La monaca di Monza e  Isabella duchessa dei diavoli

La monaca di Monza, Puro siccome un angelo, papà mi fece... monaco di Monza, Isabella duchessa dei diavoli, Una sull’altra, Beatrice Cenci e Femmine insaziabili: conventi, inquisitori e avventuriere (1969)

              “Per una ragione misteriosa... in Italia si è verificata una specie di alleanza tra i pornografi, i decadenti, i degenerati e i partiti di estrema sinistra e più particolarmente il partito comunista”
              Panfilo Gentile, Opinioni sgradevoli (1968)

Il genere storico, giunto negli anni sessanta al suo crepuscolo, trova un’inattesa fortunata stagione conclusiva innestando argomenti scandalistici nel contesto narrativo. Inizia così la breve epoca (1969-1973 circa) dei film ambientati nei conventi, tra suore frustrate e frati dimentichi del voto di castità. Mentre gli esordi sono tutti italiani con La monaca di Monza (febbraio 1969; 102 min.) girato da Eriprando Visconti su una sceneggiatura propria e di Giampiero Bona, poco dopo il filone conosce il massimo “splendore” internazionale con il film - evento I diavoli (The Devils, K. Russell; 1970) ispirato ai noti fatti di Loudun (1634).
Come il sacrilego regista inglese, anche il nostro Visconti aggredisce con vigore le innaturali regole della vita monacale e non risparmia i colpi nel racconto largamente reinventato delle gesta della Signora di Monza (Anne Heywood) e del suo amante Giampaolo Osio (Antonio Sabato). Tutto si svolge entro un ambiente torbido e disgustoso (il convento appunto), dove suore e sacerdoti vengono descritti come pronti ad ogni turpitudine e facilmente dediti al ricatto. Il regista gira in modo tedioso, quasi sempre in interni (per risparmiare) con abbondanza di primi piani volti a mascherare la pochezza della ricostruzione storica, spreca un cast di tutto rispetto (tra gli altri Carla Gravina, Tino carraro, Luigi Pistilli), rende vana l’elegante e pittorica fotografia di Luigi Kuveiller (il quale, eliminando i colori più decisi, crea immagini di bella compostezza ispirate alle atmosfere visive di Rembrandt) e il discreto melodismo patetico di Morricone.
Inutile nascondere che l’unica ragion d’essere della pellicola (la terza del dopoguerra a occuparsi della Monaca di Monza, dopo quella di Raffaello Pacini, 1947, e di Carmine Gallone, 1962) consiste nelle sequenze erotiche nelle quali peraltro le esibizioni dei corpi femminili sono assai limitate. E’ l’atmosfera ambigua a interessare gli autori, quel forzare le regole del sacro, quell’irrompere del gesto libidinoso tra le mura austere di un convento. Non a caso gli sceneggiatori inventano addirittura un incipit della nota relazione tra Osio e Virginia De Leyva basato su uno stupro, generato dalla malevolenza di altre due suore (fanno penetrare l’uomo nella stanza della donna a sua insaputa e assistono alla violenza), decise a scalzare la nobildonna spagnola dal suo posto di potere.
Gli eventi reali furono radicalmente differenti. Ricordiamo solamente che la relazione tra i due nacque lentamente, tra molte titubanze e dopo uno scambio di lettere; che durò dal 1599 al 1607 e che terminò per alcune delazioni, dopo che inutilmente l’Osio aveva tentato di uccidere alcuni possibili testimoni. Infine Virginia De Leyva venne murata viva nel 1609 e liberata nel 1622 (morirà - dopo un sincero pentimento - nel 1650). Le ultime immagini del brutto film di Visconti invece lasciano interdetti in quanto il rituale conclusivo sembra porre in atto una pena di morte e non detentiva (la cella vene completamente murata, nel qual caso sarebbe stato impossibile alimentare la prigioniera). Il fervore anticlericale ha preso la mano al regista il quale - anziché ricreare i fatti storici - ha raccontato la solita storia di un amore impossibile, ostacolato dalle circostanze, dalla proverbiale ottusità di giudici e inquisitori, dalla disumanità complessiva (per come viene dipinto) dell’universo monastico.

Non sorprende quindi che il filmetto parodistico messo in piedi rapidamente da Gianni Grimaldi, Puro siccome un angelo, papà mi fece... monaco di Monza (novembre 1969; 90 min.), risulti più interessante del modello. Innanzitutto il finale - per quanto svolto con toni surreali (il protagonista vi compare infinitamente più giovane del suo decrepito figlio) - mostra comunque il monaco (uno scatenato Lando Buzzanca) uscire dopo molto tempo dalla propria prigione. Inoltre il raccontino, giocato sul rovesciamento dell’originale (ora è una bella fanciulla - Igli Villani, sorella di Sofia Loren - a volere a tutti costi sedurre un imbranatissimo monaco di Monza), si avvale di una serie di divertenti citazioni mussoliniane completamente fuori luogo, che però vivacizzano la farsa attraverso anacronismi a tratti esilaranti.
Altrettanto divertenti sono poi le sequenze dei monaci che si procurano le elemosine bastonando pastori e contadini del circondario. Inutile dire che Grimaldi (un tempo direttore del Candido) si diverte a colpire due tipici bersagli della destra: le umili usanze francescane tanto care a certo cattolicesimo di sinistra e le pratiche, in numerosi casi alquanto brutali, con cui i partigiani si procuravano da mangiare ai danni delle popolazioni inermi durante la guerra civile (1943-45).
La parodia della pellicola libertaria di Eriprando Visconti - pellicola innervata dai tipici valori della sinistra riguardanti l’esaltazione di una sessualità libera da astratti impedimenti e da regole morali - trova così un contraltare nell’antitetico lavoro di Grimaldi nel quale, tra l’altro, le immagini erotiche sono poche e piuttosto morigerate. Entrambi i film tuttavia si collocano entro coordinate laiche e anticlericali: per entrambe infatti il giudizio del Centro cattolico è drasticamente negativo. D’altronde non diversamente dalla sinistra, la destra italiana nel suo complesso - sia quella di Crispi, sia quella di Mussolini, sia quella del MSI - si è sempre caratterizzata come una forza laica, non di rado ostile al Papato.
In ogni caso solo il film di Visconti esprime l’ideologia egemone del periodo: quella rivoluzione sessuale che, insofferente di ogni remora, ha costruito sulle nuove totalizzanti libertà sessuali e amorose - come tali antitetiche alla logica arcaica, sfuggente e a suo modo “classica” del bordello, del mero soddisfacimento fisico, presente sia in epoca fascista, sia durante i democristiani anni cinquanta - una sorta di moderna paranoia.

Bruno Corbucci, dopo una serie di commedie canterine e farsesche, approda al nascente cinema erotico con Isabella Duchessa dei diavoli (agosto 1969; 93 min.), trascrizione filmica delle avventure dell’omonimo, popolare personaggio dei fumetti. La pellicola si situa dunque nel solco dei numerosi film italiani ispirati all’universo dei comics nella seconda metà degli anni sesssanta quali Diabolik (Bava, 1967), Kriminal (Lenzi, 1966), Il marchio di Kriminal (Cerchio, 1967) e Satanik (Vivarelli, 1968).
Il lavoro di Corbucci giunge alla fine di questa stagione e passa quasi inosservato anche perché la Duchessa dei diavoli si colloca al confine tra il fumetto per ragazzi e quello per adulti, e dunque è meno “universale” rispetto a Diabolik e compagni. Il personaggio di Isabella viene creato nel 1966 da Giorgio Cavedon e Sandro Angiolini (1920-85), in parte ispirandosi alla saga cinematografica francese di Angelica iniziata col film omonimo (1964) di Borderie. Il fumetto - il primo a coniugare avventure di cappa e spada ed erotismo esplicito - ottiene un grande successo popolare ed esce con regolarità fino al 1976. Vi si raccontano le avventure della giovane, nobile e bellissima Isabella De Frissac la quale, dopo avere assistito da bambina allo sterminio della propria famiglia ad opera del perfido, tedesco Von Nutter, è cresciuta tra gli zingari. Nella pellicola di Corbucci - che sintetizza i dati più importanti del personaggio (tra gli sceneggiatori c’è appunto Giorgio Cavedon) - Isabella (l’inespressiva Brigitte Skay), scoperta la propria origine, decide di vendicarsi, si infiltra nel castello come zingara - prostituta, sfregia il barone Von Nutter (Mimmo Palmara) e, dopo rocambolesche svolte narrative (imprigionata, viene frustata a sangue), ottiene giustizia.
Nella vicenda, ambientata nella Francia della prima metà del Seicento, si insinua la consueta antipatia per le genti di origine tedesca, tipica della martellante propaganda antigermanica, successiva alla tragedia della seconda guerra mondiale ed egemone nell’universo dei media (almeno fino all’11/9; poi eclissata dall’odio per il mondo islamico). Neppure la presenza di produttori tedeschi (il film è una coproduzione italo - tedesca) sembra poter modificare questo stato di cose.
Per ciò che riguarda la sceneggiatura, appare evidente l’influenza del recente, fortunato C’era una volta il West (Leone, 1968): una bambina che osserva sgomenta lo sterminio della propria famiglia, secondo sadiche modalità; la lunga, meditata vendetta e lo scontro finale rieccheggiano gli episodi chiave del capolavoro di Sergio Leone. Anche la scelta di una colonna sonora enfatica, di matrice ciaikoskiana (firmata Sante Romitelli), appare derivata dall’ottica magniloquente dell’inventore del western italiano, coadiuvata dal contributo essenziale di Ennio Morricone.
In ogni caso, mentre la vicenda avventurosa viene svolta con poca convinzione (gli attori offrono interpretazioni assai modeste, con l’eccezione dell’ironico Tino Scotti), la componente più significativa del film è quella erotica: la pellicola offre infatti situazioni scabrose piuttosto audaci per l’epoca. Non si tratta solo della generosa quantità di nudi e delle numerose situazioni di sadismo sessuale (Isabella violentata da un branco; in seguito frustata), bensì di almeno un paio di episodi decisamente forti: una sequenza apertamente lesbica e un’altra in cui durante un banchetto una cortigiana seminuda tenta, con le proprie arti seduttive, un servo di colore, obbigato a resisterle per ordine del perfido Von Nutten. L’erotismo del film insomma non è solo accennato, non riguarda solo l’esibizione del nudo, ma apre la via alla interazione erotica compiaciuta e prolungata. Sebbene il Centro cattolico si mostri apertamente irritato dalla pellicola, gli uffici censori si mostrano al contrario assai clementi e, dopo lo scontata proibizione ai minori di diciotto anni, accolgono un ricorso della produzione e correggono il divieto, limitandolo ai minori di quattordici anni, forse perché immaginano che il pubblico di un simile, banale filmetto sia appunto quello giovanile che legge i fumetti.
Il lavoro, pubblicizzato più come un film di cappa e spada che come un film erotico, non ottiene alcun successo, non viene insomma notato e anche perciò non subisce denunce e sequestri come sarebbe stato logico attendersi, considerato il troppo blando divieto ai minori.

Nel solco del nuovo filone del giallo italiano (Il dolce corpo di Deborah, Guerrieri 1968), Lucio Fulci firma il suo primo thriller, Una sull’altra (agosto 1969; 109 min.) nel quale miscela con abilità erotismo, reminiscenze hitchcockiane e poliziesco con sorpresa finale.
Il punto di riferimento è appunto Vertigo (La donna che visse due volte, 1958): a San Francisco - fondale anche del celebre film del regista inglese - un primario in difficoltà economiche (Jean Sorel) perde la moglie (Marisa Mell) per una crisi d’asma. Qualche giorno dopo ritrova una sua sosia bionda, tale Monica Preston (sempre la Mell) in un locale di spogliarello. Incomincia a frequentarla insieme alla sua amante (Elsa Martinelli) mentre anche un detective delle assicurazioni (la moglie aveva stipulato una ricca polizza sulla vita) e la polizia indagano. Le vicende si aggrovigliano oltre l’immaginabile e l’ingegnosa soluzione (che sveliamo solo in parte) viene lasciata al caso, nelle vesti di uno sciocco ammiratore (Riccardo Cucciolla) di Monica.
La pellicola si svolge per due terzi nell’ambito del fim erotico mentre la parte finale accantona le generose esibizioni di nudi femminili per concentrarsi sul meccanismo giallo. Fulci appare affascinato dai vasti scenari della baia che ritrae con indubbia efficacia: San Francisco è restituita nella sua quotidianità attraverso immagini “rubate” nelle quali si muovono con naturalezza gli attori europei. Questo tipo di intervento sugli scenari americani - per ora agli inizi e in seguito tipico di un certo cinema di genere italiano a basso costo - possiede il grosso vantaggio di offrire allo spettatore non un set precostituito e simulato, bensì immagini documentarie, dotate di un proprio autonomo valore (soprattutto a distanza di alcuni decenni) nelle quali l’inserimento dei personaggi, dei loro gesti e dei loro intrighi, viene ad avere un sovrappiù di spessore realistico, anche quando si tratti di storie inverosimii come quella di Una sull’altra. La frastornante colonna sonora di Riz Ortolani, tutta ispirata ai suoni del Rhythm & Blues e di un jazz easy listening, rafforza l’immersione del plot entro precise coordinate statunitensi.
In ogni caso il successo commerciale del lavoro è da attribuirsi principalmente alla sua caratura erotica. Il fondale offre uno studio di fotografo ove pullulano modelle svestite (il modello è, come al solito, il recente Blow Up di Antonioni) e un locale di strip e lapdance quale semplici condimenti mentre i piatti forti sono i “duetti” amorosi di Jean Sorel e Marisa Mell e di quest’ultima con la Martinelli in una sequenza lesbo abbastanza riuscita (ad essa - come pure alla inattesa soluzione dell’enigma - si riferisce l’ambiguo titolo del film). Potendo ormai ritrarre senza troppi pudori l’accoppiamento sessuale, Fulci ne approfitta e filma con buona fantasia i corpi femminili ora danzanti, ora piegati in provocanti pose fotografiche, ora intenti a procurare piacere al proprio partner. Non può però sfuggire il fatto che il motore di ogni cosa è sempre e solo il business: nel locale notturno come nello studio fotografico, come nell’appartamento di Monica il corpo femminile è l’oggetto in vendita. Rimane implicitamente confermato che l’arrivo dell’erotismo sugli schermi - lungi dall’essere un fatto “rivoluzionario” - corrisponde agli interessi dei grandi gruppi industriali i quali acquisiscono una preziosa nuova merce al loro inventario di cianfrusaglie.
Il giallo viene svolto con una certa trascuratezza nella prima parte; in seguito però Fulci lavora in modo appropriato sugli elementi accumulati, dissemina indizi, usa con creatività il flashback e finisce col coinvolgere lo spettatore anche nell’intreccio poliziesco la cui cinica soluzione (ambientata in un caffé di Parigi) lascia stupefatti soprattutto per le sue implicazioni a ritroso. Se la sosia non è veramente una sosia, tutto ciò che è accaduto suona differente: senza accorgersene il marito rivive la propria storia matrimoniale in un bordello e la moglie appare in grado di simulare differenti, antitetiche personalità entro le quali improgionare, come in una ragnatela, il poco perspicace compagno di un tempo.
Anche in tale direzione le implicazioni sociali - probabilmente ignote agli autori - sono interessanti: la donna, potendo liberamente utilizzare la propria carica sessuale, diviene un’avversaria astuta e imprevedibile. E’ in fondo questa, e solo questa, la celebrata rivoluzione antropologica del ‘68.
Poco dopo Fulci si inserisce nel filone storico-erotico con il mediocrissimo Beatrice Cenci (novembre 1969; 99 min.) nel quale da un lato riprende la struttura narrativa poliziesca già adottata da Guido Brignone nella pregevole versione filmica del 1941 (vedi), dall’altro innesta nel melodramma sequenze erotiche e truculente nel vano tentativo di “aggiornarlo”. Come nel già noioso film su Monza di Eriprando Visconti, anche qui ritroviamo inquisitori senza scrupoli, prolungate scene di tortura e orgette piuttosto banali con in più la chiamata i causa addirittura di papa Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini, 1592-1605, l’odiatissimo pontefice durante il cui regno si consumò l’esecuzione di Giordano Bruno) ridotto a rozzo ladrone e modesto traffichino (eliminando i Cenci incamera le loro proprietà... ), in omaggio al conformismo anticlericale che attraversa la società e il cinema della fine degli anni sessanta.
D’altro canto i Cenci vengono descritti come perseguitati dal mostruoso, tirannico capofamiglia (Georges Wilson) e perciò naturalmente spinti a ordire il complotto volto a ucciderlo (come se non esistessero - in situazioni simili - molteplici altre vie d’uscita, prima di tutte il semplice “cambiar domicilio”). Per Fulci insomma gli assassini sono in definitiva le vittime, secondo una logica giustificazionista, tipica degli anni sessanta e settanta: colui che non aderisce al “vangelo umanista”, merita la morte. Mentre Brignone attaccava l’aristocrazia parassitaria in nome del populismo mussoliniano di matrice antiborghese, Fulci lo fa invece guardando più direttamente alla inaffondabile tradizione del massonismo anticlericale la quale aveva già da secoli eletto la questione Cenci a proprio cavallo di battaglia (testi letterari dell’inglese Percy Shelley, del patriota italiano Domenico Guerrazzi, di Stendhal e di Alexandre Dumas padre; vedi capitolo su Beatrice Cenci del Brignone).
Nella modesta operazione filmica la ricostruzione storica è goffa (siamo negli anni 1598-99) e la narrazione risulta prigioniera di usurati stereotipi letterari: nessun personaggio insomma possiede vita propria. Né gli attori (Adrienne La Russa nel ruolo del titolo e il suo amante Tomas Milian) riescono ad apparire credibili. Si salva solo l’abile utilizzo dello schema del puzzle spazio - temporale (si inizia dalla fine con i colpevoli in procinto di essere giustiziati e si procede tramite flashback aperti dall’inchiesta delle autorità papaline) - espediente che conferisce un minimo di vitalità alla organizzazione del racconto - peraltro ampiamente ripreso (come si è detto) dalla vecchia versione di Brignone, del tutto ignota al grande pubblico degli anni sessanta.

Molti aspetti in comune con Una sull’altra si possono cogliere nel giallo americano di Alberto De Martino, Femmine insaziabili (luglio 1969; 99 min.), sceneggiato dal regista con Vincenzo Flamini e altri. La cornice poliziesca è blanda e conclusa con un colpo di scena che può sorprendere solo i più ingenui: l’emigrato Giulio Lamberti (Roger Fritz) diviene l’uomo- immagine di una potente azienda americana la cui dirignza è in mano a torbidi individui. L’uomo finisce ucciso (in un simulato incidente d’auto), il suo amico giornalista Paolo (Robert Hoffman, negli anni in cui era famoso quanto Dustin Hoffman), anch’egli italiano, indaga mentre i dirigenti della compagnia commerciale cercano di coprire, con ogni mezzo, i propri molteplici misfatti. Come in un giallo della Christie, tutti posseggono buoni motivi per eliminare Lamberti. Il banale colpo di scena invece assolve quasi tutti.
Mentre il film di Fulci, da metà in poi, diventava un giallo teso e interessante, quello di De Martino non decolla mai. Al contrario la centralità dell’erotismo rimane l’elemento cardine fino alla fine. Entrambi gli italiani sono seduttori irresistibili mentre intorno a loro inizia un girotondo di fanciulle determinate ad accaparrarseli. In particolare il sotto intreccio che mette in scena la ricca manager (Dorothy Malone) e sua figlia hippy (una simpatica Romina Power), in perenne concorrenza per sedurre il maschio di turno (l’una col denaro, l’altra con le sue giovanili grazie) appare ricalcato sul fortunato schema triangolare de Il laureato (Nichols, 1967). Come in numerosi altri film coevi (si veda quanto detto nel capitolo su Vedo nudo), siamo di fronte al caso di un “giovane normale” (soprattutto il giornalista) che appare sorpreso dalla aggressività femminile e dalla sfrontata emancipazione dell’altro sesso.
Nel trattare lo scontro di Tradizione e Modernità, De Martino appare un autore decisamente conservatore e a suo modo originale: le orgette hippy, i locali topless, i vagabondi autostoppisti sono guardati come fenomeni da circo mentre il giornalista, nei panni del duro monolitico (alla Clint Eastwood), sembra incarnare lo sguardo scettico di chi non si lascia abbagliare da questi falsi luccichii; senonché, a sorpresa, nelle ultime immagini Hoffman cede, entra nella limousine della Malone sotto lo sguardo irridente di Romina Power e si lascia comprare.
In questo inatteso e intelligente finale, De Martino smonta il suo personaggio e ce lo mostra arrendevole alla forza d’urto della rivoluzione sessuale in atto. L’epoca dei cavalieri inflessibili, solitari e sprezzanti è, insomma, al suo tramonto.
In quest’ottica si noti che anche la bella colonna sonora di Nicolai la quale, palesemente ricalcata su colori, seducenti sinuosità e sberleffi rumoristici tipici del Morricone più noto, dona al film uno spessore a tratti quasi epico, trasformandolo in una sorta di ballata triste e rassegnata.
Come Fulci, De Martino gira nelle strade americane (questa volta sono quelle di Los Angeles) riuscendo a carpire immagini interessanti di un’America grigiamente quotidiana, ordinata e noiosa come è impossibile trovare nelle solenni e artefatte favole hollywoodiane. De Martino, che ai suoi esordi era stato documentarista, cala pertanto le sue femmine ingorde (ma c’è anche il bravissimo gay Frank Wolff, ormai un volto celebre dopo la sua partecipazione a C’era una volta il West, Leone 1968) entro immagini di un piatto e opaco realismo: per tale via, la visione americana dell’autore si fa oltremodo cruda, tagliente e antipatica. I nostri personaggi si dibattono così entro le coordinate di un’anarchia schizofrenica che riguarda sia le loro abitudini sessuali, sia la loro spietata ricerca del profitto, sia gli atteggiamenti criminali che ne scaturiscono. Il “giovane normale”, giunto dalla “bella” e “antica” Italia viene travolto: deve perciò scegliere se sottomettersi o accettare la propria emarginazione.
La modernità più dogmatica, la rivoluzione sessuale, l’estate dei fiori e dell’amore, l’emancipazione femminile vengono giustamente inquadrati quali inquietanti prodotti del capitalismo avanzato, con buona pace del progressismo, più o meno marxista. Questi segni di un individualismo esasperato - attento essenzialmente al piacere fisico e alla produttività quale fonte di potere economico - appaiono elementi minacciosamente disgreganti, volti a sancire la fine della secolare  supremazia maschile e della famiglia patriarcale. Così Giulio, vestito come l’eroe di Per un pugno di dollari (con poncho messicano), muore cadendo da un tetto mentre Paolo rinuncia alla libertà e si infila nel macchinone della Malone. I seduttori sono stati sedotti, gli antichi valori sepolti (la tradizionale moglie italiana viene ripudiata da Giulio) mentre le “femmine insaziabili” impersonano l’anarchia di un capitalismo teso a sottomettere e sfruttare, in modo vampiresco, tutto ciò che incontra.
In fondo il destino noglobal del pianeta - inteso quale asservimento totalizzante di tutte le forze produttive, strumentalmente sciolte da ogni vincolo nazionale - era già inscritto in queste pagine filmiche.