spaccata al suo interno tra la corrente maggioritaria di De Gasperi, centrista e alleata fedele degli USA, e quella
minoritaria "laburista" di Dossetti. Alla prima appartiene il nuovo segretario del partito, Paolo Emilio Taviani, eletto nel giugno 1949 al terzo Congresso nazionale DC svoltosi a Venezia, mentre alla seconda
aderiscono Fanfani, Gronchi e La Pira. Il governo De Gasperi ottiene con fatica dalla maggioranza parlamentare la fondamentale adesione alla alleanza strategico-militare della NATO (i dossettiani sono contrari e si cullano
ancora nell'illusione di fare dell'Italia un paese neutrale, mediatore tra le due superpotenze antagoniste) laddove Dossetti riesce a orientare a sinistra la politica economica del partito cattolico attraverso l'inaugurazione
della Cassa del mezzogiorno e poi dell'ENI di Mattei (nel giugno 1949 avvengono inattesi ritrovamenti di giacimento di metano nei dintorni di Cortemaggiore: l'Agip inizia ricerche a tappeto in val Padana, sperando invano di
scoprire riserve energetiche decisive per l'economia nazionale). L'adesione al Patto Atlantico, inaugurato proprio in quel 1949, avviene nell'aprile. Sollecitata da De Gasperi e da Sforza, l'entrata a far parte di una
potente e definitiva alleanza militare mette al riparo l'Italia, militarmente debole, dalla minaccia sovietica (dopo l'esplosione nucleare nel deserto di Ust-Url tra il Caspio e il mare di Aral, avvenuta nel luglio, si
acquisisce la preoccupante certezza che anche l'URSS possiede la bomba atomica): l’URSS può contare nella penisola su una sinistra assai forte. Il PCI è il più potente partito comunista nell’Europa “americana” e riceve infatti
ingenti aiuti economici dalla casa madre (di gran lunga i più alti erogati a un partito “esterno” da parte della dirigenza stalinista), aiuti peraltro noti alla DC e tollerati; in fondo finiscono anch’essi per migliorare il
tenore di vita italiano, la qual cosa risulta un’incredibile, amara beffa per le sfortunate popolazioni d’oltre cortina, costrette a combattere quotidianamente con la scarsità di approvvigionamento di beni materiali essenziali
(dal cibo al vestiario) mentre le loro classi dirigenti dissipano preziose risorse a favore di formazioni politiche straniere. E’ scontato quindi il feroce ostruzionismo tentato da PCI e PSI contro l’adesione italiana al
trattato atlantico, nella vana speranza di allontanare dall'Europa la potenza statunitense (Nenni scrive sull'Avanti! che "De Gasperi vuol far indossare al nostro popolo la divisa della legione straniera del
capitalismo" mentre Togliatti definisce la DC "il partito americano della guerra"); al contrario la Francia sostiene la candidatura italiana poiché è interessata a un globale rafforzamento militare nel
Mediterraneo, per la difesa dei suoi interessi coloniali africani. Nel frattempo la guerra fredda si inasprisce e ne è un chiaro sintomo l'inizio negli USA dei processi contro i comunisti infiltrati nell'industria
hollywoodiana. Il Vaticano, a sua volta, partecipa a questo conflitto planetario riequlibrando gli ammmiccamenti socialisti dell'area dossettiana con la secca scomunica (luglio 1949) riservata a chi aderisce al partito
comunista e alla sua ideologia atea e materialista. Su indicazione di Pio XII il Sant'Uffizio estromette dalla comunita' cristiana chi "è iscritto o appoggia il partito comunista, chi pubblica, diffonde o legge libri,
periodici o giornali che approvano il comunismo". La misura è così drastica da venire però rapidamente dimenticata anche perché nella vita sociale è ormai in corso una tranquilla normalizzazione e le passioni politiche
vengono sostituite da una maggiore attenzione per i più semplici e impellenti problemi della quotidianità.
Giunto alla terza regia Pietro Germi tenta di coniugare stile “americano” e denuncia sociale “neorealista” con esiti solo parzialmente condivisibili. In nome della legge
(marzo 1949; 99 min.), ispirato al romanzo Piccola pretura (1949) del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo e tradotto abbastanza fedelmente per lo schermo da Monicelli, Pinelli, Fellini, Germi stesso e altri, racconta le rocambolesche vicende di Guido Schiavi, un magistrato ventiseienne palermitano (Massimo Girotti) che giunge in un piccolo paesino siciliano completamente dominato dalla mafia di Turi Passalacqua (Charles Vanel) e dagli intrighi del barone Lo Vasto (Camillo Mastrocinque). Lo zelante pretore prende a cuore i destini della povera gente locale e impone la riapertura della zolfara, chiusa dall’inetto barone protetto dai mafiosi. Seguono numerosi scontri tra i rappresentanti dello stato e il gruppo di malviventi il quale finisce per mettere alle corde l’uomo di legge. Giunge perfino il procuratore capo di Palermo che, in definitia, sollecita le dimissioni di Schiavi il quale decide di andarsene senonché, proprio il giorno della partenza, un mafioso uccide per motivi personali Paolino (Bernardo Indelicato), un ragazzo amico del pretore. La misura è colma: Schiavi annulla la partenza, raduna in piazza l’intero paese e dichiara che ora applicherà la legge fino a quando qualcuno non lo ucciderà; Passalacqua loda il suo coraggio, afferma che da quel momento la mafia farà un passo indietro e gli consegna immediatamente il colpevole.
Dal punto di vista meramente stilistico Germi conferma le proprie doti di abile narratore, capace di assimilare la grande lezione che giunge dagli USA. In tal senso il film offre uno spettacolo incalzante, asciutto,
energico e ricco di colpi di scena nonché totalmente privo di verosimiglianza (più “un pezzo di torta” che “un pezzo di vita”, per dirla con Hitchcock). Non a caso il pubblico italiano ne è sedotto e lo incorona tra i massimi
successi commerciali della stagione. Lo scontro tra il protagonista e i malviventi discende direttamente da quello ricorrente nei western americani ove spesso si contrappone un tenace, solitario sceriffo a una banda di
incalliti rapinatori o, se si preferisce, a un gruppo di selvaggi indiani. Il paesino assolato e pietroso (situato dalle parti di Sciacca) si trasforma allora nel fortino dell’eroe assediato mentre i mafiosi compaiono a cavallo
all’orizzonte come nelle narrazioni ambientate nelle sconfinate distese di un continente nordamericano ottocentesco, in gran parte ancora da sottomettere alla legge federale. Di fronte a questa reinvenzione italiana del
western, con personaggi a tutto tondo, duri e pronti a morire, si è disposti ad accettare un pretore che si professa siciliano ma non possiede alcun carattere fisico e psicologico di quella terra (come già accadeva al Girotti
“siciliano” del quasi coevo Anni difficili, Zampa 1948; vedi) e un capomafia impersonato dal francese Charles Vanel. Ancor più inverosimile e perfino grottesca appare la vicenda secondaria (e totalmente inopportuna) del
flirt tra il magistrato e la moglie del barone i quali si incontrano di notte furtivamente (si fa per dire, in un paesino di poche anime...) in una piazzetta posta ai piedi della residenza della donna mentre i disegni criminosi
del barone (la questione della zolfara) e le sue responsabilità nell’avere lasciato senza lavoro mezzo paese vengono liquidati in poche battute prive di reale approfondimento. Dunque ciò che realmente affascina nel lavoro di
Germi è il nocciolo duro della questione ovvero il lungo, “eroico” confronto tra l’uomo dello stato e l’uomo della mafia, tra la legge e l’usanza arcaica, in definitiva tra la Modernità e la Tradizione (la Sicilia è certo il
luogo più indicato per far rivivere questo conflitto fondamentale, mostrando un universo femminile ancora totalmente emarginato nella dimensione domestico-affettiva o, nella migliore delle ipotesi, “artistica” come dimostra il
personaggio della baronessa rifugiatosi in un proprio, isolato universo sonoro pianistico popolato dalle meravigliose creazioni di Beethoven, Schubert e Chopin). Nell’arringa conclusiva Schiavi riconosce la solenne grandezza di
Passalacqua, gli riconosce l’aderenza in buona fede a una concezione dell’esistenza e dell’ordine sociale completamente scissa dalle istituzioni italiane sentite come estranee e lontane. Questo riconoscimento funziona
all’interno dello schema narrativo “mitologico” della pellicola che contrappone due figure statuarie e incorrotte, due “samurai” divisi da tutto ma rispettosi della grandezza altrui. Ciò che invece stupisce, in relazione al
contesto sociopolitico in cui il lavoro nasce, è proprio che tale riconoscimento avvenga. Nel 1947 come si è ricordato altrove, la banda di Giuliano (con la probabile compiacente e silenziosa approvazione della mafia, di alcune
forze istituzionali e forse con la collaborazione dei servizi segreti americani e di uomini della Decima Mas) attacca i comunisti a Portella e commette un’orrenda strage dal valore meramente intimidatorio; in sostanza uno dei
primi atti della guerra fredda europea. La Lux Film, casa di produzione radicata nel contesto progressista torinese, finanzia l’anno successivo il primo (e per lungo tempo unico) film italiano sulla mafia e tutto lascia
presupporre che si tratti anche di un film contro la mafia (tanto più che è proprio il produttore torinese Luigi Rovere a “scovare” il testo ancora inedito di Lo Schiavo nel 1947, ad acquistarne i diritti e a proporlo a Germi).
Nella prima metà del film la narrazione sembra incanalarsi nei binari previsti, illuminando un gruppo di spietati malviventi che tengono in pugno il piccolo paese. Poi, gradualmente, le cose cambiano. L’apparizione di Vanel, la
cui mimica inflessibile non contiene alcuna sfumatura malvagia, cambia completamente la prospettiva del racconto: gli uomini d’onore divengono allora regnanti arcaici che mantengono un ordine sempre assai precario seguendo
tradizioni antiche e “giuste”. Certo si fanno giustizia da soli ma sempre secondo la logica dell’occhio per occhio. Tutti li temono e li rispettano e di conseguenza finiscono con il rispettare anche il pretore che osa
schierarsi al loro stesso livello, rischiando la propria vita. Il male viene allora attribuito per intero alle malversazioni del barone, unica vera mela marcia (insieme all’assassino del ragazzo, un mafioso il quale però ha
agito per gelosia all’insaputa dei suoi compagni e soprattutto di Turi Passalacqua) mentre nel favolistico finale (non lontano da quelli del cinema di Frank Capra) il capomafia si dice “battuto” e afferma che d’ora innanzi
lascerà al pretore il compito di amministrare la giustizia. In nome della legge quindi propone un mistero di natura extrafilmica che sopravanza di gran lunga l’interesse insito nella discreta e divertente pellicola: come è stato possibile per la Lux Film appoggiare una pellicola sostanzialmente giustificazionista del potere mafioso dopo Portella e dopo altri riprovevoli crimini quali l’assassinio del sindacalista Placido Rizzotto (1948; la cui figura è stata abilmente rievocata nel film di Salvatore Scimeca del 2000, pellicola che tra l’altro si ispira a quella di Germi nella costruzione della vicenda secondaria ossia della rivalità in amore tra il protagonista e il mafioso)?
Il regista ligure scrive la sceneggiatura con Monicelli, Pinelli e gli altri senza conoscere la Sicilia. “Il fim aveva nella mia testa un valore di costruzione drammatica, che era ciò che soprattutto mi interessava: un
racconto che si richiamava a certi caratteri della Sicilia così come li conoscevo per averne letto o per sentito dire, ma in realtà non c’ero mai stato....A distanza di anni riconosco però che la storia è un po’ facile, un
semplice western...il film mancava di un’ambizione culturale”. Il regista ammette dunque la propria totale estraneità alla materia trattata, nei cui confronti mostra anche una sorta di timidezza: il regista genovese, il quale
nei suoi due precedenti film (Il testimone, 1946; Gioventù perduta, 1948; vedi) aveva saputo con inflessibile originalità dipingere il male assoluto, sciolto da scusanti ambientali, ora di fronte alla temibile,
complessa e stratificata organizzazione mafiosa esita e si rifugia nello stereotipo cavalleresco. Monicelli invece racconta che la troupe venne accolta in Sicilia con entusiasmo e acutamente afferma: “non avemmo praticamente
nessun fastidio dagli ambienti mafiosi, forse anche perché, tutto sommato, pure essendo un film sulla mafia, la mafia ne usciva bene”. Se la forte tensione presente nel racconto sembra anticipare il cinema civile degli anni
sessanta e settanta di Rosi, Petri e Damiani, uno sguardo più attento mostra che il film di Germi è lontanissimo dalla denuncia aperta e implacabile che anima quella successiva, popolare corrente cinematografica, peraltro
fortemente politicizzata. Anche Girotti dice cose simili: “Non avemmo seccature... Non so cosa la produzione avesse dato a intendere laggiù, ma avemmo tutti i permessi facilmente”. Più esplicitamente Ugo Casiraghi dichiarava
(settembre 1949) che Germi aveva potuto iniziare a girare solo dopo che la mafia stessa aveva “approvato” la sua sceneggiatura, cosa tutt’altro che improbabile visto il ferreo controllo del territorio che quella organizzazione
già deteneva in quel primo dopoguerra. Sarebbe ingenuo pensare che una troupe cinematografica potesse installarsi in Sicilia per raccontare una vicenda antimafiosa la quale, proiettata su tutti gli schermi della penisola e
oltre, avrebbe potuto avere effetti nefandi sul gruppo di potere siciliano. Ciononostante il film provoca reazioni polemiche in Parlamento nel maggio 1949: alcuni volevano la proibizione delle repliche del lavoro di Germi
che stava incontrando un inatteso, grande successo, altri invece chiedevano di potenziarne la circolazione a spese dello stato. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti, interpellato sull’argomento,
dichiara alla Camera che il film è bellissimo, ha ottenuto tutti i visti necessari e non c’è motivo di impedirne la visione. Se poteva permanere qualche incertezza sulla finale collocazione filodemocristiana dell’opera, essa
dilegua di fronte alle parole del braccio destro di De Gasperis. In ogni caso l’argomento era scottante e non bisognava ripetere l’errore di indagarlo in successive pellicole. Bisognerà pertanto attendere l’incisivo Salvatore
Giuliano di Francesco Rosi (1961) per riaprire l’argomento, parlando proprio di eventi relativi agli anni in cui la pellicola di Germi venne girata. Anche in seguito la filmografia “mafiosa” degli anni sessanta si limita a pochi (anche se importanti) titoli quali Un uomo da bruciare (fratelli Taviani e Orsini, 1962, intorno alla esecuzione del sindacalista Salvatore Carnevale), A ciascuno il suo (Petri, 1967) e Il giorno della civetta (Damiani, 1967), entrambi questi ultimi tratti da racconti di Leonardo Sciascia.
Con il secondo film di Giuseppe De Santis, Riso amaro
(settembre 1949; 108 min.), il cosiddetto neorealismo coglie il primo, grande successo popolare. La pellicola, sceneggiata da Corrado Alvaro, Carlo Lizzani, il regista e altri e prodotta dalla Lux Film di Riccardo Gualino (come il film di Germi), ottiene questo inatteso esito poiché in realtà esilia le tradizionali istanze neorealistiche nella sfocata cornice narrativa (la condizione delle mondine in una risaia del vercellese; la tenuta, di proprietà degli Agnelli, viene messa a disposizione dell’amico Gualino) e si concentra invece su una narrazione in larga parte ricavata dagli stereotipi (opportunamente adattati e deformati) del noir hollywoodiano. Fin dall’apertura l’operazione appare chiarissima: un magnifico pianosequenza circolare illustra l’arrivo delle mondine in una stazione e il trambusto relativo a loro “imbarco” sopra ai camion destinati a portarle in risaia; tale elegante introduzione va però subito a infrangersi su una serie di “incredibili” personaggi i quali, con fare sospetto, si aggirano tra le ragazze: un improbabile, perfido Gassman con impermeabile e borsalino inseguito da altrettanto insoliti poliziotti dotati di farfallino e pronti a sparare contro tutti. Fin d’ora è evidente che la cornice “impegnata” è un pretesto mentre la vicenda che assorbe ogni attenzione è quella di una coppia di malviventi in fuga dopo una rapina.
La sovrapposizione stravagante e malriuscita di documentarismo con finalità politiche e thriller americano prosegue con esiti sconcertanti per tutta la pellicola. Francesca (Doris Dowling), la compagna di Walter (Gassman),
si rifugia tra le mondine e stringe amicizia con Silvana (Silvana Mangano) la quale, con la sua esuberanza vitale e la notevole presenza fisica, diviene quasi subito un personaggio carismatico tra le giovani donne. De Santis, a
sorpresa, vira la psicologia di Silvana verso torbidi orizzonti: attratta dal nerovestito malvivente la donna ne subisce irrimediabilmente l’oscuro fascino fino a divenirne la schiava sottomessa. Il simbolo della forza e della
pura semplicità popolare dunque soccombe rapidamente al richiamo del male, all’avidità del malfattore e alla tentazione di risolvere, attraverso la scorciatoia del crimine, la propria esistenza miserabile e deludente. Non solo.
Il regista si diverte a descrivere una situazione di morbosa attrazione sadomasochistica nella aspra sequenza della seduzione di Silvana: Walter la aggredisce frustandola e la donna, capricciosa e volubile allorché corteggiata
secondo canoni usuali (un sergente in congedo le propone un’esistenza onesta e un viaggio in Argentina, in cerca di fortuna), appare indifesa di fronte a questa brutale forma di dominazione maschile. De Santis dunque non solo
rovescia gli stereotipi socialisti ma capovolge anche quelli americani e sostituisce alla femme fatale di tante famose pellicole (La fiamma del peccato innanzitutto, B. Wilder, 1944; ma anche Gilda, C.
Vidor, 1946; tra l’altro la Mangano ripropone la celebre pettinatura di Rita Hayworth) il personaggio ombroso e deciso di Walter: è lui il seduttore infallibile che trascina alla rovina la bella popolana, facendole tutto
dimenticare, la coscienza di classe, la solidarietà per le compagne che l’hanno eletta miss mondina 1948, l’esigenza di lottare unite per ottenere riconoscimenti da parte della classa padronale. Quest’ultima anzi è
completamente assente: si protesta in modo generico (in alcune sequenze secondarie) per ottenere l’assunzione di un certo numero di clandestine, ma la controparte è “invisibile” e le concessioni subito ottenute appaiono in
fondo questioni marginali. Non c’è dunque da stupirsi che di fronte a un giallo con divagazioni morbose e generose esibizioni di figure femminili poco vestite (per l’epoca), ben recitato e calato in una cornice descritta
con sapienza e con notevoli virtuosismi linguistici, il pubblico italiano rispondesse con entusiasmo, determinando la nascita della star Silvana Mangano. Nè c’è da rimanere sorpresi del fatto che il mondo cattolico dichiari la
propria distanza da questo tipo di pellicole (il Centro Cinematografico Cattolico assegna la prevedibile etichetta di “escluso” al lavoro di De Santis) e che quello socialcomunista si dimostri fortemente deluso dalla seconda
fatica dell’autore di Caccia tragica (l’Unità parla di inutili e rozzi sensazionalismi, l’Avanti stronca con durezza l’intero film e Guido Aristarco, su Cinema, parla di “fumetto” e di “realtà falsa, arbitraria”). D’altronde l’operazione di De Santis, nel suo sovrapporre in modo clamoroso la logica narrativa americana, governata dalle leggi della più spietata avidità individualistica, a un contesto degno di ben altri sviluppi di natura politico-sociale come quello delle risaie e del lavoro sottopagato delle mondine, non poteva che sconcertare la sinistra marxista che si vedeva praticamente tradita dall’ottica filohollywoodiana del regista romano. La trasformazione dell’eroina, una popolana sfruttata e delusa, in una malvivente pronta a tradire le compagne e a rubare l’intero raccolto di riso colpisce al cuore gli stereotipi astratti e moraleggianti del realismo socialista per sostituirli con quelli altrettanto astratti ma cinici del noir americano.
Tutta la vicenda che ruota intorno al criminale è mal costruita e risibile: nascondersi in mezzo alle mondine è una scelta infantile come pure inverosimile è il tentativo di rubare l’intero raccolto con una serie di camion
facilmente individuabili. Ma al di là delle obiezioni sulla credibilità delle scelte dei personaggi è nel finale che la ricerca sensazionalistica dell’autore mostra la corda poiché l’intera sequenza conclusiva, ambientata in un
macello, conferma il gusto per l’effetto estremo e artificioso. Il protagonista si scontra con il sergente Marco Galli (Raf Vallone) deciso a fermarlo; nel conflitto che ne segue Silvana comprende finalmente di essere stata
usata e uccide Walter. Con un montaggio forzato (tutt’altro che fluido) il regista inserisce nel momento cruciale il dettaglio grossolano e inverosimile che mostra il polso dell’uomo che si aggancia a un arpione; l’immagine
seguente in campo lungo ritrae l’uomo appeso al medesimo in una posa tanto plastica quanto melodrammatica e falsa, degna più del teatro d’opera che del realismo cinematografico. E’ questo un momento rivelatore della poca
spontaneità che anima l’intera operazione Riso amaro, viziata dalla ambizione di misurarsi e di “superare” in violenza e morbosità i modelli americani. Non che in sé il tentativo vada censurato (quindici-venti anni dopo
sarà proprio un simile tipo di scrittura fantastico-sadica, modellata sull’universo americano, a rendere indimenticabile il cinema di Sergio Leone e di Dario Argento); il problema è che De Santis non possiede una vena
abbastanza visionaria e audace per portare a compimento questo genere di invenzione filmica. Il successivo, peggiore Non c’è pace tra gli ulivi (1950) accentuerà infatti i difetti di Riso amaro, confermando il
fatto che per ora i modelli americani si possono solo imitare (lo dimostra come si è visto anche In nome della legge); il cinema italiano non è ancora pronto per stravolgerli e superarli in una dimensione di geniale,
europea visionarietà. L’ultima sequenza, con il suicidio di Silvana, è un ulteriore passo falso in quanto aggiunge un’altra scena madre inverosimile (il personaggio vitale della ragazza non si collega al gesto, nonostante
la grave disavventura e l’abisso morale in cui era precipitato) e utile soprattutto a chiudere frettolosamente il racconto con un necessario finale punitivo nei confronti della protagonista colpevole di omicidio. La colonna
sonora del film ripropone le schizofreniche antitesi che animano le immagini: la cornice realistica, di gran lunga la cosa più ammirevole, con i suoi incantevoli movimenti di macchina su campi lunghi popolati di figure immerse
in dolci paesaggi di terra e acqua, si avvale di convenzionali canti popolari; le numerose scene di danza si avvalgono di brani sincopati di matrice americana mentre i cupi “duetti” tra il seduttore e le sue due amanti
(Francesca, poi redenta dal sergente e Silvana) sono commentate dagli arabeschi musicali tendenzialmente atonali (affidati per lo più ai fiati) di Goffredo Petrassi, un compositore colto e moderno il quale tuttavia perde
l’occasione di segnare in modo più incisivo e determinante il discorso filmico. Di fronte a una cultura di sinistra che lo boicotta De Santis replica dapprima (nel 1953, in modo poco credibile), di avere voluto esporre il
dilagare di una certa cultura americana gretta e materialista di cui Silvana costituirebbe l’emblema (la definisce allora “ragazza negativa e asociale”) sebbene tutto ciò non emerga in questo modo dalla narrazione la quale
anziché critica, appare semmai debitrice e soggiogata dal linguaggio hollywoodiano; afferma invece a posteriori, con più obiettività: “per loro il cinema neorealista è soltanto quello di Ladri di biciclette, di Umberto D, La terra trema, Paisà,
il <neorealismo puro>....La sinistra non aveva capito una cosa...: il cinema non può mai essere un fatto privato che fai per te o i tuoi amici. Io ho un interlocutore, che è il pubblico. E a questo pubblico devo poter
parlare, raccontargli delle storie con tutta la maestria e tutte le malizie per cercare di catturarlo... io mischio continuamente cultura alta e cultura bassa, i canti popolari e la musica di Petrassi, l’aborto spontaneo in
risaia e il boogie - woogie. La contaminazione tra i generi è a mio giudizio la forza del mio cinema” (1996). Tuttavia questa sorta di “umile” adeguamento dell’autore a un pubblico indifferenziato e globale è proprio quanto di
più antitetico si possa immaginae rispetto a quel cinema politico-marxista auspicato dagli intellettuali comunisti dell’epoca e realizzato da una elite consapevole del proprio compito di guidare le masse verso l’autocoscienza e
la lotta di classe, insomma verso la rivoluzione sociale. Nel 1950 Giuseppe De Santis si ritrova candidato all’oscar nella categoria
Writing - Motion Picture Story (ovvero il soggetto), onesto riconoscimento hollywoodiano verso un autore che dimostrava tanto entusiasmo per la cinematografia statunitense. Il fatto madornale consiste invece nel divieto di ingresso sancito dalle autorità americane nei confronti del regista laziale il quale, in quanto iscritto al PCI, è considerato persona non gradita negli USA, tanto più negli USA della maccartista commissione per le attività antiamericane, assai diffidente nei confronti dell’universo hollywoodiano giudicato troppo socialisteggiante e troppo condiscendente nei confronti del totalitarismo sovietico.
Un esempio assai più modesto di imitazione hollywoodiana è costituito dall’opera seconda del cagliaritano Mario Sequi, Il monastero di Santa Chiara
(marzo 1949; 90 min.), torbido e risibile fumettone narrante le disavventure dell’ebrea Ester di Veroli (Edda Albertini) nella Napoli prima occupata dai nazisti, poi liberata dagli americani nell’autunno 1943. Il film, sceneggiato da Michele Galdieri, Fulvio Palmieri e Vinicio Marinucci, e musicato in modo retorico e magniloquente da Roman Vlad, abusa della pazienza dello spettatore mettendo in scena l’amore impossibile tra la protagonista, una cantante di avanspettacolo (molto applaudita per l’interpretazione del brano Lilì Marleen)
e un capitano delle SS (Massimo Serato totalmente fuori parte) il quale, anziché consegnare la donna alle carceri naziste (su istigazione della sua amante Greta, ossia Nyta Dover), la ricovera nel monastero di Santa Chiara e si
uccide. La donna comunque continua a parlargli “in trance” mentre cerca di non scontentare un secondo corteggiatore nonché brillante borsanerista (Nino Manfredi, come Sequi alla sua seconda prova filmica) che fa di tutto per
aiutarla. Nel finale Ester si ritrova al centro di un’assurda sparatoria tra ex nazisti in fuga e malviventi. Ferita a morte, esala l’ultimo respiro e si ricongiunge al suo capitano. A nobilitare questa incredibile
paccottiglia, giustamente punita da un sonoro fiasco commerciale, c‘è una strana, “autorevole” cornice ambientata al tempo presente nella quale il musicista Piero Sadun racconta la vicenda di Ester ad Alberto Moravia (forse
interessato alla vicenda in quanto ebreo; tra l’altro in quei mesi lo scrittore sta occupandosi del conflitto tra ebraismo e regimi totalitari nel testo Il conformista, edito da Bompiani nel 1951, riflessione intorno
all’omicidio dei fratelli Rosselli, importanti esponenti del centro d’opposizione antifascista parigino, nonché parenti del letterato). L’unico elemento di reale interesse è costituito dalla fotografia di Piero Portalupi,
cupa e visionaria, contrastata e piena di inventiva, collegata con una costante ricerca visiva nel taglio insolito delle inquadrature, enfatiche e imprevedibili. E’ evidente il tentativo di rifarsi all’espressionismo tedesco e,
più ancora, alla sua versione noir tipica del cinema hollywoodiano degli anni quaranta (si pensi tra tutti a Quarto potere, 1941, e a Lo straniero, 1946, di Orson Welles, quest’ultimo somigliante anche nella
tematica antinazista). Purtroppo però il cinema è innanzitutto racconto per immagini e non va mai confuso con una serie di brillanti “diapositive” le quali, da sole, non possono in alcun modo giustificare l’interesse di
un’opera. Anche dalla costruzione narrativa, per quanto sgangherata e inverosimile, si evince il tentativo di imitare i modelli hollywoodiani volti a creare una realtà filmica stringente e tesa, quasi onirica, nella quale i
colpi di scena si susseguono senza sosta come in un incubo (si pensi tra gli altri al cinema noir di Siodmak ovvero a titoli quali La donna fantasma, 1944, La scala a chiocciola, 1945, I gangsters, 1946 e Doppio gioco,
1948). La presenza di una cornice esterna agli eventi, la quale tende ad allontanarli in un misterioso e labirintico passato, è un ulteriore elemento ripreso dal noir americano (si pensi innanzitutto a La fiamma del peccato,
1944, di Billy Wilder). Purtroppo il lavoro di Sequi rimane molto al di sotto dei suoi modelli. Il regista comunque non si darà per vinto e sempre nel solco della favola gotico-onirica firmerà, due anni dopo, il suggestivo Incantesimo tragico (1951; vedi).
Hollywood invece inizia a “sbarcare” concretamente in Italia con il film I pirati di Capri
(aprile 1949, min.) diretto nella versione italiana da Giuseppe Scotese e in quella americana dal regista Edgar Ulmer (ebreo tedesco, operativo a Berlino negli anni venti, poi trasferitosi a Los Angeles agli inizi del decennio seguente). Il mediocre prodotto - basato su un soggetto di Golfiero Colonna, Giorgio Moser e Bruno Valeri - racconta a modo suo la rivoluzione napoletana del 1799 che sfocia nell’instaurazione dell’effimera repubblica partenopea (gennaio - giugno) sostenuta dall’esercito francese e - di lì a poco - capovolta da quello inglese coadiuvato dai sanfedisti del cardinale Ruffo (il film termina prudentemente agli albori della rivoluzione). Le vicende storiche vengono trasformate in un intreccio romanzesco, a stento godibile da un pubblico di adolescenti.
Il conte di Amalfi (Louis Hayward) è in rotta di collisione con la propria classe sociale. A corte è il beniamino della regina Maria Carolina (una Asburgo, sorella di Maria Antonietta, ghigliottinata a Place de la Concorde
nel 1793) ma altrove diventa capitan Scirocco (con obbligatoria maschera sul volto) che assalta le navi inglesi, amiche degli Asburgo e dei regnanti di Napoli e ne preleva il carico d’armi per fornirlo agli amici rivoluzionari.
Ulmer e Scotese si allineano coscienziosamente alla vulgata massonica intorno agli eventi europei del decennio 1789-1799 e firmano un goffo lavoro di propaganda in cui niente ci viene risparmiato. Pertanto i Francesi portano la
libertà, il popolo tutto geme e opera attivamente per la rivoluzione (alla faccia dei futuri sanfedisti del cardinale Ruffo e in generale delle numerose e popolari rivolte antigiacobine), un truce tedesco (Von Holstein, bene
interpretato da un insolitamente sinistro Massimo Serato, uno dei pochi elementi di interesse della pellicola) guida la repressione interna mentre il contributo degli Inglesi al sostegno della casa regnante è messo tra
parentesi (non si possono criticare i recenti vincitori del conflitto mondiale). Si giunge al notturno e ridicolo finale nel quale, come nel Frankenstein (1931) di James Whale, il popolo entra nella reggia con armi e torce per distruggere e riportare la “libertà” a Napoli. I “mostri” vengono così scacciati in quella che appare (e non è) l’alba di una nuova epoca.
Inutile commentare ulteriormente la sciagurata pellicola nella quale vanno sprecati il talento musicale di Nino Rota e quello figurativo di Ulmer (si nota qualche buona inquadratura, nel segno dell’espresssionismo tedesco e
del noir americano). Ci basta sottolineare due elementi. Innanzitutto l’intenzione palese di correggere la logica di alcune pellicole del periodo fascista - Fra Diavolo (1942) di Zampa, innanzitutto (vedi) - che avevano accolto invece una posizione conservatrice, nemica della cultura rivoluzionaria, astratta e violenta del 1789 e che dipingevano più realisticamente i Francesi quali odiosi invasori. Si restaura dunque la concezione del più stereotipato illuminismo progressista.
D’altro lato al film di Zampa (e in generale alla posizione culturale del fascismo cinematografico) si lega I pirati di Capri per quanto riguarda la dispregiativa visione delle classi aristocratiche, dipinte come una galleria di gente rimbambita ed effemminata: si è spesso ribadito come il populismo del ventennio e il marxismo filmico del dopoguerra si assomiglino molto, risultando identici nel livore col quale vengono descritte le classi dirigenti borghesi e aristocratiche.
La seconda riflessione verte sulla scempiaggine complessiva del racconto il quale - accelerando il ritmo degli eventi, e puntando su una sequela di colpi di scena meramente effettistici, tutti totalmente inverosimili -
opera quella banalizzazione complessiva che caratterizza da sempre il cinema d’avventure di Hollywood, concepito per il fanciullesco pubblico statunitense. Insomma la logica dello spettacolo di propaganda per masse un po’
sempliciotte si ritrova assai accentuata in questo film. Non solo dunque gli Italiani imitano Hollywood: in questo caso è proprio l’industria di Los Angeles a sbarcare direttamente in Italia, anche se si tratta (per ora) di
timidi tentativi. In ogni caso, nonostante l’evidente sforzo produttivo, I pirati di Capri alias The Pirates of Capri passa pressoché inosservato sia in Italia, sia negli USA.
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