La gerla di papà Martin, Il re si diverte, La compagnia della teppa, Capitan Tempesta, Fra’ Diavolo, Luisa Sanfelice, Dopo divorzieremo, Scampolo, Giungla e La fanciulla dell’altra riva:
propaganda antifrancese e antiamericana (1940-42)
“Che a una prova di forza si debba giungere un giorno tra noi e la Francia, non v’ha dubbio, anche per il fatto che la Francia rispetta soltanto i popoli dai quali è stata
battuta. Si tratta di sapere se il momento è propizio”. Mussolini (5 febbraio 1939)
All’alba del nuovo decennio il popolo italiano è percorso da umori antitetici. Da un lato la recente dichiarazione dell’Impero (1936), conseguente alla rapida vittoria etiopica, ha generato un diffuso
entusiasmo e ha sancito in modo definitivo l’adesione delle masse alla politica del regime mussoliniano. Dall’altro la tempesta incombente, successiva all’aggressione hitleriana e staliniana ai danni della martoriata Polonia e
l’entrata in guerra di Francia e Gran Bretagna (sebbene per ora secondo modalità caute ed attendiste) lasciano intravedere all’orizzonte paurosi conflitti europei ai quali il bellicoso fascismo difficilmente potrà sottrarsi.
Pertanto nei primi cinque mesi del 1940 l’euforia “imperiale” lascia il posto a una attesa inquieta ed anche timorosa. Nella primavera i fulminei trionfi tedeschi sul fronte ovest convincono il duce a entrare rapidamente in
guerra (10 giugno 1940) trascinando con sé un’opinione pubblica impressionata dalla potenza bellica nazista e persuasa che il conflitto sarebbe durato pochi mesi ed avrebbe comportato nuove importanti acquisizioni territoriali
(Nizza, Tunisi, la Corsica, forse perfino l’Egitto e Suez). Nella società italiana ai timori e alle tensioni iniziali segue dunque un sostanziale convincimento (cui rimane estraneo solo una parte del mondo cattolico il quale si
rispecchia Pio XII e nei suoi costanti appelli alla pace) della necessità di unirsi a Hitler nella battaglia contro le “democrazie decadenti”. Un Mussolini stizzito nei confronti di un popolo italiano “fascista” per
comodità, invidioso dei successi hitleriani e timoroso di finire succube della potenza germanica (o addirittura di vedere l’Italia del nord invasa dai tedeschi reclamanti la regione di Bolzano) decide in modo avventato una
partecipazione a un conflitto di cui non riesce a intuire i futuri, catastrofici sviluppi. D’ora in poi egli commetterà un errore dietro l’altro (gravissimi quelli della campagna di Grecia e della partecipazione all’invasione
della Russia sovietica) trascinando l’Italia e il suo regime alla più completa rovina. Non sarebbe stato difficile intuire l’allargamento a est del conflitto (l’est, con le sue immense risorse naturali, era la preda ambita
del nazismo; bastava rileggersi il Mein Kampf hitleriano) né la futura entrata in guerra degli USA, già fattivi alleati economici della Gran Bretagna; intuire questo quadro futuro avrebbe significato anche vedere con chiarezza inequivocabile la sconfitta futura poiché quell’alleanza mondiale (USA, Gran Bretagna e URSS) comportava una soverchiante superiorità di uomini e mezzi; inoltre le potenze anglosassoni possedevano strumenti tecnologici assai più avanzati di quelli italiani (si pensi al radar e alle capacità di decifrazione dei messaggi in codice delle potenze dell’Asse). Inoltre l’Italia avrebbe potuto evitare la discesa in campo nel giugno 1940 accusando la Germania di avere tradito gli accordi segreti del Patto d’acciaio che prevedevano la pace europea almeno fino al 1942. Ciononostante il duce non riesce a prevedere questi sviluppi, non comprende la trappola mortale che si va preparando e spinge con caparbia ottusità la nazione, già provata da numerosi anni di guerra (1935-39; Etiopia e Spagna), dentro al conflitto europeo nonostante le perplessità del re e di molti gerarchi, nonché la netta contrarietà della Chiesa (al contrario in precedenza favorevole all’impresa etiopica) la quale possedeva una notevole capacità di influenza su ingenti strati della popolazione.
Di queste problematiche, in quel fatale anno, il cinema non registra alcunché.
Solo alcuni blandi tratti ideologici e polemici sono rintracciabili tra le righe della produzione filmica del periodo, nettamente improntata alla commedia d’evasione, al racconto avventuroso senza pretese e al dramma sentimentale, produzione che dà vita dunque a narrazioni completamente avulse dal difficile contesto storico europeo.
Nell’estate appare una nuova pellicola del cineasta romano, La gerla di papà Martin
(luglio 1940; 94 min), lavoro che si fa notare per due differenti aspetti: la notevole prova d’attore di Ruggero Ruggeri (nel ruolo principale) e l’evidente intento denigratorio nei confronti della società francese (parigina in particolare), descritta come un luogo di corruzione e avidità.
Il film si basa sul dramma teatrale in tre atti Les Crochets du père Martin (1858) di Eugène Cormon e Eugène Grangé (un lavoro molto popolare nell’Ottocento), sceneggiato per lo schermo dal regista con Oreste Biancoli. La storia gira intorno alla figura dell’onesto papà Martin, facchino portuale di Le Havre, orgoglioso del figlio che presume laborioso studente a Parigi; quest’ultimo invece non solo dissipa i pochi, faticati risparmi inviatigli dal padre in locali malfamati, ma addirittura firma a nome del padre cambiali false a favore dello strozzino Charanzon sia per godere delle benevolenza di donne di malaffare, sia per far fronte ai crescenti debiti di gioco. In breve i nodi vengono al pettine e la rovina si abbatte sulla piccola dimora di Le Havre. L’anziano sa tuttavia reagire, spedisce il figlio a fare il marinaio su una nave diretta in Cina, sgobba per pagare i debiti e nel finale positivo ogni cosa si aggiusta: il malvagio profittatore, padrone del locale parigino in cui il ragazzo si è rovinato, muore assassinato per mano di una delle sue vittime mentre il giovane, dopo un anno, torna “redento” dalla difficile navigazione.
Il lavoro, di evidente matrice teatrale, si svolge quasi interamente in interni, si avvale di dialoghi incisivi e di una bella caratterizzazione del protagonista, unico “vero” personaggio circondato da noti stereotipi;
dapprima gioioso ed entusiasta, poi furente e deluso ma anche subito capace di reagire con fermezza e nobile senso del sacrificio al duro colpo ricevuto, papà Martin è una figura scolpita ed intensa, assai vicina a quella di
tanti padri nobili e sofferenti della tradizione del teatro d’opera. In essa Ruggeri mette a frutto la propria vasta esperienza di valido interprete teatrale. Per il resto la qualità filmica è segnata da un dignitoso
artigianato mentre la colonna sonora sinfonica, composta da Giulio Bonnard, si incarica di commentare eventi e stati d’animo secondo vocaboli tipici della tradizione operistica. Va inoltre ricordato che il personaggio di
Martin, padre umile, amorevole e completamente assorbito dal desiderio di vedere il proprio unico figlio ascendere nella gerarchia sociale, ispirerà, pochi anni dopo, il bidello (in quel caso anche vedovo) altrettanto
commovente disegnato da Aldo fabrizi in Mio figlio professore (R. Castellani, 1946). Di contro la descrizione di una Parigi frivola e dedita a ogni sorta di vizio (lussuria, gioco, avidità, egoismo) è funzionale alla
atmosfera antifrancese che la politica del regime ha creato nella seconda metà degli anni trenta con grande dispiego di mezzi, dapprima per reagire all’opposizione di Parigi alla guerra etiopica, poi per rivendicare
l’italianità di Tunisi e di Nizza. Il quotidiano disprezzo per la “molle” e “decadente” democrazia d’oltralpe ha la funzione di preparare l’opinione pubblica alla possibile guerra europea e ciò risulta più che mai necessario
dopo lo scoppio del conflitto franco-tedesco (settembre 1939). In tal senso la pellicola di Bonnard costituisce un piccolo “contributo” alla politica di potenza mussoliniana: con perfetto tempismo le prime proiezioni del film
hanno luogo in un’Italia che ha dichiarato guerra alla Francia da circa un mese. L’anno successivo, invece, Bonnard torna a un kolossal storico, simile a Il ponte dei sospiri. Si tratta nientemeno che del dramma di
Victor Hugo che si trova all’origine del celebre Rigoletto (1851) verdiano ovvero Le Roi s’amuse che viene correttamente tradotto ne Il re si diverte
(ottobre 1941; 95 min.), lavoro teatrale in versi in cinque atti che venne messo inscena a Parigi nel 1837, generando un giustificato scandalo e l’intervento della censura. Vi si raccontano le ben note disavventure del monarca Francesco I (Rossano Brazzi), figura ridotta a quella di un volgare seduttore o se si preferisce a una sorta di emulo del mozartiano Don Giovanni (dall’omonima opera del 1787): dopo aver fatto innamorare di sé una cortigiana e aver spedito suo padre (Monterone nell’opera verdiana; Carlo Ninchi) al patibolo (evidente il parallelo con la figura del Commendatore di Mozart-Da Ponte), il bel signore si dedica a Gilda (Bianca nel testo di Hugo; Maria Mercader), si finge studente, la seduce senza sapere che si tratta della figlia di Rigoletto, il buffone di corte (Triboulet in Hugo; un ottimo Michel Simon). I cortigiani la rapiscono, il re la possiede nel suo palazzo e Rigoletto incarica Sparafucile (Juan De Landa) di vendicarlo. La complice del sicario, un’affascinante zingara (sua sorella Maddalena nel testo di Piave-Verdi; una bravissima Doris Duranti), lo attrae in una malfamata locanda dove l’assassino, convinto dalla sua “collaboratrice”, ammazza una giovane forestiera che gli si offre (ovvero Gilda) anziché il tronfio seduttore. Rigoletto, disperato, abbraccia il corpo esanime della figli: la maledizione di Monterone si è realizzata in un perfetto contrappasso.
Il lavoro di Hugo, inverosimile quasi quanto quello di Verdi, aggredisce con forza l’istituto della monarchia e, in quanto tale, venne proibito sulle scene di Francia. Prudentemente Verdi sostituisce un più modesto duca (di
Mantova) alla figura del monarca e infonde umano calore a tutte le figure un po’ stereotipate del dramma francese. Il film di Bonnard, girato con grande finezza, perfetta ambientazione, ottimo senso del ritmo e notevole
direzione degli attori, costituisce un’operazione culturale di grande spessore in quanto rende note alle masse italiane, con uno spettacolo sontuoso e appassionante (si veda anche il notevolissimo cast), le origini di una delle
più popolari opere del teatro lirico ottocentesco. L’aver raccontato per esteso l’intero dramma rivela al grande pubblico una serie di interessanti differenze, nonché di importanti integrazioni rispetto al più conciso ed
essenziale Rigoletto. Tutta la scena del rapimento di Gilda ad opera dei cortigiani, con un Rigoletto bendato, diviene un poco più credibile in quanto ambientata nella confusione di una grande festa carnevalesca in cui
tutti sono mascherati mentre l’ultima parte ci descrive un buffone risentito che, dopo il rapimento della figlia e la conseguente umiliazione, finge amicizia e indifferenza verso Francesco I per farlo cadere nella trappola di
Sparafucile. La zingara poi attira il monarca con un sensualissimo, provocante ballo in una delle sequenze più erotiche dell’intero cinema italiano degli anni quaranta (sequenza che vale l’immediata condanna del Centro
Cattolico e la classificazione di “escluso”). Insomma il racconto dettagliato del testo di Hugo, fatto con grande perizia, offre nuovi spunti di riflessione e aggiunge particolari interessanti. La musica di Verdi viene
utilizzata come una costante colonna sonora, a volte applicata in perfetta aderenza (dialogo-musica) ricalcando il celebre melodramma e trasformando il fim in una sorta di curioso melologo (si veda, tra tutte, la sequenza che
culmina nel noto “Cortigiani, vil razza dannata”). Bonnard però non è uno scolastico esecutore: utilizza con grande libertà i molteplici temi verdiani, finendo col trattarli come fossero wagneriani Leitmotive ; essi infatti ricorrono in differenti situazioni per descrivere stati d’animo e personaggi (in tal senso vengono utilizzati il tema della maledizione, quello di Sparafucile, quello del duetto della vendetta, quello di Gilda e molti altri). Il re si diverte,
dunque, sancisce in modo netto e inconsapevole quella trasformazione ormai in fieri del melodramma in film, all’interno della cultura italiana. Come si è più volte ripetuto, il dramma per musica sta diventando il racconto in
immagini sonorizzate, ricche di commenti musicali. Vi è infine la consueta critica dell’universo aristocratico nonché della nemica Francia per il tramite di questa caricatura del suo re e della futile corte che lo circonda;
si tratta però di tematiche appena accennate e comunque poco evidenti in questo caso, data la forte parentela col Rigoletto che finisce col cancellare ogni altra tipologia di riferimenti, allusioni e congetture.
La propaganda antifrancese si fa più netta e frontale in La compagnia della teppa
(marzo 1941; 70 min.) di Corrado D’Errico, su sceneggiatura di Ferruccio Cerio e Alessandro De Stefani, in cui il periodo della dominazione napoleonica in Italia viene additato come un’epoca illiberale e umiliante per il popolo italiano.
Siamo nella Milano del 1812 (alla Scala si rappresenta La pietra di paragone, primo grande successo rossiniano) e l’autore immagina settori giovanili della aristocrazia milanese impegnati in una ostinata e orgogliosa
“Resistenza” antifrancese. Le ruberie e la presunzione dei nuovi “governanti” servono a dare un quadro inedito di quel periodo storico, certamente fantasioso (questa volta una onesta didascalia iniziale avvisa che le vicende
sono prive di fondamento storico) e tuttavia smitizzante e dissacratorio soprattutto in riferimento alla conformista “buona stampa” che da sempre accompagna la narrazione storica dell’epoca napoleonica: il dittatore e
guerrafondaio francese, per il solo fatto di essere un “esportatore” degli ideali massonici (libertà - uguaglianza - ftratellanza), gode quasi ovunque di una complice simpatia quando non di un’aperta esaltazione nonostante il
pesante tributo di sangue connesso all’espansionismo ideologico-”rivoluzionario” delle sue illuminate “guerre di liberazione”, una simpatia che naturalmente si estende alla cinematografia di ogni epoca (si pensi al recente Fiorile,
1993, dei fratelli Taviani). D’altronde l’usurato tema della esportazione della democrazia e dei suoi costi attraversa i recenti secoli e trova in ogni epoca vaste schiere di estimatori (fino alle vicende belliche irakene del
2003-05). Noi preferiamo, da sempre, porci nell’ambito di un cauto scetticismo e disapproviamo queste truculente e dolorose “invasioni” di campo giustificate da un generico e spesso ipocrita “umanitarismo” (nel concreto dettate
da un’avida politica di potenza). Pertanto, di fronte a un film modesto e polveroso come quello di D’Errico, pieno di stramberie storiche (Rossini, noto musicista liberale e filofrancese, si trasforma in una sorta di patriota
nazionalista e antinapoleonico simile al Verdi antiaustriaco di tre decenni dopo) risalta in modo curioso la “ribalda” sfrontatezza nei confronti del “mitico” 1789: i dominatori vengono definiti addirittura “illiberali”, loro
che si facevano vanto di portare la nuova visione costituzionale sulla punta delle loro baionette. Tutto ciò è comunque marginale nelle intenzioni degli autori in quanto appare evidente che l’unico bersaglio del lavoro è la
Francia attuale e lo scopo ultimo consiste nel generare nel popolo italiano una sorta di spirito di rivalsa rispetto a quanto accaduto all’inizio dell’Ottocento. Inutile soffermarsi sui dettagli di una trama pretestuosa e
scontata, con bande di allegri cospiratori intenti a salvare le tele del Bellini custodite a Brera dalle grinfie degli invasori; non manca inoltre il solito triangolo amoroso con al centro la cantante d’opera Ada Mellario
(Maria Denis; il film è tra i pochissimi a possedere sequenze girate all’interno del Teatro alla Scala), corteggiata dall’ardito protagonista (Adriano Rimoldi), vero motore dell’intero intreccio romanzesco. Corrado
D’Errico, nato a Roma nel 1902, firma il primo lungometraggio nel 1935 (La freccia d’oro); La compagnia della teppa è il suo ultimo lavoro compiuto. Gira in seguito Capitan Tempesta
(gennaio 1942; 85 min.), pellicola ugualmente mediocre, ambientata nel 1570 durante l’assedio turco alla fortezza veneziana di Famagosta. L’autore deve abbandonare il set prima ella fine delle riprese e il film viene completato da Umberto Scarpelli.
Le avventurose vicende dell’eroico e misterioso capitan Tempesta, ossia Eleonora (Carla Candiani) figlia del governatore di Famagosta e del suo fidanzato Marcello (Adriano Rimoldi), caduto prigioniero dei Turchi, si
trascinano stancamente tra scenari raccogliticci, personaggi rigidi come marionette e penosi “effetti speciali” (velieri e galeoni resi da barchette in una vasca....). Il soggetto deriva da Emilio Salgari ed è stato ridotto per
lo schermo da Alessandro De Stefani. Il lavoro cerca di coniugare intrattenimento e spirito eroico, tenta dunque di associare l’eroismo dei Veneziani in lotta contro i “barbari” con i tragici eventi coevi di un’Italia da
poco in guerra contro i russi. Ma si tratta in fondo di assonanze appena accennate e mal riposte considerando la rozzezza complessiva dell’opera. Tanto più poi che gli autori descrivono la situazione della fortezza assediata
come assai problematica, finendo per mostrare addirittura un angoscioso clima di penuria alimentare e quindi evocando in modo ben più significativo i problemi del “fronte interno” italiano. Pertanto più che incentivare il
popolo italiano alla lotta, il lavoro finisce con l’avere alcune parentesi deprimenti (si veda anche l’orribile sequenza dei prigionieri accecati e fatti lavorare come bestie, l’unica realmente memorabile del film a causa della
sua insolita crudezza) tutt’altro che utili alla propaganda del regime. Corrado D’Errico muore giovanissimo nel settembre 1941.
Uno spirito identico attraversa Fra’ Diavolo
(marzo 1942; 88 min.), pellicola ispirata al testo letterario di Luigi Bonelli e Giuseppe Romualdi, sceneggiata e diretta da Luigi Zampa. Il lavoro è brutto, goffo e inverosimile quanto quelli di D’Errico; alla Compagnia della Teppa lo unisce l’insolita critica al periodo delle rivoluzioni illuministe e napoleoniche in Italia. Le imprese del bandito Michele Pezza detto Fra’ Diavolo sono incorniciate tra i due episodi franco-giacobini nel regno delle due Sicilie: la creazione della repubblica napoletana (1799) subito repressa dalla reazione borbonica e l’invasione dell’armata di Massena (1806) che sbaraglia in modo più serio le forze conservatrici e fonda un nuovo regno delle due Sicilie a guida francese (la corona va a Giuseppe Bonaparte; periodo 1806-15). I Francesi dunque sono gli spietati, opportunistici invasori che opprimono la popolazione napoletana mentre Pezza viene dipinto come un eroico bandito che si occupa soprattutto di difendere il popolo dallo straniero e che collabora con le forze monarchiche per ristabilire l’ordine. Qualcosa di vero ovviamente c’è: le bande del brigante realmente sabotarono l’arrivo dei nuovi occupanti e si unirono a quelle borboniche, ma certamente la versione edulcorata di un bandito gentiluomo e galante, esclusivamente impegnato a difendere il benessere della propria gente è risibile. Zampa si allinea alle esigenze contingenti del regime fascista e porta il proprio contributo al clima ferocemente antifrancese che in Italia si respira dalla metà degli anni trenta. Come per La
compagnia della teppa, anche in questo ordinario lavoro propagandistico l’unico elemento di curiosità consiste nel vedere capovolta l’egemone storiografia massonica: i Francesi sono dunque invasori come altri che, con la
scusa del liberalismo, occupano paesi stranieri e li mettono a sacco. Perfino gli incolti briganti e gli indolenti lazzaroni sono meglio di loro in quanto difendono la propria terra e la propria cultura. Il semplice populismo
fascista trova così nuove conferme. Luigi Zampa nasce a Roma il 2 gennaio 1902. Negli anni trenta si diploma in regia al Centro Sperimentale di cinematografia e collabora come sceneggiatore ad alcune pellicole di Mario
Soldati e Mario Camerini. L’esordio cinematografico in qualità di regista avviene con il film L’attore scomparso (1941).
Propaganda anitfrancese e soprattutto antiinglese si ritrova nel disastroso Luisa Sanfelice
(settembre 1942; 75 min.) film d’esordio di Leo Menardi che si basa nientemeno che su un soggetto di Vittorio Mussolini (e Franco Riganti), rielaborato in sceneggiatura da altri. Vi si rievocano sommariamente la Napoli borbonica e poi brevemente repubblicana del 1798-99, facendo perno su una spaurita e confusa Luisa Sanfelice (Laura Solari), amica del conservatore Gerardo Baccher (Carlo Ninchi), figura saggia e leale, ma anche amante del rivoluzionario da salotto Mario Ricci (Massimo Serato), un mezzo gaglioffo sempre pronto a fuggire di fronte alle avversità. In un contesto storico totalmente confuso (inutile tentare qualunque confronto con i fatti realmente documentati) la giovane finisce sul patibolo (Palermo, 11 sett. 1800), insieme ai repubblicani, mentre ogni colpa viene addossata agli stranieri: i Francesi sfruttano la rivolta per insinuarsi a Napoli mentre gli Inglesi del malvagio Nelson (Osvaldo Valenti) governano la repressione con mano spietata all’insaputa del re Ferdinando IV e contro le indicazioni dello stesso cardinale Ruffo.
Nel regno dei Savoia era impossibile prendere le parti dei repubblicani, descritti come un gruppo di persone velleitarie (ci sono tutti: Mario Pagano, Vincenzo Cuoco, Eleonora Fonseca Pimentel e perfino Domenico Cimarosa),
anche se qualche indulgenza appare chiara (d’altronde il fascismo è stato rivoluzionario, simpatizzante di un certo mazzinianesimo ed è stato perfino repubblicano negli anni d’esordio) tanto che il saggio Baccher, prima di
venire giustiziato (Napoli, 13 giu. 1799), perdona i suoi nemici e li descrive come ferventi Italiani che sbagliano in buona fede. Dichiara infatti: <Combattiamo gli uni e gli altri per la stessa idea. Io dicevo re
Ferdinando, volevo dire Italia; essi dicono repubblica, vogliono dire Italia”. Insomma in questo terribile fumettone, popolato di irrilevanti e sfocate macchiette, tutti gli Italiani - monarchici o repubblicani, conservatori o
liberali - si salvano (con l’eccezione dello sciagurato amante della Sanfelice) mentre ogni ignominia proviene da mano inglese ossia dai rappresentanti di quel popolo che ancora resiste alle forze dell’Asse (ai Francesi, nel
1942 già sconfitti e sottomessi, si rivolge una critica più generica, riferita ai loro noti furti di grandi opere d’arte italiane). Una frastornante colonna snora “operistica” di Renzo Rossellini rende l’insieme ancor più
sovraccarico e stucchevole. Il film di Menardi, con il suo sfrenato, acritico nazionalismo, costituisce un classico esempio di cinema di sterile propaganda bellica, prima ancora che fascista, che distorce senza alcun
rispetto gli eventi del passato storico per adattarli alle esigenze del presente. Di Luisa Sanfelice si occupò, tra gli altri, Benedetto Croce nel saggio giovanile Luisa Sanfelice e la congiura dei Baccher (1888).
Leo Menardi, nato a Torino nel 1903, lavora nel cinema dai primi anni trenta (è aiutoregista di Righelli nel primo film sonoro italiano, La canzone dell’amore,1930); nella seconda metà del decennio è direttore di
produzione in alcuni film di Blasetti. Esordisce alla regia con Laura Sanfelice.
Un’evidente propaganda antiamericana anima invece la commediola Dopo divorzieremo
(settembre 1940; 90 min.) di Nunzio Malasomma, su sceneggiatura del regista, del solito Alessandro De Stefani (il soggetto è suo) e di Sergio Amidei. Vi si immagina un fantasioso collegio-albergo nel quale alloggiano le commesse di un grande magazzino di New York e che simboleggia la schiavitù materialista che affliggerebbe quel sistema socioeconomico. Le ragazze vengono assunte solo a patto che non abbiamo intenzione di sposarsi e soprattutto di fare figli (attività dannose per l’economia della ditta). Pertanto nell’albergo vige il divieto assoluto di ricevere fidanzati, pena l’immediato licenziamento. Da queste premesse si svilppa la storiella di Vivi Gioi che adesca Amedeo Nazzari (un vagabondo che suona il violino per la strada) e lo fa sposare a Lilia Salvi, la compagna di stanza (la quale, lavorando per una ditta meno severa, può ospitare uomini in camera... ) con la promessa che, in seguito, divorzieranno. In tal modo Nazzari diventa un inquilino della locanda-prigione, corteggiato da tutte (soprattutto dalla lasciva e matura direttrice); finirà per apprezzare la moglie che ha casualmente sposato e col rendere effettivo il matrimonio-burla.
L’Italia è in guerra da pochi mesi e gli USA vi entreranno solo tra un anno e mezzo; tuttavia gli Stati Uniti sono la gigantesca retrovia della Gran Bretagna e da quel paese bisogna ora prendere radicalmente le distanze,
dopo avere con esso “flirtato” lungamente fino alla metà degli anni trenta (e oltre). Ecco allora che il cinema si preoccupa di inventarsi un universo sociale americano tirannico e amorale, dominato da donne “maschili”, che
hanno rifiutato la maternità, che lavorano come bestie, portano i pantaloni e riescono perfino a comandare l’altro sesso con grande disinvoltura (Nazzari è uno spiantato, pronto a far qualunque cosa per un pasto e un tetto
sicuro; per tutto il film prende ordini dalle due ragazze, ed esegue senza fiatare, limitandosi a qualche sommesso brontolio). Insomma la donna lavoratrice dei grandi magazzini americani si colloca agli antipodi del modello
femminile fascista e questa pellicola modesta ma significativa (interpretata comunque in modo brillante) ricorda agli Italiani che gli Usa (per ora solo potenziali nemici dell’Asse) non rappresentano una nazione nel senso
italiano del termine e sono piuttosto una grande fabbrica a cielo aperto (anche se di cielo, qua non se ne vede neanche uno spicchio, trattandosi di un film interamente girato in studio). La donna americana dunque appare
prigioniera di un ruolo meramente produttivo, all’interno di un sistema sociale disgregato, afflitto dall’avidità e incapace di trasformarsi in comunità nazionale. Sebbene il film sia un prevedibile compitino di propaganda
contro lo “stile decadente” delle “vetuste” democrazie, accettabile nelle sue assurdità solo da un pubblico estremamente ingenuo, d’altro canto la visione di una società americana ingabbiata entro l’unica prospettica del
rendimento economico e priva di un’etica solida ovvero capace di dominare la volubilità delle passioni (nelle sale italiane degli anni quaranta, il divorzio viene percepito come una pratica scandalosa e illogica), coglie
parzialmente nel segno. Sono certamente pochissimi gli spettatori di Dopo divorzieremo che sono in grado, in quegli ultimi mesi del 1940, di intuire che quella paranoia economicista e quel modello femminile disinibito e capriccioso sarebbero diventati, negli ultimi decenni del Novecento, una realtà anche europea.
Nunzio Malasomma, nativo di Caserta (1894), dopo avere lavorato come giornalista e come critico cinematografico tra la fine degli anni dieci e i primi anni venti, esordisce alla regia nel 1923. Dal 1924 al 1930 firma
numerose regie in Germania mentre negli anni trenta lavora in Italia, distinguendosi soprattutto nel genere della commedia brillante. L’anno seguente Malasomma ripropone l’accoppiata Amedeo Nazzari-Lilia Salvi in Scampolo
(ott. 1941; 85 min.) una modesta commedia sentimentale (tratta dall’omonima commedia, 1915, di Dario Niccodemi) priva di allusioni politiche e sociali. In una Roma degli anni dieci (numerose le sequenze girate in luoghi caratteristici) una povera giovinetta soprannominata Scampolo (L. Salvi) vive per strada e guadagna qualche soldo consegnando a domicilio biancheria lavata; incontra così un brillante architetto (A. Nazzari) che convive con un’amante opportunista e brontolona (Luisa Garella). Riuscirà dapprima a farsi assumere come cameriera (combinando guai a ripetizione) ed, infine, a conquistare il proprio datore di lavoro.
Come si nota, Malasomma ha sostanzialmente rovesciato la situazione iniziale di Dopo divorzieremo. La prevedibile narrazione però non offre (a parte i già citati esterni) alcun elemento di interesse: la Salvi
bamboleggia oltre il consentito, Nazzari interpreta il consueto stereotipo dell’uomo di valore in cerca di approvazione, le sue vicende lavorative (un importante progetto inviato ad un concorso) sono pretestuose e il carattere
roseo e zuccheroso dell’insieme diviene presto stucchevole. Della commedia di Niccodemi, interpretata con grande successo da Dina Galli nella seconda metà degli anni dieci, esisteva già una versione filmica, firmata da
Augusto Genina nel 1928. In seguito compariranno Scampolo 53 (G. Bianchi, con Maria Fiore) e. nel 1957. una versione tedesca diretta da Alfred Weinenmann con Romy Schneider, presentata nella penisola con il titolo fuorviante Sissi ad Ischia.
In seguito Malasomma gira un secondo film di propaganda antiamericana, Giungla
(gennaio 1942; 97 min.), nel quale si ribadisce che l’universo americano è luogo dell’ingiustizia e della illibertà. La pellicola, basata su un soggetto di A.R.Franck sceneggiato dal regista e dal solito Amidei, racconta una strampalata vicenda ambientata in un’isola africana colonizzata dagli inglesi nella quale un’epidemia malarica miete vittime a ripetizione. In un avamposto nella giungla, tenuto in scacco da una tribù di selvaggi che ammazzano, più o meno, chiunque vi si rechi, le autorità incredibilmente sciocche continuano a spedirvi unità mediche indifese. Nell’isola giunge un nuovo medico, americano, che vive sotto falso nome in quanto ricercato per omicidio negli USA (aveva ammazzato il docente universitario di cui era assistente). Qui ritrova la fidanzata (Vivi Gioi) di un tempo e un antico rivale: i due medici (gli atori tedeschi Rodolfo Fernau e Alberto Schönhals) partono per la giungla, riscono a tener testa ai selvaggi fino a quando le autorità locali non vi giungono per arrestare l’americano (nel frattempo scoperto). A quel punto il capotribù, che si fidava solo di quel medico, assedia i nuovi venuti e li minaccia di morte. Nel lieto fine “a sorpresa” si scopre che il protagonista è innocente: aveva ucciso solo per legittima difesa, durante una colluttazione con il professore che si era appropriato dei suoi lavori scientifici e che lo minacciava con una pistola.
In questo stravagante film - girato anche in versione tedesca, affinché pure il popolo germanico potesse rendersi conto delle malvagità che si annidavano tra le aule universitarie d’oltre Atlantico - lo stile riprende
l’espressionismo tedesco o, se si preferisce, il noir americano che da quest’ultimo, in parte, deriva. In un contesto claustrofobico e animato da luci contrastate e violente, si consuma questo dramma convenzionale, nel quale i
protagonisti vivono oppressi da colpe commesse in un misterioso passato. Così il recente stile filmico americano viene utilizzato proprio per criticare l’America, i suoi egoismi e le sue presunte ingiustizie. Il principale
elemento di interesse consiste dunque nella critica al sistema angloamericano: i colonialisti inglesi dell’isola sono gente inetta mentre il sistema educativo americano è in mano a professori disonesti i quali rubano le loro
idee a volonterosi assistenti e li minacciano di morte. In tal modo gli elementi migliori di quel sistema, come il proagonista del racconto, sono costretti a fuggire dagli USA e a vivere sotto falsa identità. Insomma la
situazione opposta a quella odierna quando invece numerosi (così sembra, ma sono notizie tutte da verificare, vista la fanatica esterofilia massonica di numerose nostre testate giornalistiche) italiani sarebbero costretti a
emigrare nelle università americane per poter svolgere, senza ostacoli burocratici e baronali, le proprie ricerche. A tutto ciò si aggiunga che il rivale in amore del medico, il quale conosce perfettamente l’esatta
meccanica degli eventi criminosi, tace per liberarsi dello scomodo collega. La giungla del titolo, più che indicare l’isola africana, sembra quindi riferirsi metaforicamente all’universo americano. Quando
Malasomma gira questo insolito film, gli USA non sono ancora entrati in guerra, ma ormai si intuisce che l’evento è imminente. Così allorché Giungla arriva nelle sale, l’Italia è in guerra con gli Americani da poco più di un mese e l’atmosfera del racconto risulta perfettamente allineata al clima politico generale.
Quando esce nelle sale La fanciulla dell’altra riva
(settembre 1942; 80 min.), film scritto e diretto da Piero Ballerini, l’Italia è in guerra con gli Usa da quasi un anno. Il film, un modesto fotoromanzo destinato a un pubblico ingenuo, prevalentemente femminile, propone un intreccio giallorosa con finale tragico. Il capitano Blyth (Giulio Lazzarini), un ladro internazionale di origini americane, progetta un colpo in un lussuoso albergo svizzero posto su un lago (di Lugano o di Locarno, il riferimento è generico) al confine con l’Italia. Incontra però una dolce italiana (Maria Mercader), assai malata, con la quale vive un’intensa storia amorosa. Vorrebbe allora desistere dalle proprie intenzioni criminali ma la sua complice (Milena Penovich), ex newyorchese dal duro volto slavo, lo ricatta e rivela all’amata le vera identità di Blyth. La donna muore di crrepacuore e Blyth, sconvolto, si costituisce al poliziotto (Luigi Pavese) che gli dà la caccia.
La fanciulla dell’altra riva è un film inerte quanto a costruzione narrativa, dialoghi e interpretazione. Appare invece denso di contenuti propagandistici: gli Usa sono una terra dove abbondano i malviventi, alcuni dei quali hanno il volto slavo degli attuali nemici orientali (la recente campagna jugoslava). Essi progettano crimini nella vicina Svizzera (nell’Italia facista sarebbe impossibile...) mentre una angelica fanciulla italiana (vive sulla riva italiana del lago) è in grado di redimere il ladro, abbandonandosi a lui in una scandalosa relazione extramatrimoniale (Ballerini inquadra maliziosamnte il letto degli amanti nella loro romantica locanda e il Centro Cattolico infligge il prevedibile “escluso” alla pellicola). Sarà il dolore per la perdita dell’amata a convincere Blyth a costituirsi alla giustizia.
La fanciulla dell’altra riva è dunque un compitino totalmente inverosimile, ligio alle direttive del Ministero della Cultura e, al tempo stesso, incapace di costruire personaggi ed eventi degni di una qualche attenzione filmica. Ballerini aveva saputo fare molto meglio ne La fuggitiva (1941; vedi) e saprà parzialmente riprendersi nel successivo Sempre più difficile (1943; vedi).
testo scritto nel 2005; ultimo aggiornamento: dic. 2013
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