La città si difende e Processo alla città

La città si difende, Processo alla città, Il tradimento, Vedi Napoli... e poi muori, Amo un assassino, Inganno, Vacanze col gangster, Gli innocenti pagano ed Ergastolo: il giallo italiano indeciso tra melodramma familiare, “denuncia civile” e noir d’oltreoceano (1951-52)

                “ [Germi] era partito proprio dall’idea  della città che si difende. Rientrava  nella mistica sociale di Germi, cioé la sana città che annienta questi gruppi di delinquenti, insomma si difende da sé”
                Tullio Pinelli

Dopo il film sulla mafia (In nome della legge, 1949) e quello sugli emigranti (Il cammino della speranza, 1950), Pietro Germi firma il teso noir La città si difende (settembre 1951; 83 min.) nel quale sintetizza le caratteristiche delle due pellicole precedenti in un lavoro sostanzialmente modesto. Come nel film siciliano, siamo di fronte a un poliziesco con quattro banditi che commettono una rocambolesca e maldestra rapina alla cassa dello stadio (nel bel mezzo di una partita) e poi fuggono - ognuno per la propria strada - in preda al panico. Come nel film sugli emigranti, siamo di fronte a un racconto a episodi dove le vicende dei quattro balordi - un pittore fallito (Paolo Müller), un disoccupato (Fausto Tozzi), un ex calciatore di successo (Renato Baldini) e un ragazzo un po’ svitato (Enzo Maggio jr) - si snodano separatamente (dopo l‘inizo “corale” allo stadio), quasi senza più interesecarsi tra loro.
Germi racconta la disperazione della miseria e cerca di porre in relazione (per far contenti i “neorealisti”) povertà e crimine. I caseggiati incombenti, gli interni miserabili, la palpabile povertà emergono dal racconto come la cosa più intensa e pregnante (notevole infatti la qualità visiva), sebbene poi la predicatoria voce fuori campo (già utilizzata ne Il cammino) e lo stesso titolo “conservatore” ci ricordano il fatto che rapinare e uccidere rimangono gesti dotati di responabilità individuale dai quali la società ha il dovere di difendersi, isolando gli individui pericolosi.
Miseria, moralismo e commiserazione si uniscono in un cocktail mal dosato, che in definitiva non accontenta nessuno. La critica militante spara a zero (Aristarco stronca con cattiveria), mentre la costruzione del giallo è risibile: ben poco ci viene raccontato del perché e del come il quartetto si è unito e ha preso la decisione di commettere una rapina tanto spettacolare; nel dipanarsi delle singole fughe (il film potrebbe meglio intitolarsi quattro uomini in fuga; la versione inglese infatti si intitola Four Ways Out) comprendiamo che il calciatore ha rapinato per riconquistare l’antica amante (Gina Lollobrigida in una brevissima, spietata parte) che invece lo tradisce e lo denuncia. Il disoccupato - la cui vicenda è completamene inverosimile e mal costruita - invece ha rubato per risolvere la miseria quotidiana della sua famiglia (evidente la sproporzione tra causa ed effetto, tanto più che il fallimento dell’impresa porta i congiunti verso orizzonti assai più negativi); scoperto durante la fuga in modo piuttosto assurdo (su un tram si fa prendere dal panico), scappa e si spara in mezzo ai campi, abbandonando così moglie e figlioletta al loro destino. Altrettanto enfatica e brutta è la vicenda del ragazzo che ruba all’insaputa della famiglia; scoperto minaccia di buttarsi da un cornicione per poi recedere dal folle proposito.
L’unico racconto che tiene desta l’attenzione è quello del pittore vagabondo: leader dello scalcagnato quartetto, si muove con freddezza, viene però braccato con efficienza da un apparato poliziesco tutt’altro che incline al sentimentalismo e alla fine si mette nelle mani della malavita organizzata che lo ammazza per prendergli il bottino (che così non viene recuperato dalle forze dell’ordine). Dietro a questi dilettanti compare dunque la malavita organizzata, cinica e feroce: l’approssimazione di quei malviventi occasionali finisce con l’arricchire i professionisti del crimine in un film complessivamente assai desolato, dove (pochi se ne sono accorti) il delitto finale non paga, anzi produce utili.
La visione del regista rimane quella tradizionale, a lui consueta: il male può essere compreso ma non giustificato e va comunque represso. Appare pertanto evidente il suo scollamente dall’universo “neorealista” che infatti giudicava sempre con eccessiva severità le pellicole di Pietro Germi.
Il film è brevissimo: i suoi ottanta minuti garantiscono da un lato il ritmo incalzante degli eventi (la sequenza della rapina, discretamente girata, viene poi rovinata dalle accelerazioni forzate, in sede di montaggio, della corsa delle auto in fuga); dall’altro però non riescono a spiegare nulla della psicologia e delle motivazioni dei protagonisti. La sceneggiatura di Fellini e Pinelli appare del tutto sommaria, debitrice nei confronti del noir americano (in particolare - fin dal titolo - torna alla mente La città nuda di Dassin, 1948, ambientato in una New York povera e “neorealista”) e priva di spessore realistico. Il semidocumentarismo delle immagini, tra scenari urbani opprimenti e strade malamente illuminate, rimane un fondale generico sul quale si muovono figure inconsistenti, quando non apertamente derivate dal fotoromanzo (la vicenda del calciatore e della sua ex amante; il ragazzo che strepita sul cornicione mentre la madre lo scongiura di tornare in casa).
La complessa e autentica umanità di tante figure presenti ne In nome della legge e ne Il cammino della speranza non trova adeguata continuazione in La città si difende. Anche il pubblico non sembra acclamare troppo il lavoro, al contraro della giuria veneziana del festival 1951 che (in discordanza con i giudizi della critica) lo premia quale miglior film italiano.

Dopo i mediocri film dei periodo 1950-51 (Cuori senza frontiere - E’ più facile che un cammello... - Signori in carrozza!;; vedi), Zampa tenta il film “importante”, “neorealista”, di aspra denuncia civile. Si tratta del fortunato e fazioso Processo alla città (ottobre 1952; 106 min.) in cui, aiutato da Suso Cecchi D’amico (già attiva in E’ più facile che un cammello... ), Ettore Giannini, Francesco Rosi e i cattolici Diego Fabbri e Turi Vasile, si ispira al noto processo Cuocolo (1905-06) e racconta una Napoli completamente soggiogata dalla camorra.
Siamo nella Napoli umbertina di fine Ottocento (la presenza delle immagini di re Umberto I nei locali della polizia sembra quindi retrodatare la vicenda di alcuni anni). Si comincia con il misterioso duplice omicidio dei Ruotolo, una coppia benestante assai rispettata. L’inflessibile giudice Spicacci (uno stereotipato Amedeo Nazzari), aiutato dal vivace commissario Perrone (Paolo Stoppa), indaga a trecentosessanta gradi, comprende che il delitto è maturato all’interno dei più alti gradi della malavita organizzata (le vittime hanno tradito la camorra, denunciando alla polizia un affiliato) e decide di arrestare tutti i complici - decine di personalità altolocate, appartenenti alla Napoli bene - nonostante la riluttanza del procuratore capo (presso il quale gli indagati si recano abitualmente) e dello stesso Perrone. Il fango, che coinvolge tutta l’alta società partenopea (almeno così appare nel racconto manicheo), giunge a lambire la vita privata del giudice, il quale è costretto ad arrestare perfino suo cognato e a mettersi contro l’irritata moglie.
Sul versante popolare invece lo sguardo è assai più compiacente e partecipe: la povera gente dei vicoli è ritratta come succube degli alti gradi camorristici mentre nelle case di tolleranza, segretamente gestite dai notabili, giovani ragazze del popolo lavorano per la camorra e all’occasione vengono arruolate in orgette dedicate ai padroni della città (come quella in cui verrà deciso il destino di morte della coppia traditrice). Così il giovane ladruncolo Luigi Esposito (Franco Interlenghi), colpevole di aver denunciato un compagno di furtarelli (Dante Maggio), viene abilmente incolpato degli omicidi Ruotolo dal boss supremo (Eduardo Ciannelli) e nel tentativo di fuga, abilmente orchestrato in un inverosimile e artificioso finale melodrammatico, perde la vita sotto un treno; intorno a lui si raduna silenziosa e dolente l’umile gente di Napoli.
Insomma tutti i luoghi comuni del marxismo, della lotta di classe e del bozzetto antiborghese si danno appuntamento in questo fumettone costruito con buon senso dello spettacolo e arricchito da una suggestiva ambientazione storica. I camorristi sono tutti rispettabili altoborghesi che hanno una doppia vita; le loro ricchezze si fondano sullo sfruttamento delle classi inferiori, tenute a bada poi con subdole minacce. Di contro la gente dei vicoli subisce in silenzio e attende giustizia mentre il giudice Spicacci tenta di capovolgere la situazione. La sequenza più importante e - a suo modo - riuscita è certamente quella ambientata al teatro San Carlo: un camorrista porta la notiza dell’avvenuto omicidio del contabile Filippetti, un vecchietto ormai in preda al panico, divenuto una vera e propria mina vagante per l’organizzazione; il capomafia, allora, nel corso di un generale applauso rivolto alla ballerina sul palcoscenico, riunisce gli affiliati in un segreto applauso nei confronti dell’assassino. Colpo di genio spettacolare, degno della futura saga del Padrino (la cui terza parte si conclude proprio in un teatro d’opera), ma anche atto d’accusa generico e sfrontato rivolto all’intera classe borghese che affolla i palchi del San Carlo.
La pellicola esce nell’ottobre 1952 e appare un contributo non secondario alla lunga campagna elettorale che sfocerà nelle elezioni del 1953. La popolosa città di Napoli è tra quelle meno convinte della bontà dei partiti di sinistra. Il Pci aveva raccolto solo il 21,5% dei voti nelle recenti amministrative (1952) mentre la DC contava su un 23%, il PNM addirittura sul 29,5 % e il MSI sul 11,8%. Dunque attaccare complessivamente la classe dirigente napoletana - seppur dietro il leggero velo di un’ambientazione umbertina (d’altronde anche ai tempi di Donizetti e di Verdi, le opere liriche facevano propaganda per l’Italia unita e per il liberalismo politico attraverso ambientazioni storiche arcaiche e stravaganti) - era necessario per tentare di modificare, almeno in parte, la difficile situazione in cui versavano le sinistre in quelle zone d’Italia. I risultati delle politiche del 1953 a Napoli mostreranno una situazione sostanzialmente immutata a sinistra (PCI al 21,2%) e una prudente redistribuzione nel centrodestra volta a privilegiare il partito di maggioranza quale baluardo contro l’ascesa dei socialcomunisti (la DC sale al 30 %, PNM al 26% e MSI al 10%). Va anche aggiunto che, con l’adozione di un timido maggioritario (la cosiddetta legge truffa), era anche interesse della DC gettare un qualche discredito sulla Napoli monarchica di fine secolo al fine di spostare al centro parte dei voti della schieramento guidato dal partito dell’armatore Lauro. In questo senso si può interpretare la presenza dei due scrittori cattolici nell’ambito del progetto di Zampa.
Il regista romano non è nuovo a queste forme di manipolazione storica a fini politici: si veda quanto scritto a proposito della trattazione della delicata questione giuliana nell’irritante Cuori senza frontiere. Questa volta però ha a disposizione un ottimo cast, ingenti capitali e può forgiare un buon giallo, ricco di momenti efficaci, dotato di un ritmo incalzante e di una costruzione narrativa che incatena lo spettatore entro una serie di colpi di scena ben costruiti.
Il pubblico infatti decreta il successo della pellicola, la critica applaude e fioccano i premi (Coppa d’argento al festival di Berlino 1953).
In seguito Francesco Rosi - già tra gli sceneggiatori del film di Zampa - tornerà sull’argomento dapprima con il film d’esordio La sfida (1958), poi soprattutto con il celebre Mani sulla città (1963), ulteriore attacco alla destra partenopea.
Processo alla città non è un film qualunque. Per certi aspetti potremmo anzi definirlo il fondatore del cinema di denuncia civile italiano, un genere che conoscerà la sua trionfale stagione nei due decenni seguenti. Il coraggioso e solitario giudice, che si schiera contro tutti e non teme di far arrestare i notabili della città, è l’evidente modello di tanti protagonisti del futuro cinema di Rosi, Damiani e Petri così come la tendenza a criminalizzare intere classi borghesi e a descrivere come succubi interi strati popolari sarà un elemento dirompente - un’indubbia falsificazione - di quel cinema. Né è un caso che il film di Zampa affondi le proprie radici nell’ambigua poetica del cosiddetto “neorealismo”, una stagione filmica, come si è visto, ampiamente ideologica e schierata, decisa a diffondere un atteggiamento di frustrata desolazione quale strumento idoneo a spostare il voto a sinistra. Il semplice racconto delle quotidiane disgrazie non appare più sufficiente: per essere più convincente e spettacolare, ora questo cinema coniuga le disgrazie dei più deboli (abilmente esasperate) con la protervia dei ceti benestanti, associati in blocco al malaffare. Ma c’è di più.
Processo alla città finisce addirittura con l’ipotizzare una magistratura che - miracolosamente slegata dal contesto civile - punisce e distrugge un’intera classe notabile. A Milano, esattamente quarant’anni dopo, avverrà proprio questo.

Nel solco che grande successo di Catene (1949; vedi) si susseguono numerose pellicole. Tra queste si colloca Il tradimento (aprile 1951; 85 min.), undicesimo film dell’esperto Riccardo Freda. L’intreccio - escogitato da Mario Monicelli (autore unico del soggetto), sviluppato poi in sceneggiatura con Ennio De Concini e con Freda - nonostante la delirante inverosimiglianza, piace al pubblico che sancisce il buon esito commerciale della pellicola.
C’è nuovamente la famiglia insidiata e distrutta - quella dell’ingegner Vanzelli (Amedeo Nazzari), lavoratore instancabile e integerrimo marito - ad opera del manigoldo Renato Salvi (Vittorio Gassman), il quale, rifiutato dalla moglie (Caterina Boratto) di Vanzelli e gravemente indebitato, mette in scena un falso delitto (di cui sarebbe vittima per mano del Vanzelli) e scompare. L’ingegnere si fa quattordici anni di prigione; quando esce ritrova solo la figlia (Gianna Maria Canale) e la scambia per una prostituta; poi tutto si aggiusta senonché ricompare il “defunto” Salvi che ricatta Vanzelli il quale, questa volta, lo ammazza sul serio. Il finale comunque è lieto.
La vicenda fa acqua da tutte le parti; i personaggi continuano a reincontrarsi “casualmente” come accadeva solo nel teatro d’opera ottocentesco: un padre ritrova la figlia fuori da una trattoria, poi ritrova il criminale sul suo stesso treno e via dicendo. Ciononostante, se si comprende e si accetta che si sta assistendo più a un melodramma lirico per immagini che a un film realistico, allora è possibile lasciarsi traspostare in questo cupo universo di passioni estreme, aiutati soprattutto dall’ottima colonna sonora di Carlo Innocenzi modellata sugli stilemi del teatro verista pucciniano e mascagnano la quale avvolge l’intero film, donandogli un carattere di acceso dramma lirico che, in definitiva, lo salva dal ridicolo.
Ci sono, in tal senso, sequenze perfette come quella dell’agnizione tra padre e figlia in una lurida stanzetta d’albergo dove, da giorni, la torva padrona cerca di indurre la ragazza a prostituirsi per pagare il conto: per il tramite di una vecchia bambola l’uomo e la donna finalmente (dopo aver sfiorato l’incesto, situazione che, senza dubbio, vale il giudizio di “escluso” di parte cattolica) si riconoscono in un crescendo di tensione abilmente creato dalla musica, dall’uso magistrale dei primi piani e dalla bravura degli interpreti. E non è l’unica grande sequenza in cui Freda sembra saper coniugare tradizione lirica italiana e lezione hitchcockiana. C’è poi il folle finale con lo scontro definitivo tra il criminale e il protagonista - un “defunto” che ricatta un vivo - cui segue la morte del primo e il ripetersi del percorso iniziale (quello del falso delitto), questa volta con Vanzelli che porta in auto un vero cadavere. Strade buie e bagnate, personaggi sospettosi, scenari desolati: tutto ritorna in un’abile riproposta delle sequenze iniziale, una variazione sul tema (per rimanere in una terminologia musicale) di indubbia efficacia, degna dell’Hitchcock coevo de L’altro uomo (1951; dove i personaggi tornano due volte nel celebre scenario del Luna Park). Infatti Freda ha certamente tenuto conto delle atmosfere particolari - oniriche e claustrofobiche - che animano il recente noir hollywoodiano, con speciale riferimento ai film di Lang e di Siodmak. 
Mescolando dunque Hitchcock e Matarazzo, Freda produce un interessante noir lirico ove alla compiutezza stilistica si unisce la visione nettamente conservatrice (come già in Catene) del contesto umano e sociale. Le figure sono certamente stereotipate in modo manicheo; ma va anche detto che la cosa viene apertamente teorizzata e sostenuta come rispondente al vero: nei dialoghi infatti si parla apertamente di nature umane volte al bene, all’equilibrio e alla coesistenza pacifica, e di nature imane naturalmente inclinate verso il male. Lo afferma provocatoriamente il Salvi, nel grande finale, quando provoca la sua vittima e rivendica a sé (e a quelli come lui) la capacità di operare il male in modo cosciente e compiaciuto. Con buona pace di marxisti e “neorealisti”, il film quindi opta per le responabilità individuali, descrive la naturale malvagità di determinati individui e scarta ogni tentazione giustificazionista di tipo sociale.
Ovviamente il film ottiene solo insulti e rimproveri dalla critica più “avveduta” e “illuminata”.
Circa un anno dopo esce Vedi Napoli... e poi muori (febbraio 1952; 88 min.) dove Freda, aiutato ancora da De Concini in sede di sceneggiatura, ma basandosi sostanzialmente su un soggetto di Alberto Vecchietti, decide di ripetere la felice esperienza de Il tradimento con un evidente, modesto ricalco.
Come allora c’è il malvivente senza scrupoli (Vittorio Sanipoli) che insidia l’ex fidanzata (ancora Gianna Maria Canale), ora sposata con un ricco dirigente di banca (Renato Baldini) e con un bambino piccolissimo, c’è il marito che immediatamente crede la moglie colpevole e la caccia di casa senza ascoltarne le ragioni, c’è un tortuoso percorso che porta la donna a calcare le scene di modeste ed equivoche riviste, c’è il bimbo che immencabilmente si ammala ed è in fin di vita, bambino che, in seguito, viene addirittura rapito dai malviventi. Insomma un fumettone in piena regola sull’abusato schema di Catene.
I personaggi sono poco più che marionette, interpretati in modo dignitoso, ma mal serviti da una sceneggiatura totalmente inverosimile che usa le ellissi per mascherare la non plausibilità degli snodi narrativi e dei gesti dei personaggi.
Sul piano stilistico invece si riconferma il talento visivo di Freda che sa trovare ambientazioni efficaci, inquadrature eleganti ed espressive e chiaroscuri altamente drammatici. Inoltre l’omaggio a Hitchcock si fa ora esplicito con la sequenza chiave (quella in cui il ricattatore viene sistemato e ogni equivoco si scioglie) ambientata in un vecchio Luna park in disuso (certo memore del recente, già citato, L’altro uomo).
In sede di riflessione sociologica, risalta la facilità con cui il marito può liberarsi della moglie, anche se c’è di mezzo un bimbo assai piccolo (affidato alla solita baby sitter). In un’italia assai diversa, nella quale le regole coniugali venivano prese più sul serio, e nella quale l’apparato legislativo difendeva essenzialmente l’onore del capofamiglia (nella penisola la relazione extraconiugale rimane un reato penale fino al 1969), l’uomo offeso può liquidare, senza troppi problemi, la moglie infedele (senza ascoltarne ragioni e motivazioni) ed è fuor di discussione che il bimbo resta col genitore “integro”. E’ proprio da questa egemone (ancora per poco) visione patriarcale che in fondo prende le mosse l’intero racconto, con una moglie cacciata di casa pur essendo totalmente innocente.
La battaglia di quest’ultima deve poi confrontarsi con un marito piuttosto ottuso e con un sistema di valori che la penalizza. Trovata dalla polizia nella casa del malvivente in piena notte per puro caso, la donna viene automaticamente creduta copevole e anche in seguito, quando viene reso noto che l’uomo la ricattava per delle lettere, alla donna non viene dato alcun credito (anche per le deficienze della sceneggiatura, a dir il vero... ). In ogni caso già negli anni settanta (due decenni dopo) sarà impossibile costruire una storia anche lontanamente simile a questa: donne cacciate di casa per un sospetto e bimbi piccoli affidati al padre divengono ricordi di un universo lontano, dissoltosi grazie alla rivoluzione sessuale degli anni sessanta, rivoluzione resa possibile proprio dal massiccio supporto dei media (giornali, cinema, teatro, editoria) compattamente orientati a modificare il tradizionale equilibrio uomo - donna attraverso uno zelante martellamento a favore dell’utopia egualitaria.
Freda queste cose ancora non le sa, né sembra intuirle: il suo cinema poco “progressista” ha quindi il merito di costituire un utile  documento di un’Italia ancora permeata dagli arcaici valori patriarcali.

Baccio Bandini, nato a Roma nel 1913, lavora nel cinema fin dalla fine degli anni trenta coprendo svariate mansioni (montatore, aiuregista, produttore). Come autore firma praticamente un solo lungometraggio, Amo un assassino (gennaio 1952; 90 min.), con il quale si inserisce nel nuovo e ancora abbastanza sfocato filone del giallo italiano. Si avvale, come Freda, della collaborazione di De Concini e Monicelli (e altri) in sede di sceneggiatura e filma un thriller chiaramente ispirato agli schemi letterari di Agatha Christie.
In uno stabile popolare una donna cade nella tromba delle scale. Il commissario - che guarda caso abita proprio nel caseggiato - indaga per appurare se si tratti di suicidio o omicidio. L’intreccio si fa tortuoso nella riuscita prima parte in cui tutti i personaggi sembrano avere qualcosa da nascondere (proprio come nei romanzi della popolare scrittrice inglese). Il geometrico whodonit però lascia presto il posto a un melodamma tutto italiano quando il commissario (un bravissimo Umberto Spadaro, poco credibile però nel ruolo di funzionario di polizia) si trova impigliato in un dramma familiare: il sospettato numero uno, Andrea Manni (Andrea Bosic), marito della vittima, è anche l’amante di sua figlia (Delia Scala). La trama dunque si complica, ma presto appare scontato l’esito poiché c’è solo un altro personaggio che si aggira intorno ai sospettati, l’amico Giorgio (Marco Vicario, futuro regista di 7 uomini d’oro e Homo eroticus), e allora la soluzione, per quando ben costruita secondo un ritmo incalzante, non sorprende nessuno.
Come nei film di Freda, Bandini miscela tradizione anglosassone (quella del racconto - rebus) e melodramma italiano: l’esito però è modesto poiché la miscela è poco amalgamata e procede a sezioni nettamente distinte. La prima parte è puro giallo, cui segue lo sviluppo centrale di tipo sentimentale (non manca la fuga degli amanti: la ragazza è addirittura incinta) per tornare agli schemi polizieschi nel finale.
Il risultato è insomma onesto, ma non certo memorabile. Gli incassi sono esigui.

Un assassino sembra amarlo anche la protagonista di Inganno (settembre 1952; 92 min.), pellicola di Guido Brignone che si basa su una pasticciata sceneggiatura di Bruno Corra, Ivo Perilli e altri tra cui lo stesso regista. Vi si raccontano le peripezie di Anna Comin (Nadia Gray), sergente nel corpo di polizia femminile a Trieste, la quale ama e sposa il medico Bruno Vannini (Gabriele Ferzetti), personaggio divorato dal demone del gioco d’azzardo nonché implicato in ogni genere di losco traffico, dalla tratta delle bianche, alle pratiche di aborto clandestino fino al commercio di stupefacenti. La malcapitata scopre progressivamente tutte le “qualità” del marito, lo abbandona, lo ritrova, lo perdona finché una delle numerose vittime dell’uomo (la sconvolta madre di una ragazza, morta a causa di una malriuscita pratica abortiva) non lo ammazza sulla porta di casa. Per questa via ad effetto gli sceneggiatori risolvono rapidamente un intreccio che era andato troppo complicandosi.
Brignone si conferma fedele alla propria visione progressista del mondo (vedi i recenti Santo disonore e Il conte di Sant’Elmo): questa volta anziché di ideali mazziniani e garibaldini, si parla di valori egualitari per il tramite delle insolite figure delle donne poliziotto, efficienti e oneste, dedite con abnegazione alla causa della giustizia. Brignone difende energicamente la parità femminile (in un’Italia in cui le donne votano da pochi anni), descrive donne che tentano di conciliare doveri d’ufficio e impegni familiari e propone un differente modello femminile (in sostanza ricalcato su quello maschile), attivo, autorevole e immerso nel sociale. Peccato che nell’unica azione di polizia descritta in modo dettagliato, tutto sprofondi nel ridicolo: due poliziotte (tra cui la protagonista) si travestono da prostitute per agganciare una donna di quell’ambiente e raccoglierne le confidenze; nel corso di una serata di baldorie con un nutrito numero di clienti, nella stanza di una pensione malfamata, riescono a tenerli a bada con poche moine e qualche vaga promessa...
Se le donne poliziotto (relamente attive a Trieste) vengono rappresentate secondo banali stereotipi, il resto del racconto appare altrettanto fasullo tra gangster da operetta e intrecci internazionali da fumetto.
Resta solo l’idea base del racconto: quella di rovesciare la sceneggiatura de Il sospetto (Hitchcock, 1941), esaminando il lungo duello “domestico” tra la moglie integerrima e il marito criminale. In questo contesto qualche buona pagina si può trovare, grazie anche alla convincente interpretazione della protagonista laddove però il personaggio schizofrenico del dottore, sincero amante della moglie ma anche schiavo del gioco, appare irrisolto da un legnoso Ferzetti incapace di conciliare in modo accettabile le due facce di questo novello dottor Jekyll.

Dino Risi, nato a Milano nel 1916, si dedica al cinema dai primi anni quaranta. Dapprima aiutante di Lattuada (per Giacomo l’idealista, 1943), si rifugia in Svizzera durante il periodo della guerra civile; rientrato in Italia alla fine della guerra, riprende a lavorare a Cinecittà. Dopo alcuni cortometraggi e qualche sceneggiatura, Risi esordisce alla regia intorno ai trentacinque anni con la commedia gialla Vacanze col gangster (marzo 1952; 90 min.), di cui firma anche soggetto e sceneggiatura (quest’ultima con Ennio De Concini). Il film, piacevole e senza troppe ambizioni, si inserisce, a modo suo, nel solco del nascente poliziesco italiano con una storia palesemente fittizia, riverbero nella fantasia di una banda di cinque ragazzini intraprendenti, delle letture di romanzi avventurosi quali Il conte di Montecristo, della visione di numerosi gialli holywoodiani e, infine, di qualche ingenuo fumetto dell’epoca.
Per farla breve i cinque, guidati da Gianni (un Mario Girotti dodicenne, futuro Terence Hill), decidono di far evadere il detenuto n. 5823 (Lamberto Maggiorani, l’interprete di Ladri di biciclette) poiché convinti della sua innocenza (è loro giunto, in modo rocambolesco, una sua dichiarazione al riguardo). Purtroppo, anziché Maggiorani, fugge dal carcere Jack Mariotti (Marc Lawrence) un vero criminale e i ragazzi avranno il loro da fare, dapprima per sfuggire alle sue grinfie, poi per assicurarlo alla giustizia in un brillante finale, quando, su una nave abbandonata, riescono a renderlo inoffensivo mentre il pericoloso bandito, dimostrandosi assai poco riconoscente, spara contro di loro un intero caricatore di pallottole.
La pellicola si snoda veloce e accettabile: Risi dimostra il proprio talento sia nel dirigere i cinque ragazzi (forse memore della bella prova di Comencini di Proibito rubare, 1948), sia nel calibrare attentamente serietà e ironia, realismo (il criminale è realmente un tipaccio) e gioco letterario, colpi di scena e citazioni dall’universo della finzione romanzesca. Il risultato è una pellicola che può accontentare il pubblico dei giovanissimi senza annoiare spettatori più maturi.
L’ambientazione - tra aule scolastiche, luoghi di villeggiatura e ambienti carcerari - è varia e assai curata mentre un finale tocco di amarezza (la morte del fedele cane Annibale, per mano dell’evaso) fornisce il giusto contrasto, così da evitare lo scivolamento verso toni eccessivamente zuccherosi.
Durante l’intera vicenda, i giovani si esaltano all’idea di prendersi gioco delle guardie carcerarie, guardano con evidente antipatia alle forze dell’ordine (si immagina con gioia che il loro protetto possa “farle secche” o quanto meno “renderle inoffensive”), dimostrando una fantasia già ampiamente plagiata da una letteratura popolare sensazionalistica (filmica e non) che tende a privilegiare la figura dello spostato e del malvivente. Quando invece sono poi loro a rischiare la pelle, allora il sopraggiungere della polizia corrisponde al sospirato “arrivano i nostri” del coevo cinema western hollywoodiano e la visione delle cose si rovescia in pochi minuti. Il seppellimento del povero Annibale, ferita che rimarrà a perenne ricordo della sciocca impresa, ribadisce la distanza tra finzione e dura realtà, tra personaggi di cartapesta e criminali reali, pronti a sopprimere chiunque si ponga sulla loro strada, compresi i propri ingenui “benefattori”.
Anche dal punto di vista etico, il film possiede dunque elementi di un certo interesse laddove mette in guardia dalle illusioni della fiction e ristablisce un solido confine tra il Bene e il Male.
Due ultime notazioni: il pubblico snobba il film, mostrando di non gradire questo prolematico connubio di giallo realistico e di racconto per ragazzi. Inoltre nella pellicola accanto all’esordiente Terence Hill si trova, in un ruolo secondario, niente meno che l’esordiente Bud Spencer (Carlo Pedersoli).

Luigi Capuano, nato a Napoli nel 1904, inizia a dirigere film solo nel dopoguerra. Gli innocenti pagano (gennaio 1952, 95 min.), dramma familiare con sfumature gialle su soggetto e sceneggiatura propri (in collaborazione con altri), è il suo quinto lungometraggio. Vi si raccontano le vicissitudini di due anime smarrite, Adriana Sereni (Lida Baarova) e Stefano Rella (Otello Toso) le quali, dopo aver affrontato dure prove, finiranno con lo scoprirsi innamorate e convoleranno verso una felice convivenza. La prima ha avuto la figlia Ada (la piccola Paola Quattrini) da Massimo Artesi (Mino Doro), potente fattore locale che la ospita da anni in una cascina interna alle sue proprietà. Qui la donna viene insidiata da Giovanni (Ignazio Balsamo), un perfido lavorante del padrone mentre lo sbandato Stefano (la cui moglie lo ha lasciato negli anni della guerra), anch’egli dipendente del fattore, difende la donna e ne diviene amico. Reduce, disgustato dalla violenza bellica, percepita come una carneficina priva di sensate motivazioni, Stefano porta nella pellicola un’aura di moderno scetticismo, quanto meno nei confronti della violenza quale metodo per risolvere contese piccole e grandi. E’ una figura originale, nella quale si incarna un giudizio netto, disincantato e razionale nei confronti della recente tragedia bellica dalla quale tutti sono usciti segnati e impoveriti (quanto meno umanamente, visto che alcune catogorie  sociali si sono arricchite con la guerra).
Il melodramma si complica con le nozze di Artesi, la cui moglie (Mariella Lotti) si scopre sterile. A quel punto l’uomo cerca di togliere la bambina all’amante di un tempo, per adottarla col consenso della moglie. L’intreccio si ingarbuglia ulteriormente per le losche trame dello spasimante rifiutato il quale finisce con l’uccidere, per errore, il padrone e viene arrestato. Scomparsi i due rivali, Stefano può unirsi ad Ada e la coppia può iniziare una nuova vita.
Oltremodo inverosimile e artificioso nella sceneggiatua, il fim possiede tuttavia un buon ritmo, attori convincenti e un succedersi di colpi di scena degno del teatro lirico. D’altronde la presenza di due amorosi ostacolati (un soprano e un tenore), di un rivale pericoloso (un beritono) e di un uomo potente nello sfondo (un basso) offre una struttura drammatica derivata da quella della tradizione melodrammatica. Una volta accolta senza riserve la struttura narrativa teatrale o, se si preferisce, da romanzo d’appendice, se ne può dunque gustare il procedere crudo e appassionato, la qualità delle inquadratura che privilegiano le immagini di insieme (i campi totali) e il duro cozzare di passioni forti e univoche.
Vi si può inoltre ritrovare quel mondo della Tradizione alle sue ultime apparizioni nel quale il problema della discendenza (dell’assicurare una continuazione al proprio mondo di affetti e di cose) viene sentito come centrale e ineludibile. Così vediamo Massimo Artesi, scoperta sterile la moglie, lottare con mezzi finanche meschini pur di assicurarsi la piccola figlia di Adriana, fino a quel punto completamente trascurata; assistiamo al dramma lacerante del suocero di Stefano che, sconvolto, si presenta al genero annunciandogli che sua figlia è morta (come già sua nipote) e che dunque tutto ciò che possiede andrà “perduto”, rimarrà insomma senza erede legittimi; di contro il finale positivo consiste proprio nel rigenerarsi di un nucleo familiare (per quanto problematico) con l’unione di Adriana, di sua figlia e di Stefano nella casa del suocero: la vita continua felicemente solo allorché si garantisce la salda unità della cellula familiare, capace di generare la vita.
Gli innocenti pagano si inserisce dunque nel solco del giallo di impronta familiare il cui modello indiscusso rimane Catene di Matarazzo: la molla dell’azione estrema, illegale se si preferisce, è determinata dalla difesa posta in essere nei confronti di chi insidia il nucleo familiare, la sua naturale, indissolubile unità.
Questo taglio arcaizzante, sotteso alle violente trame che animano la piccola comunità del padrone Artesi, infonde una strana luce alla pellicola e le dona quel carattere forte e concreto nel quale perfino gli evidenti artifici della costruzione melodrammatica, si stemperano.
Lo stesso può dirsi per il seguente Ergastolo (maggio 1952; 90 min.), dramma giudiziario basato su un soggetto di Armando Curcio sceneggiato da quest’ultimo e da Capuano. Il regista napoletano propone ora una sorta di variazione sui temi del precedente film: Stefano (Franco Interlenghi), figlio cresciuto senza il padre, cade in una trappola tesa da una banda di malviventi e finisce con l’essere incolpato di un omicidio che non ha commesso. La madre disperata (Leda Gloria) convince il celebre avvocato Leonardi (Sandro Ruffini), suo ex amante e padre naturale di Stefano, ad accettare la difesa del giovane. Tutto si rivela inutile e il padre, resosi conto dell’errore commesso nel trascurare quel figlio, muore per il dolore di vederlo condannato all’ergastolo. In extremis tuttavia la fidanzata (Hélène Remy) scopre i veri assassini e riesce a denunciarli alla polizia.
La riflessione inerente alle difficoltà di crescere senza una solida guida diviene ancor più esplicita in questo melodramma cupo e suggestivo. Le atmosfere dell’espressionismo tedesco di Lang, filtrate attraverso la recente tradizione del noir hollywoodiano, giungono fino alla scuola di danza che funge da covo dei falsari e dei criminali: in quel luogo claustrofobico, ritratto con i violenti chiaroscuri simbolici di uno spazio fisico oscuro, posto al di fuori della quotidianità e delle sue leggi morali, Stefano suona il violino per guadagnare qualche soldo. In realtà è un giovane “cresciuto senza guida” (le parole sono quelle dell’amareggiato padre), irretito nel gioco d’azzardo e facile preda da parte di Jeannette (Marisa Merlini), la seducente padrona della scuola in combutta coi criminali. Il nocciolo del dramma è pertanto costituito dal percorso umano di un ragazzo il quale non è riuscito a formarsi una personalità matura con il solo ausilio della figura materna, insufficiente a fornire i necessari modelli di comportamento utili ad affrontare le numerose, dure prove dell’esistenza.
L’abitazione di Stefano è linda e ordinata ma, in essa, il tormentato giovane non si sente a proprio agio e litiga con la comprensiva e onesta fidanzata. Nei luoghi della notte, del gioco e dell’ambiguità sensuale egli sembra trovare una realtà più soddisfacente fino a quando non diviene preda della furbesca banda di trafficanti che decide di scaricare su di lui l’omicidio del capo del clan.
Giunti a metà film, arrestato il giovane, l’azione abbandona i chiaroscuri noir e si sposta in tribunale ove Capuano firma nuove pagine di valore (dopo quelle ambientate nella scuola di danza) come il pianosequenza circolare che accompagna la requisitoria del Pubblico Ministero, pianosequenza durante il quale, come in un sinistro incubo, emergono dal buio e presto dileguano i volti furbeschi e torvi dei malfattori. Anche il dramma del padre avvocato (padre, fino all’ultimo, ignoto al figlio) viene narrato con sincera partecipazione mentre la conclusione è nuovamente affidata allo scenario chiave della scuola di danza, deserta e avvolta in tetre, desolate luci (è possibile che l’ex critico cinematografico Dario Argento, scegliendo una scuola di danza quale luogo in cui ambientare il suo capolavoro - Suspiria - sia stato influenzato da questa pellicola di Capuano).
La visione umana e sociale dell’autore si riconferma quindi come fermamente allineata con la Tradizione: il disordine sessuale (l’anziano avvocato è un noto playboy che ha fatto strage di cuori) è una debolezza che causa incalcolabili danni quando genera figli non desiderati e - di conseguenza - trascurati, né il tardivo riconoscimento dei medesimi può servire a qualcosa. Il male incombe ai margini della società sotto forma di seducenti scuole di danza (anticipazioni inconsapevoli delle future, onnipresenti, frastornanti discoteche) e i più deboli, i meno attrezzati o anche semplicemente i più inclini al crimine finiscono con il soccombere.
Capuano si ispira all’universo dei supercriminali dell’espressionismo tedesco (si pensi al Mabuse di Lang) e alle vertiginose trame oniriche di alcuni noir americani (ad esempio La donna del ritratto, ancora di Lang) ma non cede alla tentazione di farsi soggiogare dalla confusione dei valori e dal fascino della trasgressione: luci e ombre, innocenza e colpevolezza, dirittura morale e rapaci passioni vengono distinte con forza e ritratte nella loro inequivoca distanza.