L'ape regina, La donna scimmia e Il maestro di Vigevano

L'ape regina, La donna scimmia, Controsesso, Oggi domani dopodomani, Le ore dell’amore, Le monachine, Il maestro di Vigevano, Alta infedeltà, Casanova ‘70: il declino del maschio (1963)

                  "Ecco i tisici dell'anima: sono appena
                   nati, che già cominciano a morire e
                   anelano a dottrine della stanchezza e
                    della rinuncia."
                  F. Nietzsche, Also Sprach Zarathustra

Dopo la trilogia spagnola (El pisito, 1958; Los Chicos, 1959; El cochecito, 1960) Ferreri rientra in Italia nel 1961 e firma un episodio all'interno del film-inchiesta Le italiane e l'amore. L'anno seguente collabora alla sceneggiatura di Mafioso di Lattuada mentre il vero esordio italiano avviene con il clamoroso Una storia moderna. L'ape regina (aprile 1963; 90 min.). Il racconto grottesco (la sceneggiatura, derivata da un'idea di Goffredo Parise, viene stesa insieme allo scrittore spagnolo Raphael Azcona, abituale collaboratore del regista fin dalla prova d'esordio) descrive l'odissea del povero Alfonso (Ugo Tognazzi), da giovane scapestrato e libertino a marito modello, vampirescamente "sfruttato" dalla cattolicissima moglie Regina (Marina Vlady) come semplice "operaio" riproduttivo e infine emarginato in una piccola stanzetta-ripostiglio, malato e stanco; il tutto calato in una Roma ultracattolica, dominata dall'ossessiva presenza del cupolone di San Pietro. Ferreri delinea una provocatoria riflessione sulla cultura religiosa prevalente come cultura di morte, colpevole di una costante "denigrazione" dei più semplici e naturali valori della vita: dal chiuso soffocante delle stanze dell'appartamento di Regina (posto all'ombra del cupolone), alle sacrestie popolate di scheletri, alla venerazione di grottesche salme di santi, ai ritiri spirituali in cui si loda "sorella morte" il quadro è graffiante ed esplosivo anche nella "moderna" Italia di Giovanni XXIII e delle aperture di governo alle forze socialiste di Nenni (nel novembre 1963 il Psi entra a far parte del primo governo Moro). Il disgraziato Alfonso cerca di reagire come può, soprattutto attraverso deliziosi "peccati di gola" volti a ristabilire una sana sensualità all'interno di un panorama ideologico degradato (al ritiro viene servito un risotto immangiabile, simbolo ironico e lieve del contemptus mundi che pervade la cultura cattolica). Anche la presunta sensualità di Regina si rivela esclusivamente finalizzata alla procreazione ovvero al compito stabilito dalla morale e non una fonte di gioia in se stessa, anche perché praticata dapprima con ossessiva ripetitività fino all'ottenimento del risultato e poi di colpo abbandonata con ipocrite scusanti. La pellicola di Ferreri e Azcona è un irridente canto funebre intorno alla vitalità progressivamente annichilita di un uomo qualunque, intrappolato e ucciso da una bigotta applicazione dell'etica cristiana.
L'ape regina, questo era semplicemente il titolo originale, incontra seri ostacoli in censura: bocciato in prima e seconda istanza perché "contrario al buon costume e osceno nella sua impostazione", il film esce poi tagliato e modificato in alcuni dialoghi; inoltre al regista viene imposta una ridicola dichiarazione  (compare prima dei titoli di testa) in cui egli allude al racconto come a un caso estremo e afferma di aderire ai "solidi ed immutabili principi della morale e della religione", dichiarazione evidentemente estorta e resa ridicola dalla successiva spietata trattazione dell'argomento. Probabilmente anche a causa delle polemiche suscitate, il primo film italiano di Ferreri si trasforma in un notevole e inatteso successo commerciale.
Lo stile filmico di Ferreri é scarno e freddo, quasi anonimo e documentario, il che aggiunge un tocco surreale a una narrazione nei cui contenuti invece risulta palese l'intenzione iperbolica; l'efficace contrasto tra sguardo oggettivo e materia simbolico-caricaturale, volto a enfatizzare figure e situazioni "mostruose", appare debitore verso il cinema di Bunuel: il migliore Ferreri in fondo é uno dei pochi autentici seguaci della difficile poetica del maestro spagnolo che ha da poco firmato un capolavoro blasfemo come Viridiana (1961).
L'apertura del racconto illumina alcuni squarci dell'Alfonso di ieri, godereccio, disinibito, amante delle moderne comodità e degli spazi arredati con gusto geometrico e razionale; le due frivole amiche che civettano nell'ufficio del protagonista sono gli ultimi segni di una stagione conclusa. Con gli interni luminosi dell'appartamento e del negozio di auto del protagonista contrastano quelli polverosi e antiquati della casa di Regina, popolati da foto di morti e da reliquie di vario genere: è il "sacrario" della famiglia della sposa, posto all'ombra di San Pietro e popolato da fervidi sacerdoti. Vi spira un'aura di asfissiante santità la quale si prolunga nella visita alla sacrestia nella sequenza successiva al matrimonio. Qui, tra scheletri in agguato, gli sposi novelli visitano la salma di santa Lia, una donna che, per non soggiacere ad uno stupro, implorò Dio che la salvò facendole crescere un'orrenda barba che scoraggiò l'assalitore (un'evidente caricatura di quella Maria Goretti canonizzata nel 1950 anche per tentare un'estrema difesa della morale sessuale tradizionale, sottoposta a un aggressivo processo di liberalizzazione). Il bigottismo dunque si coniuga con atteggiamenti vagamente tetri e sinistri quali l'adorazione di una salma e di un'immagine lesiva dell'ordine naturale quale quella di una donna barbuta (tema che colpisce l'autore al punto da farne l'oggetto del successivo La donna scimmia), pervenendo in nome dei dogmi cattolici a un coerente disprezzo della sensualità e della bellezza.
Regina la quale, coerentemente con gli ideali familiari, non si era concessa al fidanzato prima del matrimonio, subito dopo invece impone al marito un'estenuante routine sessuale il cui motto campeggia sulla camicia da notte della donna: "non lo fo per amor mio ma per far piacere a Dio". Dunque il menage familiare è scandito da questa superattività notturna imposta dall' "ape regina" al suo "fuco" per mere finalità riproduttive. Così Alfonso finisce con l'odiare una gioia che è diventata obbligo finalizzato ad altro e si rifugia pateticamente nell'alta cucina, un piacere che può gestire secondo i propri desideri quando la moglie non fa irruzione nel suo ufficio dove si é nascosto proprio per mangiare ed evitare l'ennesimo accoppiamento. L'apologo intorno alla persecuzione di Regina ai danni del sempre più intimorito e sfiancato Alfonso (al quale ha fatto prudentemente sottoscrivere un'assicurazione sulla vita) cessa finalmente quando ella é certa di essere gravida. Di colpo allora l'uomo diviene una presenza marginale e fastidiosa.
Nell'ultima parte il tema della morte diviene ossessivo: Alfonso visita la cappella funeraria della famiglia di Regina e gli viene indicato il posto già preparato per accogliere la sua bara; l'uomo in preda ad una crisi claustrofobica fugge, si perde nei labirinti del cimitero dominati da croci e lapidi sotto una luce accecante e si sente male (la sarcastica colonna sonora, fatta di freddi, banali motivetti, diviene qui assordante, segnalando l'impietoso e derisorio sguardo dell'autore sul suo disgraziato e debole personaggio). Durante la convalescenza in campagna, sempre presso sacerdoti parenti di Regina che lavorano declamando rosari, implora dalla moglie un rapporto sessuale; ques'ultima, pur comprendendo il debole stato del marito, gli si concede, dandogli il colpo di grazia. Dopo l'ennesimo infarto Alfonso rimane bloccato nel letto, viene riportato a casa ed esiliato in una stanzetta (lo spazio vitale del protagonista è andato progressivamente restringendosi dall'inizio del film: da celibe inquilino solitario e felice di un luminoso e moderno appartamento, diviene uno degli abitanti della oscura casa di famiglia della moglie, é privato del monopolio della gestione dell'ufficio che passa presto nelle sicure mani di Regina ed infine viene confinato nell'angusta, suddetta stanza: la repressione vitale si manifesta anche in questo chiudersi degli spazi intorno all'uomo) in attesa della morte che giunge di lì a poco. Il primo piano della  florida e crudele moglie che accoglie la richiesta suicida di Alfonso e accelera così la fine del marito è magnifico: esso esprime la raggiunta pienezza vitale della donna, decisa ora a liberarsi dell'inutile e ingombrante "fuco". Nella stanzetta l'amico e socio Riccardo lo piange nell'unico momento commosso di una pellicola fredda e irridente, segnata nella colonna sonora da motivetti festosi, indizio dell'ottica sarcastica che governa il film. Una fulminea immagine della lapide indica l'avvenuta morte del protagonista mentre un altrettanto sintetica sequenza del battesimo del nuovo nato, circondato dal solito piccolo esercito di ecclesiastici, ci avvisa che la storia continua identica: l'ape Regina pone al neonato il nome di Alfonso, sottintendendo così per il figlio un percorso esistenziale simile a quello del padre.
L'ape regina non è una commedia sui problemi dell'erotismo e del matrimonio come spesso si é scritto; al contrario è una caustica riflessione intorno al carattere antivitale di numerosi aspetti dell’ideologia cattolica, al suo amore per un presunto mondo dietro il mondo, perfettamente stigmatizzata dal Nietzsche dello Zarathustra in capitoli dai titoli eloquenti come "Di coloro che abitano un mondo dietro l'altro" e "Dei predicatori di morte". Nella caricatura grottesca delle norme etiche di una religione sessuofobica, nonché attraverso una discreta misoginia nella visione della donna quale essere acritico che con puntiglio fanatico riproduce l'ideologia predominante, l'autore dimostra come la rigida applicazione di quelle norme di comportamento instaurino un rapporto dissonante e conflittuale tra l'etica individuale e l'universo degli istinti naturali. Il diffondersi sempre più sinistro di un senso di morte nella pellicola tende a definire, in maniera provocatoria, la concezione cristiana come un'incomprensione denigratrice dei valori naturali dell'esistenza e un anelito al dissolvimento dell'io in direzione di tanto celebrate quanto ipotetiche realtà superiori.
"La vita é un passaggio, bisogna essere sempre pronti" dichiara l'anziano sacerdote che ospita il malato Alfonso e la sua affermazione individua il vero Leitmotiv del film. La censura democristiana la quale non a caso si accanì contro questa pellicola fino ad ottenerne un parziale depotenziamento, aveva perfettamente compreso la sua intelligente pericolosità.
Esplicitata la visione umana di Ferreri e Azcona, bisogna tuttavia aggiungere una serie di riflessioni volte a criticare l’impostazione ideale dell’opera.
Innanzitutto la dominante figura femminile incarna un personaggio mostruoso e impossibile nel quale si incontrano differenti stereotipi. Regina è il frutto del suo tempo, è una donna acritica, priva di una visione personale del mondo. Ella dunque rappresenta la visione cattolica, spinta verso il parossismo più caricaturale. Ma d’altro canto Regina crea la vita mentre Alfonso, con il suo accennato modernismo vagamente epicureo, rischia di sprecare la propria esistenza in un orizzonte meramente consumistico. Dunque il rigido cattolicesimo di Regina costituisce una sorta di salvezza per Alfonso, evitandogli un’esistenza giocata sui più ovvi e transitori piaceri materiali.
Inoltre della visione cattolica gli autori prendono in prestito solo la sessuofobia e la visione riproduttiva laddove nell’impostazione cattolica correttamente applicata la donna è sostanzialmente sottomessa al marito. Questo aspetto manca (vanificherebbe l’intero film) e con esso viene a mancare la credibilità complessiva del racconto e del suo apparato critico - satirico.
D’altro lato anche il versante opposto appare largamente falsato: il lavoro (la concessionaria di auto), da luogo della fatica e dell’alienazione si trasforma in luogo del godimento mentre la casa familiare diviene residenza dell’incubo e dell’orrore. Per questa via faziosa e distorsiva, nettamente tracciata, gli autori (largamente inconsapevoli di ciò che fanno) procedono ad ampie falcate verso l’elogio di quella società del consumismo frenetico e spersonalizzante che andrà prendendo corpo nei decenni seguenti, per la gioia della nomenclatura plutocratica. La materna casalinga cattolica è dunque un modello lugubre da cancellare e da riconvertire in donna in carriera senza prole, sempre per la felicità della minoritaria classe dirigente che per tale via vede raddoppiare la massa di salariati che spende la propria esistenza sull’altare dello “Sviluppo”, del Pil e (fatto meno pubblicizzato) della potenza della classe padronale.
La pellicola dunque, arguta e divertente, è però anche radicalmente fuorviante: nel suo storpiare il corretto disegno di un menage familiare, nel suo apparente aggressivo anticonformismo sta in realtà lavorando per i Potenti di turno. L’unico aspetto centrato e profetico del film è semmai la prevalenza della donna nei confronti di un impaurito capofamiglia. Il vero requiem che qui si sta intonando è infatti quello dell’autorità maschile: il povero Alfonso, costretto a nascondersi in ufficio per avere un po’ di quiete, prelude all’uomo dimezzato dell’età incombente dell’ugualitarismo più estremista e del femminismo più sguaiato. In tale età, la dissoluzione della famiglia - auspicata da Ferreri e dai poteri forti dei grandi gruppi economici - è una conseguenza ineludibile. Demotivato l’uomo, la donna, assai più influenzabile, diverrà una facile pedina nel gioco complessivo della modernità consumista; la conseguenza palese è la scomparsa della donna - madre (appunto l’odiata Regina) e l’approdo a una società invecchiata, stanca e assediata dalle merci più futili.
In definitiva c’è qualcosa di più mortifero dei dogmi cattolici: il “vangelo” modernistà della produttività.

Il successivo La donna scimmia (gen. 1964; 95 min.), sceneggiato dal regista ancora con Rafael Azcona, ripropone alcuni temi del film precedente, rimodulati all’interno dell’impalcatura narrativa de La strada (Fellini, 1954) e. più in generale, del cinema della prima metà degli anni cinquanta sul mondo della rivista (vedi).
Antonio Focaccia (Ugo Tognazzi) è un mezzo impresario che vive di espedienti nella Napoli dei vicoli. Incontrata una fenomenale donna barbuta (Annie Girardot) presso un convento, riesce a trascinarla con sé e ad impostare su di lei un assurdo numero da circo (per la verità più adatto all’universo dell’avanspettacolo del decenni precedente che non ai più smaliziati spettatori degli anni sessanta). Tra i due, carnefice e vittima, si stabilisce un rapporto di forte dipendenza, al punto che Antonio decide di sposare la donna-mostro pur di non perderla. Nel frattempo è sopraggiunto anche il successo: a Parigi la donna barbuta interpreta un numero segnato da una forte carica erotica nel quale una novella Eva attrae a sé il “cacciatore” Antonio (che le ha appena ucciso il padre scimmione), lo seduce con proprie magnifiche nudità e lo uccide. Questo numero di varietà, realizzato in modo perfetto, è il vero cuore pulsante del racconto (chissà perché molta critica si è riferita ad esso parlando di cedimenti commerciali e volgarità...): da quel momento è evidente che i rapporti tra servo e padrone si sono capovolti e il film vira verso le situazioni già illustrate ne L’ape regina. Ora Antonio è disposto ad accontentare in tutto la coniuge la quale - nella migliore versione francese - ha un figlio, perde completamente la peluria e costringe il lavativo Antonio ad andare a fare lo scaricatore al porto per mantenere la famiglia (un secondo figlio è in arrivo... ).
La parabola è dunque perfetta: la donna-scimmia è, come l’ape regina, un essere mostruoso soprattutto perché riesce ad incatenare l’uomo e a sotttometterlo, dopo una lunga e sapiente manovra di accerchiamento.
Le altre tematiche – più sensazionalistiche – sono in fondo secondarie: la donna barbuta (rirpesa da un caso reale) certamente attira l’attenzione delle folle (da secoli le deformità generano morboso interesse) ma la cosa è banale come pure l’intera impalcatura (solo quella però, mancando sia la complessa dialettica di angeli e demoni, sia la poesia del trascendente) ripresa dal modello felliniano de La strada (anche la colonna musicale è tipicamente circense) non è così rilevante. Tra l’altro la versione italiana ricopia il film felliniano fino alla fine: durante il parto la donna scimmia muore e Antonio (come Zampanò) la piange disperata. Vi è inoltre un secondo finale, più cinico e ferreriano, in cui il coniuge, riavutosi dal trauma, torna ad essere il furbastro dell’inizio e utilizza il corpo imbalsamato della moglie per allestire un nuovo baraccone da fiera. Questo finale nero (restaurato nella versione in dvd), tanto lodato dai critici, in fondo è prevedibile, azzera la vicenda, riconferma il cinismo del protagonista (che è poi quello titpico di tutti gli impresari di rivista del cinema italiano degli anni quaranta e cinquanta) e chiude circolarmente su una scena di grande effetto, anche se alquanto artificiosa.
La vicenda, come si è cercato di dire, illustra innanzitutto la lenta e inarrestabile ascesa della donna nei confronti dell’uomo, evoluzione di cui lo sketch parigino è una sorta di sintesi. Antonio infatti si converte gradualmente alla logica familiare e matriarcale, fino ad accettare di andare a lavorare (ossia di perdere la propria libertà) per accontentare la moglie. La svolta cinica del finale italiano (in realtà censurato dal produttore Ponti) è in evidente conflitto con il percorso umano della coppia.
Ferreri insomma continua a rappresentare figure femminili dominanti, non particolarmente simpatiche, e figure maschili in declino: lo stile filmico è talmente scarno, freddo ed essenziale da non lasciar trapelare le simpatie dell’autore. A parte il radicale anticlericalismo (anche in questo film suore e santini sono guardati con diffidenza e sarcasmo), l’autore fotografa una realtà manifesta - il tramonto dell’autorità maschile negli anni sessanta – senza prendere una posizione precisa. In fondo tutti i suoi personaggi sono figure medie o mediocri con le quali il pubblico è invitato a non identificarsi.
Il discorso ferreriano sulla supremazia femminile prosegue in Controsesso (nov. 1964; 112 min.), pellicola in tre episodi che in origine era stata interamente affidata al regista. Dopo le peripezie subìte da La donna scimmia, Carlo Ponti preferisce annacquare il discorso ed affidare due episodi ai più prevedibili Franco Rossi e Renato Castellani.
Il professore – l’episodio di Ferreri (di gran lunga il migliore), interpretato ancora da Ugo Tognazzi – racconta la “contro” sessualità di un professore di provincia (siamo a Spoleto) il quale, circondato da vecchi cimeli, canti fascisti e due anziane donne che lo accudiscono, si confronta quotidianamente con una classe magistrale (tutta femminile) dove prevalgono i costumi nuovi, l’irriverenza, l’allusione sessuale esplicita, la sfacciataggine. Il nostro eroe, abituato a tenere ogni cosa sotto un severo controllo, nasconde a se stesso le proprie perversioni sessuali e cerca poi di soddisfarle con sistemi contorti che giustificano razionalmente la sua ricerca del piacere. Pertanto, al fine di evitare che durante i compiti in classe le ragazze escano dall’aula (per copiare da testi nascosti qua e là), installa una comoda (un oggetto d’altri tempi) all’interno della classe, nascosta dentro un mobile. Così potrà sentire il rumore dell’urina che finisce in un vaso di maiolica. Una ragazza sta al gioco, ma poi lo affronta per strada: il professore-padrone, sconvolto, si ritrova servo della sua serva...
I temi della solitudine (il professore, privo di relazioni umane, vive sepolto tra oggetti del passato) e del declino del maschio vengono trattati con la consueta maestria da Ferreri. Proprio quando l‘uomo crede di avere “piacevolmente” vinto la propria piccola battaglia con l’altro sesso, di averlo, cioé, soggiogato e perfino umiliato, si ritrova smascherato da una ragazzina. Il controllo sulla realtà è definitivamente perduto e il professore si ritrova in balia degli eventi (non diversamente da quanto accadrà al più simpatico maestro Mombelli,  Il maestro di Vigevano; vedi più avanti)
Anche gli altri due episodi mostrano figure maschili (affidate a Nino Manfredi) succubi di donne autoritarie e sicure di sé. In Cocaina di domenica, di Franco Rossi, (su sceneggiatura di Zavattini ed altri) un marito prende ordini da una moglie (Anna Maria Ferrero) avarissima la quale, ritrovatasi tra le mani, per caso, una forte dose di cocaina, anziché buttarla, preferisce farne uso. Seguono le prevedibili stramberie. Anche quando torna in sè, la donna continua a dare ordini al marito il quale finisce per utilizzare il surplus di energie generate dalla droga per fare le pulizie di casa...
Rossi ripropone un ritratto strettamente familiare imperniato su Manfredi dopo Sospirosa (primo episodio di Alta infedeltà, 1964; vedi), con minore successo: al taglio analitico e ricco di nuance del precedente cortometraggio si sostitusice una tendenza farsesca abbastanza  ripetitiva e prevedibile.
In Una donna d’affari (sceneggiatura di Tonino Guerra ed altri), diretto da Castellani, appare ancora più evidente lo stato di soggezione del protagonista, un direttore d’orchestra (sempre Manfredi), alla protagonista di turno, una scalmanata ed affascinante imprenditrice (Dolores Wettach). L’uomo la corteggia per strada ed ella si precipita a casa sua per consumare un veloce amplesso il quale viene però continuamente rimandatao dall’accavallarsi degli impegni della donna, con effetti prevedibili e, alla lunga, monotoni. Nel frattempo il maestro subìsce ogni genere di danni (ha perso il lavoro, l’auto... ).
La cosa più interessante è la colona sonora in cui vengono assemblati pezzi di musica colta (il duetto Là ci darem la mano che preannuncia il fallimento del protagonista, parallelo a quello di Don Giovanni nei confronti di Zerlina; numerosi valzer di Chopin) variamente deformati.
Questo episodio verrà rifatto in Letti selvaggi (Zampa, 1979) con Laura Antonelli nel ruolo della protagonista.
Controsesso ottiene incassi modesti.
L’anno successivo Ferreri firma ancora un singolo episodio all’interno di Oggi, domani, dopomani (dic. 1965; 95 min), antologia di tre episodi che, fin nel titolo, si ricollega al grande successo di Ieri, oggi, domani (De Sica, 1963). Anche in questo caso il protagonista assoluto è Marcello Mastroianni mentre l’argomento è ancora la battaglia tra i sessi.
L’episodio ferreriano – L’uomo dai cinque palloni – doveva in realtà essere un film autonomo (il regista aveva infatti girato parecchio materiale) ma Ponti, giustamente spaventato dal carattere quasi sperimentale del racconto, decide di ridurlo a una durata di soli 30 minuti e di riequilibrare il carattere criptico di quel racconto con due episodi brillanti e quasi farseschi.
Ferreri mette in scena nuovamente (per la quarta volta consecutiva) un uomo solo, prigioniero di ossessioni quasi incomprensibili. Pur essendo ricco (è un industriale) ed avendo a disposizione una bella e giovane amante (Catherine Spaak), che all’occorrenza abbozza perfino uno spogliarello (nel solco di quello celebre della Loren di Ieri, oggi, domani), Mario Fuggetta (M. Mastroianni) si preoccupa di un’unica questione: fino a quando può gonfiare un palloncino prima che esploda? E’ possibile calcolare il suo momento di massima espansione, spingendolo fino a un passo dal baratro? Ovviamente la giovane partner giudica anormali queste preoccupazione e finisce con l’abbandonare l’amante. Mario, incapace di venire a capo del suo enigma, preso dallo sconforto si butta dalla finestra.
Ferreri racconta questa volta la paura della morte e la percezione della vanità del molteplice. Ricchezza, sessualità e bellezza sono cose di cui ci si stanca, soprattutto se si ha sempre presente che la morte ci minaccia quotidianamente e che siamo nell’impossibilità di fronteggiarla. Possiamo soffiare fin quando vogliamo dentro i nostri palloni, ma un giorno o l’altro, all’improvviso, essi esploderanno ed ogni cosa terminerà in quell’istante, vanificando il tutto. Ecco spiegata l’ossessione del protagonista che si accompagna all’ossessione per i monotoni, antivitali e ferrei ritmi di produzione, tipici della società capitalistica (lo sferragliare delle macchine lo perseguita). La battaglia dei sessi appare questa volta marginale: la femmina non comprende le preoccupazioni del maschio in quanto ella vive esclusivamente nel presente mentre l’uomo percepisce meglio lo scorrere del tempo e della storia. E’ infatti da quell’inesorabile scorrere che prende le mosse la sua angoscia che lo porterà al suicidio.
In tal senso ancora una volta la figura femminile risulta vincente, ma, questa volta, a causa della propria circoscritta visione del mondo.
Quattro anni dopo Ferreri rimonta il materiale e confeziona un intero film per il mercato francese intitolato Break Up (85 min.); nel 1973 presenterà quella pellicola col nuovo titolo de L’uomo dei palloni alle Giornate del cinema veneziano. Il film rimarrà sostanzialemente inedito in Italia.
Break Up (il titolo imita il recente, fortunato Blow Up di Antonioni) aggiunge poco alla prima versione del film. Comprendiamo meglio il carattere maniacale, perennemente insoddisfatto, dell’impresario di cioccolata, abituato a tenere tutto sotto controllo ed ossessionato dall’idea dell’ordine; lo vediamo far visita a un intellettuale circondato da quattro giovani seminude e lo ritroviamo perso in una discoteca dove abbondano i palloni. Quest’ultima sequenza, delirante e felliniana (si conclude con orgia di palloni scoppiati) è certamente la migliore (e anche l’unica divertente) del film, nel quale ritroviamo anche un certo gusto visionario.
Gli altri due episodi di Oggi, domani, dopodomani tornano invece al tema classico (ferreriano) dello scontro tra i sessi. In L’ora di punta di Eduardo De Filippo (tratto dal suo atto unico Pericolosamente del 1938), un marito (Luciano Salce) riesce a tenere a bada la bella moglie (Virna Lisi) solo sparandole di tanto in tanto con una pistola caricata a salve, in cui, però, potrebbe essere presente un poroiettile vero. Solo con questo stratagemma, ormai imitato da centinaia di altri mariti, l’uomo riesce dominare la capricciosa consorte. Uno scienziato depresso (Mastroianni), rientrato in Italia dopo una lunga assenza, assiste stupefatto a questi nuovi costumi coniugali.
Nel terzo episodio La moglie bionda, basato su un soggetto di Goffredo Parise e firmato da Luciano Salce, un bancario (Mastroianni) sposato con una magnifica bionda (Pamela Tiffin), vagamente somigliante alla Anita Ekberg de La dolce vita (1960), decide di portarla in Africa per venderla (a sua insaputa) a qualche ricco arabo dotato di vasto harem. La trattativa sembra quasi conclusa quando, a sorpresa, la moglie anticipa il marito e lo vende ad un principe arabo gay.
L’episodio è alquanto stiracchiato e ripetitivo; vi si nota soprattutto l’intento satirico nei confronti del capolavoro felliniano: sebbene l’anonimo contabile sia dotato di splendida dea bionda, dopo qualche anno di matrimonio se ne è già stancato e preferisce sostituirla con un bel mucchio di milioni. In fondo anche la bellezza femminile – tanto elogiata nel celebre testo felliniano come fonte neopagana di magico rinascimento – può venire a noia come ogni altra cosa terrena. Lo scetticismo di Salce sotterra dunque il misticismo massonico del discusso capolavoro di Fellini.
L’episodio verrà replicato vent’anni dopo in Ricchi, ricchissimi, praticamente in mutande (S. Martino, 1982), con Renato Pozzetto ed Edvige Fenech .
In Oggi, domani, dopodomani il tema della battaglia dei sessi, tipico della trilogia ferreriana incentrata su Ugo Tognazzi, trasmigra negli episodi collaterali di Salce e De Filippo, mentre il bizzarro regista si concentra sulle frustrazioni vagamente metafisiche del suo industriale.
Il film ottiene un buon successo commerciale.

Nella primavera 1963, oltre a L’ape regina, esce Le ore dell’amore (aprile 1963; 90 min.) nel quale ritroviamo Tognazzi alle prese con un’altra, complicata situazione coniugale. Il film girato da Luciano Salce si basa su una sceneggiatura di quest’ultimo coadiuvato da Castellano e Pipolo.
Il racconto ha un taglio serioso che poco si addice allo stile e al temperamento del regista. Vi si narra la difficile convivenza coniugale di Gianni (Tognazzi) e Maretta (Emmanuelle Riva), due amanti che, in età avanzata, decidono di sposarsi senza realmente conoscersi a fondo. La vita quotidiana diviene presto una prigione densa di frustrazioni. L’uomo è un sempliciotto, va alla partita, ha amici volgarotti e frequenta allegri festini, vorrebbe una moglie attenta alle cose domestiche; la donna ascolta solo musica classica, va ai concerti, guarda trasmissioni televisive seriose, passa le giornate dal parrucchiere e non fa nulla in casa. Insomma un disastro, peraltro piuttosto programmatico e inverosimile per potere interessare lo spettatore. La vicenda è pensata a tavolino e come tale artificiosa (non ci si sposa senza conoscersi...); inoltre il modo di trattare i bisticci quotidiani della coppia è privo di verve e annoia presto. Anche le liti, le scappatelle, le fughe e i ritorni sono scontati. Gli attori fanno quello che possono per servire il modesto copione.
Si salva la lunga sequenza onirica – farsesca e un po’ sinistra -  in cui Salce può finalmente dar sfogo alla propria vena umoristica e l’elegante, sobria e moderna colonna sonora (prevalentemente chitarristica) di Luiz Bonfà.
La fotografia dei costumi sociali che cambiano è abbastanza interessante (la moglie che si rifiuta di fare la domestica, anche se poi ne assume una... ), mette a fuoco una figura maschile a disagio, la quale vorrebbe una moglie di vecchio stampo (in effetti Maretta non lavora) ma al tempo stesso non osa chiedere con decisione certi comportamenti e finisce col subire. Inoltre il discorso dei figli è continuamente rimandato e, dunque, la coppia finisce con il girare a vuoto su tematiche sempre identiche. Non resterà loro che separarsi in buona amicizia e tornare ad essere due amanti saltuari.
Nella battaglia quotidiana tra Gianni e Maretta è soprattutto il primo a sentirsi annoiato e deluso: l’obbligo di frequentare quotidianamente l’amante occasionale di un tempo spegne ogni interesse nel marito. Gli autori inseriscono anche uno psicanalista di cui poi si fanno (giustamente) beffe. In ogni caso il punto di vista di Salce è poi quello del Freud del Disagio della civiltà: gli essere sono naturalmente poligami e la monogamia è un duro sacrificio, finalizzato alla creazione della prole e alla stabilità del tessuto sociale. Se poi la prole non arriva e il tessuto sociale è alquanto destabilizzato, allora il sacrificio del matrimonio appare del tutto inutile, addirittura masochistico.
La visione è giusta, scettica e lucida: peccato che la realizzazione del racconto sia fiacca. Anche la scelta di un’attrice di temperamento prettamente dramamtico come la Riva (si ricordi la splendida interpretazione di Hiroshima mon amour, 1959) non aiuta.
Il pubblico accoglie tiepidamente il film.
Un successo perfino minore arride a Le monachine (set. 1964; 100 mion.), nuovo film di Salce sempre basato su una sceneggiatura di Castellano e Pipolo (il nome del regista questa volta non compare tra gli sceneggiatori).
La pellicola è alquanto anacronistica e ricorda film dalla seconda metà degli anni quaranta (o se si preferisce dal cinema degli anni trenta di Frank Capra), impressione rafforzata dalla simpatica presenza di Amedeo Nazzari. Vi si narrano le peripezie di due ingenue monache, suor Celeste (Catherine Spaak) e madre Rachele (Didi Perego) le quali giungono a Roma, alla sede di Aeritalia (all’Eur) per convincere la dirigenza a spostare la rotta di alcuni aerei in quanto il quotidiano passaggio dei medesimi sta rovinando un importante affresco di scuola senere del 1200 che adorna la chiesa di Quercianello (paese inesistente), dove le due protagoniste gestiscono una orfanotrofio. Il costante conflitto tra l’antiquata visione del mondo delle due religiose e una Roma cinica e molto laica è il detonatore di una serie di esilaranti situazioni e battute che rendono piacevolissima la visione della pellicola. Nella fase iniziale la loro controparte è l’ingegnere Bertana (Amedeo Nazzari), direttore generale della compagnia, sempre più esasperato dalla tenace “persecuzione” messa in atto dalle due monache. Nella seconda parte però monache e ingegnere fanno causa comune contro un arrivista che cerca di scalzare il direttore generale dalla sua posizione per prenderne il posto. Finale lietissimo.
La pellicola possiede numerose sequenze degne di memoria: il viaggio sulla nuovissima autostrada del sole (il biglietto d’ingresso viene gettato via in quanto scambiato per una pubblicità), il giro per una Roma deserta alle sei del mattino, la cialtronesca troupe di cinematografari (con la quale finiscono per recitare, per errore, le due protagoniste) che sta girando un film sulla Resistenza a Roma (come si è visto altrove, la rievocazione dell’epoca fascista è uno dei generi prevalenti in quegli anni al quale lo stesso Salce ha contribuito con Il federale, 1961; la sequenza ha un sapore irridente), la distribuzione dei santini di santa Domitilla (“ogni cento viene redento un cinese”). Come si nota, a differenza degli altri film esaminati in questo capitolo, Le monachine è un film rigorosamente conservatore che sfotte i socialcomunisti (si veda l’episodio del film sulla Resistenza) e, quando si occupa di problemi coniugali, lo fa alla vecchia maniera, con le due protagoniste che riescono a “redimere” l’ingegnere e la sua convivente Elena (Sylva Koscina), inducendoli al matrimonio, nonché ad adottare uno dei loro orfanelli.
Da ricordare infine la presenza di Lando Buzzanca nella parte di un vigile urbano appassionato di judo e la melodiosa colonna sonora di Morricone.
Insomma i classici problemi della coppia, della noia e della’alienazione – elementi centrali di tutto il cinema “importanti” del decennio – sono del tutto asenti in questa commedia d’altri tempi.

Giunto al suo terzo film, Elio Petri mette in immagini il romanzo (1962) di Lucio Mastronardi Il maestro di Vigevano (dic. 1963; 105 min.), affidando il ruolo principale ad Alberto Sordi. La pellicola, oggi quasi dimenticata come tutto il cinema di Petri, è un film magnifico, esemplare nel suo saper ritrarre la mutazione antropologica in atto.
Il maestro Mombelli (un Alberto Sordi che miscela in modo magistrale registro comico, patetico e tragico) è un uomo all’antica e pretende di poter mantenere l’intera famiglia con il suo modesto stipendio. La moglie Ada (Claire Bloom) invece scalpita: sente i tempi nuovi e ambisce, più di ogni altra cosa, ad un differente tenore di vita. Dapprima manda il figlio, poco portato per lo studo, a fare il garzone con enorme dispiacere del padre che vi vede un attacco alla propria dignità; poi decide di andare lei stessa a fare l’operaia. Pur di avere scarpe e borsette alla moda, la donna è disposta a perdere la propria libertà quotidiana (di cui, peraltro, non sa che farsene) per andare a fare la schiava in fabbrica. Le lacerazione familiari sono via via crescenti e finiscono con il separare totalmente le esistenze dei due coniugi, ognuno dei quali persegue un differente modello esistenziale. Il maestro crede ancora nei tradizionali valori della famiglia, della differenza tra uomo e donna, della dignità, della gerarchia sociale (è pur sempre un amestro, titolo che lo mette al di sopra di tanti operai e industrialotti ignoranti); la moglie invece insegue semplicemente i beni materiali e per essi è disposta a sacrificare tutto: l’armonia familiare, le cure verso il figlio ed infine, allorché stabilisce una relazione extraconiugale con il ricco industriale Bugatti (Piero Mazzarella), anche la dignità del marito. Il finale tragico, un po’ frettoloso, sfocia nella morte accidentale della donna, dopo di che il film termina dove era iniziato: con il maestro che inizia un nuovo anno scolastico.
Raramente il cinema ha fotografato con tanta proprietà ed acume il trapasso dalla società patriarcale degli anni cinquanta a quella semimatriarcale degli anni sessanta. Petri ridicolizza in ogni modo il povero Mombelli e, tuttavia, la forza dell’interpretazione di Sordi porta naturalmente ad identificarsi con quest’uomo all’antica, travolto da un mondo che cambia. Sebbene Petri (come pure Mastronardi) si sia sempre ritenuto un uomo di sinistra (area politica dove peraltro gli hanno fatto ben poche feste e lo hanno poi – dopo la prematura morte - rapidamente archiviato), egli firma una pellicola di grande carica umana dove tutte le simpatie vanno alla vittima di quel cambiamento il quale, in fondo, coincide col processo di emancipazione della donna, catalizzato dalle esigenze della società consumistica.
In realtà il cinema di Petri possiede una segreta natura scettica ed uno stile fortemente grottesco (vedi
www.giusepperausa2.it/petri.pdf) con i quali l’autore guarda con forte disincanto a tutti i presunti valori, compresi quelli progressisti. Nei suoi film ci sono, semmai, vincenti e vinti, forti e deboli, padroni e servi, organizzati in una rigida ed immutabile gerarchia sociale nella quale lo stile caricaturale del regista ha buon gioco nell’attribuire, secondo modalità quasi satiriche, tratti infantili ed immaturi a tutti i personaggi che si trovano in stato di sottomissione permanente (un tipo di elaborazione del grottesco che troverà il proprio insuperabile capolavoro in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970). Perfino l’erotismo, sostanzialmente assente in questo cinema, diviene una fase dell’eterna lotta tra padroni e servi (in questa visione del sesso, Petri si avvicina a Kubrick e a Fassbinder); non a caso Ada, l’eterna scontenta, non appare in nessun momento sessualmente felice: ella utilizza il sesso dapprima per convincere il marito a dare le dimissioni da maestro (e a prestarle i soldi della liquidazione per avviare una fabbrichetta di scarpe); più avanti la vediamo accompagnarsi ad un industriale facoltoso, ma abbiamo semrpe l’impressione che Ada si sia concessa all’uomo (tutt’altro che affascinante) per un preciso calcolo di interesse. Insomma i favori sessuali - ben lungi dall’essere momenti di autonomo soddisfacimento - somigliano molto a trappole, a strumenti di sopraffazione, messi in atto per ottenere qualcosa da qualcuno.
In questo triste universo senza luce (non a caso siamo in autunno) il maestro Mombelli – un chiaro perdente – vive sottomesso al proprio direttore scolastico (l’impagabile Vito De Taranto) ed anche in famiglia finisce col venire emarginato dalla moglie e dal figlio Rino. E’ un debole il cui destino è segnato in ogni suo gesto: invano egli si appella a valori di dignità e di cultura in un tessuto sociale in fieri, nel quale l’unica cosa che conta è il denaro e la potenza connessa ai beni materiali che è in grado di procurare. D’altronde il film è costellato di riferimenti a questi beni materiali divenuti la cosa generalmente più ambita: il bellissimo prologo in cui si dice che a Vigevano ognuno ha le scarpe che si merita, le vetrine notturne con capi di vestiario di ogni generre di fronte alle quali si aggira la lamentosa Ada, la villa modernissima dell’industriale che diventerà l’amante della donna alla quale fa riscontro l’abitazione miserabile dei Mombelli.
Il maestro Mombelli - come tutti gli altri personaggi di Petri (il professore di A ciascuno il suo o l’operaio de La classe operaia, tanto per fare qualche esempio) - viene costretto dalle circostanze ad iniziare un’ “indagine” che lo porterà a comprendere meglio il proprio universo familiare e sociale ed a cercare di correggere il proprio stile di vita per adeguarsi a un sistema che lo penalizza. In particolare egli comprende che il proprio destino è quello di fare il maestro e che le deviazioni da quel percorso esistenziale, imposte dalla moglie che rappresenta il nuovo stile di vita consumistico, lo danneggiano. Pertanto nel finale - dopo tante peripezie (le dimissioni dalla scuola, l’avventura della fabbrichetta di scarpe finita con l’irruzione della Guardia di Finanza) - egli si ritrova al punto di partenza, ossia all’inizio di un nuovo anno scolastico, solo (la moglie è morta) ma anche più sicuro di sè. Le sirene della modernità lo hanno traviato solo per pochi mesi: la morte inattesa di Ada elimina l’elemento perturbante e riporta il maestro nell’alveo di una tranquilla e dignitosa routine. Certo niente scalfisce la dialettica servo-padrone che domina il reale nella visione di Petri: il maestro Mombelli è di nuovo al suo posto, con la maschera infantile del ligio servitore, sopraffatto e umiliato (uno dei tanti Fantozzi ante litteram del cinema italiano) - come sempre - dal proprio direttore (nel finale lo spedisce addirittura a comprare un francobollo in tabaccheria quale gesto di completa sottomissione). Il tentativo di ribellione è fallito miseramente insieme alla fabbrichetta di scarpe: il maestro non ha la stoffa dell’imprenditore. Ciononostante quella finta ribellione lo aveva messa in una posizione ancor più mortificante: al vecchio padrone (il direttore) si erano sostituiti padroni ben più gretti e volgari (la moglie e il cognato) ed inoltre la moglie lo aveva lasciato per intraprendere una relazione con un industriale concorrente (nel romanzo, assai più nero, quest’ultima confesserà al marito che Rino non è veramente suo figlio).
La bellissima colonna sonora di Rota, imperniata su melodie singhiozzanti in cui non si tralascia un certo gusto umoristico, completano in modo perfetto questo impagabile quadretto di provincia.
Il film sollevò notevoli polemiche nella categoria dei maestri che si sentì oltraggiata da questo ritratto decisamente eccessivo e caricaturale (i maestri guadagnavano poco, ma non così poco come Petri e Mastronardi vorrebbero darci a credere; inoltre si potevano avvalere, allora come oggi, di un orario lavoratico ridotto) ed ottenne un buon successo (anche se inferiori alle attese).

Il tema della battaglia tra i sessi torna in Alta infedeltà (gen. 1964; 130 min.), pellicola divisa in quattro episodi e basata su una sceneggiatura di Age, Scarpelli, Maccari e Scola. In Scandaloso Franco Rossi ci racconta il tormento di un marito (Nino Manfredi) il quale, durante la vacanza balneare in una qualunque mediocre pensione, assiste impotente al prolungato corteggiamento di sua moglie (Fulvia Franco) da parte di un giovane, aitante inglese (John Philip Law). La donna appare evidentemente turbata e medita perfino di cedere quando l’uomo affronta il rivale per scoprire di avere travisato: il ragazzo è gay e stava facendo la corte a lui.
Il taglio cronachistico è centrato, Manfredi (che utilizza la voce fuori campo) è molto efficace e il finale a sorpresa non del tutto scontato. La moglie, che decide di ripartire anzitempo per non cedere alla tentazione, non viene informata della verità.
In Peccato nel pomeriggio firmato da Elio Petri assistiamo al lungo corteggiamento da parte di un imprenditore di successo (Charles Aznavour) nei confronti di una bella e complicata sconosciuta (Claire Bloom). Questa volta, invece, non si tarda a capire che in realtà si tratta di un gioco inscenato da una coppia in crisi coniugale. Il film è prolisso e noiosetto, si avvale di un suggestivo impianto figurativo (nella Roma dell’Eur) che riprende il recente stile di Antonioni (all’Eur il regista ferrarese aveva appunto girato L’eclisse, 1962) e che rimane l’unico motivo per guardare l’episodio. Le battute e le situazioni sono poco incisive. 
Decisamente migliore, più spiritoso e imprevedibile, è La sospirosa di Luciano Salce in cui una Monica Vitti “nuova” ossia alle prime prove di commediante (dopo la trilogia antonioniana e prima di Deserto rosso) parla a raffica e ossessiona il marito (Sergio Fantoni) con una gelosia incontrollabile (non sappiamo quanto giustificata). Rimasta sola si sfoga col migliore amico (Jean-Pierre Cassel) del marito il quale la seduce senza troppi riguardi e lei, tra una chiacchiera e l’altra, cede senza dare poi alla cosa il minimo peso. Nell’epilogo continua a chiedere all’ex amico (ora amante) di convincere il marito ad essere più franco e  leale...
L’episodio è gustoso e permeato da una sottile misoginia, tipica dell’autore. Se ne trae la conclusione che uomo e donna convivono per necessità ma, in fondo, appartengono a pianeti differenti.
Notevole è pure il quarto episodio, Gente moderna, firmato da Monicelli in cui Cesare (Ugo Tognazzi), un commerciante di formaggi, perde tutto (soldi, casa, furgone e magazzino) al gioco. Il vincitore, Reguzzoni (Bernard Blier), allora gli propone uno scambio: il debito verrà annullato in cambio di una notte passata con Tebaide (Michele Mercier), la bella moglie di Cesare. Dopo molte incertezze e litigi, la coppia accetta, ma l’uomo si addormenta; il mattino seguente Cesare e Tebaide gli fanno credere di avere consumato l’amplesso. L’uomo appare talmente sicuro del fatto suo che, nel vantarsene con il gelosissimo Cesare, finisce per esasperarlo e per prendersi una fucilata nel sedere. A quel punto tutto il paese si convince che Cesare è proprio un cornuto...
Commedia degli equivoci, splendidamente interpretata da tutti in un efficace contesto paesano, Gente moderna è un gioiellino. La disperazione di Cesare, la rabbia della moglie obbligata a cedere a un estraneo per salvarsi dalla povertà, l’irritante carattere paternalistico del vincitore mettono a fuoco un quadro in cui l’aspra competizione sociale non esclude nessun fattore e giunge a lambire la fedeltà coniugale.
Alta infedeltà ritrae il legame coniugale come qualcosa di assai fragile nell’Italia della metà degli anni sessanta. L’unico a fallire il bersaglio è il più “autore” dei quattro, quel Petri che ha già firmato film importanti come L’assassino, I giorni contati e Il maestro di Vigevano e che si avvierà ad una strepitosa carriera cinematografica. Il campo della commedia leggera non gli si addice (questo episodio rimane la cosa meno interessante della sua filmografia) ed, in futuro, non vi tornerà più (anche i suoi  film seguenti che posseggono alcuni tratti “leggeri” come La decima vittima, Un tranquillo posto di campagna e Buone notizie, in fondo sono sempre qualcosa d’altro). Gli altri tre cineasti forniscono invece prove simpatiche, brillanti e tutt’altro che superficiali.
La critica accolse malamente la pellicola, parlando di “stupide barzellette” mentre il pubblico premiò il lavoro con una folta presenza nelle sale.

L’anno seguente Monicelli torna sull’argomento con il mediocre Casanova ’70 (ott 1965; 107 min.), una pellicola sceneggiata insieme a Tonino Guerra, Age, Scarpelli, Suso Cecchi d’Amico ed altri. Il film si basa su un’unica trovatina: il maggiore Andrea Colombetti (un monocorde Marcello Mastroianni) si scopre semi–impotente; egli, infatti, riesce ad eccitarsi solo se si trova in una situazione di serio pericolo. Seguono una serie di vicende (di fatto si tratta di un film a episodi mascherato) nelle quali il protagonista cerca volutamente di trovare delle situazioni estreme così da poter soddisfare le proprie voglie (e quelle delle sue numerose partner). La materia narratriva era già scarsa per un cortometraggio; Monicelli invece ci rifila la stessa storia un certo numero di volte, senza trovare personaggi, dialoghi ed ambienti che possano reggere il gioco. Il maggiore corteggia una hostess (Seyna Seyn), un’aritocratica (Marisa Mell) sorvegliata da un gelosissimo conte (Marco Ferreri), una siciliana (Jolanda Modio) imprigionata da un esercito di parenti, una domatrice di leoni (Liana Orfei)... Cerva di aiutarlo un simpatico psicoanalista (Enrico Maria Salerno) a sua volta affascinato dal bel maggiore...
Tranne qualche singolo momento, il film scorre noiosetto e non offre neppure motivi di riflessione sociologica in quanto si tratta di una farsa surreale in cui i singoli personaggi hanno una sostanza “fumettistica”. L’unico elemento di un qualche rilievo consiste nell’avere messo in scena una galleria di figure femminili tutte estremamente spregiudicate, sessualmente libere e capaci di tenere testa ai maschi: solo in tal senso la pellicola riflette i tempi nuovi e la rivoluzione sessuale in corso.
Con questo filmetto leggero probabilmente Monicelli cercò di rifarsi economicamente del mezzo fiasco subìto con il ben più interessante I compagni (1963, vedi); tuttavia gli incassi di Casanova ’70 furono abbastanza simili a quelli del film ambientato nella Torino operaia di fine Ottocento.

Inutile dire che il Centro Cattolico bolla con “escluso” o “sconsigliabile” tutti i film sopracitati (con l’eccezione de Le monachine): l’aperta messa in discussione dell’istituto matrimoniale, svolta con modalità audaci e spregiudicate, non esenti spesso da aspetti anticlericali, rende inaccettabile queste pellicole, allorché esaminate alla luce dei canoni della morale cristiana. D’altronde i film in questione interpretano al meglio i “tempi moderni” ossia i costumi sociali di un’Italia governata dal centro sinistra di Moro e Nenni nella quale si possono ora mostrare e discutere argomenti censurati fino alla fine degli anni cinquanta, anche perché ritenuti marginali o provocatori. La vitalità di questo cinema è pertanto generata anche dal fatto che esso si trova ad affrontare situazioni relativamente inedite.