Pazza di gioia, Alessandro, sei grande!, La forza bruta, Il prigioniero di Santa Cruz, Beatrice Cenci, Nozze di sangue e Villa da vendere: crimini e misfatti (1940-41)
Carlo Ludovico Bragaglia nasce a Frosinone nel luglio 1894. Figlio di un tecnico della Cines, il giovane verso la fine degli anni dieci si dedica al teatro ed in seguito al cinema. L’esordio come regista
avviene con O la borsa o la vita (1932) cui segue una ricca produzione filmica (almeno una pellicola l’anno) fino agli anni quaranta durante i quali Bragaglia intensifica l’attività (tra il 1940 e il 1945 firma ventidue film) segnata da una notevole padronanza del mezzo seppure, come si può intuire, non piegata all’espressione di un universo poetico personale e suggestivo.
La commediola Pazza di gioia (marzo 1940; 78 min.) su un soggetto dello stesso Bragaglia (ripreso dal film Zwei in einem auto del regista austriaco Joseph Mandel, poi Joe May, 1931, inedito in Italia) aiutato in sede di sceneggiatura da Aldo De Benedetti, interpretata da uno sprecato Vittorio De Sica racconta gli equivoci, tutti assai prevedibili, di un conte che, pur di sedurre una commessa (Maria Denis), dapprima si finge un povero contabile, poi uno spietato avventuriero, nel corso di un viaggio piacere in automobile. Girata nel 1939 la pellicola risulta ovviamente estranea agli umori tesi e drammatici del nuovo decennio; in essa si guarda ancora con benevolenza all’universo di una sfaccendata aristocrazia (sebbene sempre attratta dalla semplicità degli umili piccolo borghesi) e cerca di divertire un pubblico ingenuo con miserabili gag. Fin dalla improbabile e anacronistica trovata di partenza (una commessa decide di trascorrere le proprie vacanze viaggiando sola con un estraneo, conosciuto tramite un’inserzione) tutto suona fasullo; quando poi, all’interno di un contesto artefatto (tipico peraltro di buona parte dell’innocuo e rassicurante cinema italiano degli anni trenta), il protagonista decide di recitare la parte del ladro in fuga la corda si spezza: fare la parodia del giallo, giocare alla simulazione in un contesto tanto mediocre e di per sé sufficientemente inverosimile, mette a dura prova la pazienza dello spettatore intelligente.
Altrettanto modesto risulta Alessandro, sei grande!
(ago. 1940; 70 min.), sempre diretto da Carlo Ludovico Bragaglia e sceneggiato da Dino Falconi, Vittorio Metz ed altri, commedia incentrata sulle disavventure di Alessandro Dell’Incanto (Armando Falconi), affarista squattrinato e imbroglione, il quale rivece la visita di un italoamericano (Luigi Almirante) che lo informa dell’esistenza di un cugino americano ricchissimo. Il protagonista si affretta a far credere a tutti che tale cugino è morto e che lo ha lasciato erede universale; spuntano però altri parenti, altrettanti avidi ed ipocriti mentre il visitatore - il quale, come ovvio, è il cugino medesimo - si diverte non poco di fronte a questo indegno spettacolo in cui si percepiscono reminiscenze del Gianni Schicchi (1918) pucciniano. Nel frattempo il figlio (Leonardo Cortese) del faccendiere si innamora della figliola (Dina Sassoli) di una delle vittime del padre, i parenti fniscono su un piroscafo diretto negli Usa e una cantante (Vivi Gioi) di varietà allieta la bella compagnia mentre cerca di convincere Alessandro a finanziarle uno spettacolo di varietà...
Insomma il solito pasticcio, senza capo nè coda, recitato in modo sommario e poco convinto, privo di situazioni (o anche solo battute) realmente comiche e fatto di figure astratte ed inverosimili che si muovono in un
contesto tutto teatrale (gli esterni sono quasi inesistenti). Anche il colpo di scena finale è ampiamente scontato. L’unico elemento di interesse consiste nel quadro insolitamente negativo (considerate le precise direttive
del ministero della Cultura popolare fascista) che viene dipinto dagli autori: quasi tutti i personaggi sono segnati da un mendace opportunismo ed appaiono dei nullafacenti o peggio dei truffatori; l’unico a salvarsi è anche
l’unico ad arrivare dall’estero, addirittura da quegli Stati Uniti che, tra meno di due anni, saranno in guerra con il regime della penisola e la invaderanno con intenzioni assai meno bonarie rispetto a quelle che animano il
ricco cugino americano, arrivato in Italia alla ricerca dei suoi parenti. La forza bruta (gen. 1941; 80 min), il cui soggetto si ispira alla commedia La fuerza bruta di Jacinto Benavente, sceneggiato dal regista insieme a Ivo Perilli, Ezio d’Errico ed altri, racconta il consueto tringolo sentimentale posto sul fondale animato e umoristico di un circo. Il trapezista Fred (Rossano Brazzi) insegna il mestiere alla giovanissima Diana (Germana Paolieri) di cui si innamora, facendo infuriare la collega ed ex amante Maria (Maria Mercader). Quest’ultima si vendica sparlando della rivale: Fred, turbato, cade dal trapezio e si ferisce gravemente; Diana lo cura ed insieme abbandonano il circo per affrontare una differente esistenza.
Mentre la vicenda amorosa, posta in prima piano, si dipana senza sorprese il film riesce invece ad interessare per due aspetti solo apparentemente marginali: la figura di Bob, splendidamente interpretata dall’attore
spagnolo Juan De Landa (sarà di lì a poco uno dei protagonisti della viscontiano Ossessione) e la cornice del circo. Il primo vigila sulla giovane in modo paterno (ha almeno il doppio degli anni della ragazza) durante
l’intera vicenda; ne è segretamente innamorato ma non lo lascia intendere che attraverso piccoli gesti. Pur di stare con Diana si adatta a fare il pagliaccio nel circo e soffre i silenzio fino all’ultimo, assistendo al fiorire
del tempestoso amore tra i fue trapezisti. Bragaglia filma con buona sensibilità il cruccio dell’uomo e ne valorizza l’intensa, sofferta mimica mediante una serie di efficaci primi piani, in molti dei quali il volto truccato
con i segni buffoneschi del pagliaccio rimanda alla figura del geloso Canio nel dramma lirico Pagliacci (1892) di Leoncavallo. Entrambi infatti devono far ridere anche quando il loro cuore è spezzato: la lacerante
compresenza di questi due antitetici stati d’animo approda così a momenti di reale, potente poesia. Il secondo punto di forza della pellicola si trova nella vivace descrizione della vita quotidiana del circo con i suoi
pittoreschi personaggi, i mille problemi organizzativi, i momenti di gioia, di euforia e di dolore, una descrizione non lontana da quella che si troverà in seguito in alcuni capolavori felliniani (La strada, 1954, in cui
sembrano trovarsi reminiscenze della prima parte del film allorché Bob e Diana conducono un’esistenza errabonda, dando spettacoli nelle piazze dei paesini; I clown, 1968). Coadiuvato dalla presenza in scena del Gran
Circo Jarz (semplici attori non sarebbero stati in grado di ricreare la magica atmosfera del circo) Bragaglia offre pertanto un fondale che vale assai più dei risaputi drammi del terzetto dei protagonisti e comunque colloca il
momento culminante del film, (il grave incidente di Fred), nel cuore di un emozionante spettacolo con un vasto pubblico a fare da cassa di risonanza. La pellicola, prodotta dalla poco fascista Lux Film, mostra una
totale estraneità sia al circostante contesto bellico, sia ai valori del regime, optando per un solido cinema di pura e semplice evasione. Le stesse considerazioni valgono per Il prigioniero di Santa Cruz
(marzo 1941; 68 min) sempre di Bragaglia, girato a Cinecittà per la Lux Film, nel quale si ritrovano Juan De Landa e Maria Mercader. La modesta pellicola è ancora impostata sul noto triangolo amoroso (due rivali fanno la corte alla “primadonna”) ma questa volta il fondale è la vita marinara (il padre della ragazza, interpretato dal De Landa, è capitano nella marina mercantile) cui si aggiunge un intreccio giallo privo di ogni originalità il quale si interseca con il dramma sentimentale, ostacolandolo. Rispetto alla pellicola di due mesi prima il “nuovo” canovaccio non possiede una cornice vitale (allora si trattava del circo) ed anche il bravo interprete spagnolo del sofferente pagliaccio di La forza bruta non è in grado di lavorare (come nel precedente film) per sottrazioni e piccoli, intensi gesti, bensì opta per un ritratto melodrammatico, sanguigno ed in definitiva poco interessante del proprio personaggio.
Una costruzione filmica di natura poliziesca attraversa anche Beatrice Cenci
(settembre 1941; 80 min), pellicola di valore di Guido Brignone su soggetto e sceneggiatura di Tomaso Smith. La vicenda criminosa che porta alla rovina la famiglia Cenci si svolge a Roma nel 1598-99, durante il papato di Clemente VIII (1592-1605); documentata dalle cronache giudiziarie dell’epoca in seguito essa trova vasta eco in opere letterarie, storiche e pittoriche (una tela secentesca attribuita a Guido Reni); stranamente il teatro lirico italiano, con l’eccezione della Beatrice Cenci (1863) di Giuseppe Rota, trascura questo argomento (in epoca recente tuttavia, fuori dalla penisola, compaiono Beatrix Cenci,
1971, di Alberto Ginastera e Beatrice Cenci, 1994, di Berthold Goldschmidt). In ambito cinematografico si ricordano un paio di omonime pellicole del periodo del muto (Mario Caserini, 1909; Baldassarre Negroni, 1926) ed
una coppia di film posteriori a quello qui commentato (R. Freda, 1956; L. Fulci, 1969; vedi). La vicenda originaria è assai più scabrosa della versione che ne danno lo Smith ed il Brignone. Breatrice, violata dal crudele ed
autoritario padre, ordisce una congiura con la madre e lo fa uccidere da due sicari. Scoperta viene processata, torturata e mandata al supplizio. A questa versione si ispiarno liberamente, tra gli altri, lo scrittore inglese
Percy Shelley in The Cenci (1819) e poi il patriota italiano Domenico Guerrazzi che scrive in carcere il romanzo Beatrice Cenci (1854); racconti brevi sul tema vengono redatti da Stendhal e da Alexandre Dumas padre. Nella prima metà del Novecento Corrado Ricci stende una biografia storica (1923) intorno all’infelice creatura ed è soprattutto attingendo ad essa che si concretizza la pellicola di Brignone.
L’autore filma con buon senso del ritmo e con l’occhio attento essenzialmente al complotto che lentamente viene costruendosi intorno alla figura del crudele Francesco Cenci (Giulio Donadio). Eliminato il riferimento troppo
scabroso alla violazione della figlia (tutto ora si riduce al tentativo di Beatrice, tenuta prigioniera nel castello dal turannico padre, di fuggire insieme all’amante), il regista costruisce un complicato e fuorviante
meccanismo intorno al delitto, certamente memore delle strabilianti invenzioni di Agatha Christie. Ricordiamo che a partire dai primi anni trenta i Libri gialli di Arnoldo Mondadori hanno reso popolare la giallista inglese (ed
in generale la vasta letteratura del mystery inglese) in Italia. Sfrondata e ridotta all’essenziale l’ambientazione cinquecentesca, la pellicola fonde con abilità il traliccio del giallo enigmatico con gli schemi del cinema
giudiziario americano, ambientato nelle aule dei tribunali. Così nella seconda parte lo spettatore rivive l’oscura vicenda criminosa attraverso la graduale ricostruzione che, con fatica, il giudice romano va rimettendo insieme
sulla base di indizi ed intuizioni, smascherando le innumerevoli menzogne dietro le quali quasi ogni personaggio va nascondendosi. Ed ancora il finale suona beffardo poiché Beatrice viene considerata colpevole di omicidio (e
mandata al patibolo) laddove essa fu invece (in questa versione) l’ignaro strumento di un complotto in definitiva ordito dal fratello Giacomo Cenci (Osvaldo Valenti) per eliminare il padre (ella crede di far bere al padre un
narcotico ed invece il fratello le ha fornito un potente veleno). Brignone si avvale di ottimi interpreti (soprattutto l’intensa attrice tedesca Carola Hohn nel ruolo principale), di una sapiente alternanza dei piani
dell’immagine (numerosi i primi e primissimi piani volti a scoprire la sofferenza di Beatrice, la sua paura e il suo stupore) e soprattutto di un brillante uso del montaggio mediante il quale mostrare e nascondere i pezzi di un
complesso puzzle in un andirivieni temporale di grande modernità. In alcune sequenze la realtà viene poi ricomponendosi nell’intersecarsi dei racconti dei differenti testimoni svolti dai loro rispettivi, differenti punti di
vista e la pellicola sembra allora anticipare l’uso del tempo e della narrazione in soggettiva presente nel capolavoro kubrickiano The Killing (Rapina a mano armata, 1956). Il film mostra dunque, come il celebre Rashomon (1950) di Kurosawa, la difficoltà del giudice-detective di riappropriarsi della verità assoluta; e si badi questa figura cinquecentesca può far ricorso, senza alcuna remora, allo strumento della tortura quale mezzo ordinario per costringere i testi alla confessione. Ciononostante il senso ultimo degli eventi gli sfugge e l’epilogo (il supplizio della protagonista) mostra in definitiva l’avverarsi di un errore giudiziario. Tale visione intimamente scettica costituisce un ulteriore elemento di modernità dell’opera.
Le sequenze della tortura posseggono, in se stesse, qualità “straordinarie”: l’autore vi cerca l’effetto forte, usa in modo incisivo l’ellisse, induce il quadro generale (senza mai mostrarlo) da una serie di espressivi
dettagli, capaci però di raccontare tutta sofferenza delle vittime; ciononostante egli non aggiunge il minimo segno di riprovazione morale intorno alla condotta del giudice ed alla pratica medesima della violenza su imputati di
cui non si è provata alcuna colpevolezza. Brignone riesce così a rievocare con freddezza (senza morbosi compiacimenti) un costume barbaro, perfettamente calandosi nell’universo storico che dipinge ed evitando di sovrapporre ad
esso la sua valutazione di uomo del Novecento. Si è detto, parlando di Kean (1940; vedi), che il regista si era attenuto alle linee populiste ed antiaristocratiche insite nella politica del regime. In Beatrice Cenci la descrizione tagliente di un universo nobiliare dominato dal sadismo e dalla protervia (la figura del padre), nonché da un edonismo capriccioso, capace di giungere fino al delitto per salvaguardare i propri privilegi (il figlio assassino) conferma e rafforza l’intenzione polemica presente nella pellicola di un anno prima: i nobili “si confermano” una classe sociale parassitaria e nefanda. Il sottinteso ideologico riguarda ovviamente la realtà fascista che tali disarmonie ha saputo cancellare e rigettare nella pattumiera della Storia avendo ad esse sostituito la realtà fattiva di una conciliazione tra gli strati sociali presente nella rivoluzione corporativa. La stretta adesione alla politica mussoliniana appare infine evidente nella breve apparizione di un usuraio ebreo descritto con evidente malevolenza: dopo le leggi razziali (1938) l’ebraismo viene considerato una sorta di aristocrazia parassitaria, imbelle e pericolosa in quanto schierata contro gli interessi nazionali; la pellicola di Smith e Brignone sembra allinearsi a questa concezione razzista.
Goffredo Alessandrini presenta al festival di Venezia Nozze di sangue (set. 1941; 90 min.), liberamente trattto dal racconto Immacolata di Lina Pietravalle. Ambientato in un paese
indeterminato dell’America del Sud, il film narra l’infelice odissea di Immacolata (Beatrice Mancini), sposata per procura dall’aitante e superficiale Gidda (Fosco Giachetti) il quale, quando si tratta di andare ad accogliere
la sposa che giunge dall’Italia, manda un giovane e sprovveduto amico (a causa di sopraggiunti impegni di lavoro) il quale si lascia imbrogliare dal perfido Pietro (Nino Pavese) che prende il suo posto, si spaccia per Gidda e
consuma la prima notte di nozze con la timida giovinetta. Scoperto il misfatto Gidda precipita in uno stato confusionale, nasconde l’evento, tiene la sposa segregata in casa e va a vivere con la sensuale locandiera Nazaria
(Luisa Ferida; una sorta di incrocio tra la Maddalena del Rigoletto e Carmen). Si giunge al regolamento di conti conclusivo nel quale la sottomessa Immacolata finisce ammazzata. Nozze di sangue è un evidente ricalco della tradizione del melodramma. I riferimenti al triangolo di Carmen (Don Josè-Micaela-Carme) e alla perfida locandiera del Rigoletto sono
espliciti e rafforzati da una discreta colonna sonora sinfonica di taglio operistico, composta dall’esperto Enzo Masetti. Il protagonista, positivo e generoso, è anche però un personaggio ottuso che affida ad altri il delicato
compito di andare ad accogliere Immacolata, pur sapendo che il malvagio Pietro è nei paraggi; il dramma che ne consegue è soprattutto determinato da questa sua colpa alla quale Gidda cerca di sfuggire, cedendo alle lusinghe
della bella Nazaria, fino a quando gli eventi non lo costringono a scontrarsi (a colpi di fucile) col rivale. Il film risulta pertanto prevedibile e opaco: il contesto è ricreato con modalità macchiettistiche; i personaggi sono
figure bidimensionali, derivanti dai palcoscenici operistici, oppressi dalle loro colpe e incapaci di gesti originali ed umani; la musica, poi, non è abbastanza interessante da riuscire a nobilitare questa materia narrativa
scadente. Infine la negatività dell’insieme appare politicamente giustificata in quanto relativa ad un universo straniero e ottocentesco, privo di relazioni con i valori della rivoluzione fascista.
L’unico elemento di interesse complessivo di Nozze di sangue rimane, appunto, il legame con l’universo lirico e la riprova che il percorso cinematografico italiano riparte da quel contesto artistico, opportunamente
adattato al racconto per immagini. Anche nel contesto del festival veneziano il film non riscosse grandi apprezzamenti.
Ferruccio Cerio, nato a Savona nel 1901, mette da parte una laurea in medicina e, a partire dagli anni trenta, si dedica al cinema. Dapprima scrive sceneggiature, poi, nei primi anni quaranta, esordisce alla
regia. Villa da vendere (novembre 1941; 85 min.), una modesta commedia con blande venature poliziesche, è il suo secondo lungometraggio; esso deriva dal film ungherese Ez a villa eladò (1935) scritto e diretto da Geza von Cziffra. E’ noto che, durante il ventennio, qualunque vicenda poco educativa e poco allineata con il tenore di vita (materiale e, soprattutto, ideale) instaurato dalla rivoluzione fascista, viene ambientata in stati più o meno esotici e imprecisati. In questo caso l’autore, attingendo direttamente a un film ungherese, si ritrova già confezionata un’utile ambientazione estera.
Franco Gàdori, un bislacco e svogliato proprietario (un Amedeo Nazzari un po’ fuori parte), nonché pieno di debiti, decide di vendere la sua sontuosa villa per racimolare qualche soldo, pagare i creditori e cambiar vita (si
noti che già questo personaggio appare poco consono allo “spirito” dell’Italia fascista). Affida il compito al suo maggiordomo (Nicola Maldacea) che, a sua volta incarica una coppia - zio e bella nipote (Vera Carmi) - di
poveracci senza casa. Questi ultimi nella villa trovano però tre malviventi i quali, a conoscenza della situazione, dichiarano di essere stati incaricati da Franco di cercare un compratore per la villa. Quando poi,
nell’abitazione, fa ritorno (inatteso) il padrone di casa - a tutti sconosciuto - gli equivoci si assommano numerosi (i malviventi lo credono un “collega”), fino al lieto scioglimento: nozze (Nazzari-Carmi), intervento di una
ricca zia a sanare i debiti e ladruncoli in galera. Lo spunto poteva anche dar luogo a una commedia divertente (sarebbe curioso visionare l’originale ungherese). Purtroppo il testo, gli interpreti e lo sviluppo degli eventi
sono fiacchi e privi di qualunque originalità. Inutile dire che il lato poliziesco del racconto è fasullo e operettistico come pure privo di brio è il susseguirsi degli equivoci che dovrebbe tener desta l’attenzione (anche
perché la situazione è, per il resto, totalmente statica). A questo si aggiunte che Nazzari si conferma poco adatto a ruoli comici e brillanti e anche gli altri interpreti recitano senza convinzione, con l’eccezione del
simpatico maggiordomo (il napoletano Nicola Maldacea). La presenza di una timida vena misogina (ben due sono le spasimanti che assediano Franco, in ragione dei suoi possedimenti immobiliari) ossia di modelli femmiili
tutt’altro che edificanti, è sempre giustificata dal fatto che siamo in Ungheria; le donne dell’Italia mussoliniana, in stragrande maggioranza, si comportano diversamente...
testo scritto nel 2005; ultimo aggionamento: ott. 2017
|