La corona di ferro e La cena delle beffe

La corona di ferro, La cena delle beffe e Accadde a Damasco: tiranni e soverchiatori (1941-43)

                “Solo chi dell’amore la potenza rinnega
                solo chi dell’amore la gioia respinge
                costui solo la magia conquista
                di costringere l’Oro in anello”
                (Woglinde in Das Rheingold di R. Wagner)

Alessandro Blasetti nasce a Roma il 3 luglio 1900, figlio di Cesare, oboista e professore di conservatorio e di Augusta Luliani. Si laurea in legge nel 1924, ma intanto svolge attivita' di giornalista e di critico cinematografico. Esordisce alla regia cinematografica con Sole (1929), lavoro volto a esaltare la coeva politica delle bonifiche posta in atto dal fascismo. Negli anni trenta, dopo il severo e poco fortunato 1860 (1933), Blasetti celebra la marcia su Roma con Vecchia guardia (1934), film troppo realistico che divide un regime nel quale si preferisce non rievocare in modo troppo dettagliato l’ascesa al potere avvenuta in un clima di diffuse violenze.
Nel primi anni quaranta, mentre il conflitto da breve si tramuta rapidamente in guerra lunga e pericolosa, Blasetti cambia atteggiamento nei confronti della dirigenza politica ed accetta di dirigere per la casa di produzione torinese Lux di Guarino La corona di ferro (ottobre 1941; 89 min), un kolossal fantastico nel quale, sommerso da una moltitudine di simboli, appare evidente il messaggio antifascista. Presentato alla mostra di Venezia la pellicola riscuote un pieno successo e viene addirittura premiata con la coppa Mussolini, quasi a volerne esorcizzare il carattere “eversivo”; nonostante questo riconoscimento piuttosto sconcertante, rispetto agli onori fascisti appare più appropriato il giudizio di Goebbels, ministro della cultura del Reich hitleriano, il quale (ospite alla manifestazione veneziana) afferma: “Se un regista tedesco avesse realizzato questo film in Germania sarebbe stato messo al muro”.
La pellicola, sceneggiata dal regista con Renato Castellani, Corrado Pavolini ed altri, porta in scena un incredibile collage di reminiscenze storiche e soprattutto operistiche che si muovono dall’impianto del celebre Ring wagneriano (1876) cui si aggiungono citazioni dal Guillaume Tell (1829) di Rossini-Schiller, dal Macbeth (1847) di Verdi-Shakespeare e dalla recente Turandot pucciniana (1924). In un’indefinita epoca arcaica il re Sedemondo (Gino Cervi) è il prototipo del tiranno bellicoso e crudele; egli giunge al potere uccidendo a tradimento suo fratello, il re Licinio, e si può ben dire che per il nuovo despota, come per i personaggi della tetralogia wagneriana dell’anello, il mantenimento del Potere coincide con la rinuncia all’Amore. I suoi oppositori più tenaci fanno spesso riferimento proprio a questo carattere tenebroso del loro nemico mentre una profetessa, ricalcata sulle streghe del Macbeth e sulle Norne del Gotterdammerung, preannuncia al dittatore la fine del suo regno. Vent’anni dopo, durante un lungo torneo di cavalieri volto a stabilire chi dovrà essere il marito della figlia (Elisa Cegani) di Sedemondo, Arminio, figlio di re Licinio, creduto morto dal tiranno che lo aveva abbandonato bambino in una valle popolata da leoni, vince la prova e apre la strada alla riscossa alla giovane Tundra e al suo popolo un tempo vinto dal tiranno e costretto ad un lungo servaggio.
Gli eventi si muovono in un contesto fantastico generato dalla corona di ferro, simbolo di Amore cristiano e massonico il quale, bloccato dall’arrogante Sedemondo nel suo tragitto verso la “Roma cristiana” si installa entro le rocce del suo scellerato regno al fine di redimerlo e riportarlo alla “luminosa” Armonia; nel finale, dopo che il despota è impazzito, le nozze tra Arminio e Tundra ristabiliscono la pace generale.
Non si può che restare stupiti di tanta audacia per un’opera realizzata con vastità di mezzi e posta con baldanza al centro della scena cinematografica del periodo: vi si racconta, per allegoria, l’auspicata fine dei regimi dell’Asse ad opera dell’alleanza di forze massoniche e cristiane (ovvero anglosassoni e vaticane), poste sotto il segno della tolleranza e dell’amore. Negli anni della furibonda polemica antborghese e di una fascistizzazione totale di ogni aspetto dell’esistenza questa pellicola si muove controcorrente ed opta per un pacifismo pietoso e per l’encomiabile ideale di una coesistenza concorde di popoli un tempo nemici. La casa di produzione Lux (ai suoi esordi) appare mossa da intenti critici e di netta (seppur prudente nelle forme) opposizione alla politica mussoliniana, che verranno confermati dai lavori successivi (si veda quanto detto per I promessi sposi di Camerini, usciti due mesi dopo).
La scrittura blasettiana conferisce all’insieme un indubbio fascino figurativo-musicale: immagini di un universo selvaggio e fantasioso (completamente ricostruito a Cinecittà con enorme dispendio di mezzi), ritratto spesso da fluidi e sinuosi movimenti di macchina, si fondono con onnipresenti fanfare wagneriane mentre la recitazione dei protagonisti sa essere solenne senza perdersi in enfasi retoriche e fastidiose, animata inoltre da punte ironiche (si veda soprattutto la performance di Cervi) finalizzate ad alleggerire il contesto generale della narrazione.
La cena delle beffe, testo teatrale di successo (Roma, 1909) dello scrittore toscano Sem Benelli, aveva gia' trovato una felice trascrizione operistica nel lavoro omonimo (Scala, 1924) di Umberto Giordano, l'autore dell’Andrea Chenier (1896). Di questa sanguinosa e perfida vicenda Blasetti gira una versione dignitosa e fedele (febbraio 1942; 86 min), nota soprattutto per la famosa scena di nudo di Clara Calamai (gli ambienti cattolici criticano aspramente il lavoro e parlano di "un intreccio di libidine, di brutalita' e di libertinaggio"). Si tratta inoltre di una testimonianza della crescente "complicita' " tra universo lirico e cinematografico: nell'arco di un paio di decenni infatti l’arte filmica eclissera' completamente l'opera come spettacolo popolare, sostituendo al racconto in musica il racconto per immagini e la pellicola di Blasetti, in breve tempo assai più nota della pregevole (ed artisticamente assai superiore) partitura di Giordano, è certamente un caso emblematico.
Nel raccontare il complicato intreccio di Neri, Giannetto e Ginevra nella Firenze di Lorenzo il Magnifico Giordano aveva compreso le avvincenti potenzialità del testo e lo aveva immerso in una serrata “colonna sonora” di stampo cinematografico, priva di indugi lirici e segnata da un ampio uso di leitmotive. Blasetti si muove nel medesimo solco e comprende che il valore del testo consiste proprio nel concitato susseguirsi di colpi di scena. Così le angherie del prepotente Neri (un insolito Amedeo Nazzari) nei confronti di Giannetto si intrecciano con le subdole macchinazioni di quest’ultimo che riesce a giocare il temibile nemico fino a rubargli la sensuale Ginevra, a farlo credere pazzo, ad incarcerarlo ed infine ad attirarlo in un terrificante ed ingegnosa trappola notturna nella quale l’accecato energumeno, credendo di uccidere l’odiato rivale, ammazza invece il proprio fratello. Tutto ciò viene raccontato dal regista romano con un efficace senso del ritmo, una cura per l’ambientazione in eleganti interni rinascimentali ed una capacità di ritrarre la teatrale malvagità di Giannetto (Osvaldo Valenti), resa ancor più viscerale dal suo morboso attaccamento alla bella Ginevra (Clara Calamai): é questa cortigiana spregiudicata, dalla quale emana una torbida sensualità, l’elemento centrale intorno al quale gira questo vortice di passioni incontrollate e demoniache.
Alle prese con una materia tanto incandescente, Blasetti accentua l’erotismo delle immagini sia attraverso la celebre scena del seno nudo di Ginevra, sequenza la cui morbosa intensità è accentuata dalla componente sadica (la veste viene strappata in pubblico alla donna da un beffardo Neri al fine di suscitare la gelosia e lo sdegno del rivale), sia mediante un lungo episodio nel quale l’attrice compare con una veste trasparente. La Calamai ricorda che “la faccenda del seno nudo non era affatto prevista dalla sceneggiatura. Ce la mise Blasetti, ma per convincermi dovette faticare parecchio. Fui costretta a cedere......Lui decise che il seno si doveva vedere e si vide”.
In un’Italia scossa dalle vicende belliche il ricorso a forme spettacolari nuove e scandalose è un buon espediente per distrarre (per quanto possibile) l’attenzione dalle disgrazie quotidiane, nonchè per affermare l’esistenza di una cinematografia statale autonoma dagli anatemi vaticani (nel decennio precedente Pio XI aveva manifestato una profonda antipatia per il cinema, definito strumento di traviamento morale). D’altronde nei primi anni trenta Hollywood, di fronte allo sconquasso prodotto dal crollo del 1929 e dalla susseguente profonda crisi economica, aveva fatto ricorso a una strategia analoga con le pellicole audaci di Mae West, con quelle sanguinarie di Howard Hawks e con le strampalate gag dei fratelli Marx. 
La cena delle beffe sembra avere pochi punti di contatto con il precedente affresco pacfista; eppure una continuità, tutt’altro che trascurabile, esiste: in entrambi i film le macchinazioni sono generate dalla prepotenza di un personaggio canagliesco e tirannico. In fondo la perfidia di Giannetto e le sue temibili trame non sono generate dalla pura malvagità di un novello Iago; sono invece la risposta spaventata nei confronti dell’arrogante persecutore Neri il quale, dominato dalle proprie materialistiche passioni, crede che nulla e nessuno possa opporgli valida resistenza. Nel suo piccolo, in un ambito “cameristico” rispetto alle movente “sinfonico-corali” dell’opera precedente, Neri rappresenta una sorta di replica di re Sedemondo (Blasetti concepì il film proprio mentre stava girando La corona di ferro) e come quello finisce per perdere ciò che gli è più caro (il fratello) e per smarrire la ragione. Tra le righe dunque è nuovamente leggibile l’auspicio blasettiano di una caduta dei dittatori i quali hanno esagerato nelle proprie ribalderie, trascinando l’Europa nel sangue guidati da astratti disegni nei quali si evince soprattutto una sorda e lugubre volontà di potenza.

Tiranni ridicoli si trovano invece nella coproduzine italo-spagnola Accadde a Damasco (set 1943; gen.1943 in Spagna; 85 min,) firmata dai registi Josè Lopez Rubio e Primo Zeglio per la versione italiana.
Si tratta di una sorta di opera buffa che mette in immagini la zarzuela La meraviglia di Damasco (El asombro de Damasco, 1916) di Antonio Paso y Cano, opera in due atti ispirata a un racconto de Le Mille e una notte che ancora oggi viene saltuariamente rappresentata in Spagna. Vi si narrano le comiche peripezie di Zobaida (Paola Barbara) la cui bellezza acceca trafficanti e tiranni i quali le promettono giustizia in cambio delle sue grazie. La giovane, infatti, sta cercando di farsi restituire un prestito da un mercante avido e furbastro (Miguel Ligero), il quale si trasforma nel primo dei suoi pretendenti. Dopo fantasiose peregrinazioni Zobaida riesce a far punire i malandrini e diviene la moglie del potente califfo.
La pellicola, girata con discreti mezzi a Barcellona, tra canti (abbastanza circoscritti), balli e un Oriente di cartapesta, risulta di scarso interesse. E’ un esempio abbastanza isolato di fiaba orientale, dai toni farseschi, la cui serenità di fondo riflette più la realtà spagnola che quella italiana, ormai entrata nella fase più acuta del conflitto mondiale.
Il film è una delle tante riconferme della continuità esistente, in quel periodo, tra teatro lirico e racconto per immagini.

 

                           testo scritto nell’apr. 2005; ultimo aggiornamento: ott. 2017