La porta del cielo

La porta del cielo, Giorni di gloria e Aldo dice 26 x 1: un treno bianco e una nera strage (1945)

                    "Colui che tu ami è malato"
                      (La porta del cielo, finale)
                     

La nuova pellicola di De Sica viene finanziata dal Centro cattolico Cinematografico (mediante la casa di produzione Orbis) e costituisce la coerente continuazione del suo film precedente sulle disavventure del bambino Pricò. Nell'atmosfera tetra della Roma occupata dai nazisti, De Sica viene convocato da Fernando Mezzasoma, ministro della cultura della RSI, che lo vorrebbe a Venezia nella cinematografia repubblicana in via di definizione (il cosiddetto Cinevillaggio); in quel delicato frangente il cineasta può rispondere: "Non posso, sto facendo un film per il Vaticano" e così disimpegnarsi abilmente da una situazione difficile. La lavorazione del film, che si svolge nella romana basilica di San Paolo, si protrae opportunamente fino all'arrivo degli alleati nella capitale (5 giugno 1944), divenendo un'ottima copertura per un folto numero di uomini di cinema che vogliono tenersi lontani dal nuovo fascismo repubblicano. Pertanto il Vaticano diviene l'àncora di salvezza sia per la troupe del film nella complicata vita quotidiana del primo semestre 1944, sia per l'intero popolo italiano, raffigurato attraverso la variopinta galleria dei viaggiatori, nella simbolica narrazione filmica.
Film corale ed episodico La porta del cielo (88 min; febbraio 1945) racconta il pellegrinaggio fiducioso verso Loreto di un gruppo di personaggi sofferenti e angosciati, di varia estrazione sociale. De Sica prosegue in maniera ora esplicita il finale simbolico de I bambini ci guardano: risulta ora evidente che questo treno bianco rappresenta l'intera Italia nel suo momento più nero, in quanto nazione devastata dalla guerra civile e in attesa di una soluzione pacificatrice. Il Papato e la fede costituiscono allora il rifugio sicuro e antico verso il quale si rivolge la semplicita' del popolo italiano, rifugio che trova la sua apoteosi nella lunga cerimonia finale nella basilica durante la quale avvengono alcuni miracoli, esteriori ed interiori. Non solo una donna, estranea al gruppo dei personaggi noti, ritrova l'uso delle gambe, ma anche gli altri, pur non "miracolati", ritrovano la fiducia in se' e in chi e' accanto a loro, riscoprendo la voglia di vivere nonostante la condizione miserabile in cui versano. "Colui che tu ami e' malato" afferma il celebrante in una frase dal significato duplice: concedi la pace ai singoli cosi' come all'intera nazione che si rivolge a te per il tramite delle gerarchie ecclesiastiche. Secondo De Sica e i suoi sceneggiatori (tra cui ancora Zavattini, con il quale il regista stabilisce un rapporto privilegiato e duraturo) la salvezza e' dunque nell'abbandono della statolatria fascista (della guerra e del regime non si fa parola, come di qualcosa da esorcizzare) e nel ritorno alla comunita' spirituale cristiana.

La scrittura desichiana migliora rispetto al gia' pregevole film precedente. La serieta' del soggetto evita lo scivolamento nel macchiettismo che inficiava i Bambini e impone un linguaggio austero ed essenziale, privo di quegli artificiosi e facili sentimentalismi che imperversano nella maggior parte della mediocre produzione coeva. Un ragazzo bloccato sulla sedia a rotelle spera nella grazia; una governante prega affinche' un padre non riveli ai figli le infedelta' della loro madre morta (questo episodio appare l'esplicita continuazione del film precedente); un cieco spera di ritrovare la vista; un pianista famoso, disperato a causa di un crampo che gli blocca una mano, attende anch'egli un segno mentre medita il suicidio: un'umanita' disperata viaggia sul treno bianco, e la mdp dell'autore sa legare abilmente, in commossi pianisequenza, quei volti tormentati mentre i loro pensieri vengono espressi da una poetica voce fuori campo (non manca un uomo anziano "in fuga", conscio del suo essere di peso per i suoi familiari, palese anticipazione di Umberto D, 1952). Nella solenne sequenza conclusiva i singoli personaggi si fondono in una coralita' fiduciosa e partecipe del mistero; cosi' le note imploranti e patetiche dell'incipit delle romantiche Variazioni sinfoniche (1886) per pianoforte e orchestra di Cesar Franck, eseguite dal musicista in crisi durante il suo concerto, note che sembrano ossessionarlo ancora all'inizio di questo episodio finale, lasciano il posto a un sereno concerto polifonico di voci, ove la perfetta e composta integrazione dei suoni rappresenta un auspicio per un futuro di coesistenza pacifica e civile.
Questo treno bianco in corsa verso la porta del cielo costituisce una netta antitesi nei confronti della nave bianca rosselliniana di soli tre anni prima. Tra i due film, tra i due universi morali, l'uno militarista e aggressivo, l'altro sofferente e ripiegato, e' stato scavato un solco profondo sebbene sia trascorso un tempo relativamente breve: la disillusione bellica, l'incapacita' di sostenere il confronto con le potenze alleate, le privazioni materiali quasi insostenibili, coerente punizione per una politica di aggressione praticata con faciloneria e mancanza di convinzione (si pensi ad esempio all'assurda e criminale campagna di Grecia, iniziata alle soglie dell'inverno 1940, in condizioni climatiche sfavorevoli e con un esercito che si sapeva ancora impreparato) hanno trasformato un popolo immaturo,  prigioniero di un'ideologia accettata solo nei suoi tratti esteriori e posta in essere come mera simulazione, e lo hanno spinto a ritrovare la propria vocazione piu' schiettamente pacifista e religiosa. L'esito delle elezioni del 18 aprile 1948 e' gia' inscritto in queste immagini.

Dopo la fine del conflitto il governo Bonomi ha i giorni contati. I partiti della Resistenza trattano per definire la guida del primo governo dell'Italia postbellica. Il PSIUP avanza apertamente la candidatura Nenni mentre la DC insiste per porre un suo uomo a capo del nuovo esecutivo. Da questa situazione di impasse si esce con la designazione di Ferruccio Parri del Partito d'Azione, una scelta palesemente transitoria. Nella compagine governativa, varata nel giugno 1945, entrano tuttavia Nenni (vicepresidente), De Gasperi (esteri) e Togliatti (giustizia). Presto tutti si diranno scontenti del governo il quale perde consensi in breve tempo fino alle dimissioni del dicembre 1945 che apriranno la via alla lunga sequenza di esecutivi guidati da De Gasperi. D'altronde la permanenza di un governo debole, impossibilitato ad affrontare con autorita' la grave situazione economica e sociale del paese (diffuse e gravi violenze contro gli ex fascisti, inflazione, borsa nera, trasporti semidistrutti ecc.), non poteva essere tollerata a lungo.
Un episodio poco noto (quasi censurato dagli storici) e imbarazzante di quei mesi e' la dichiarazione italiana di guerra al Giappone. Il 14 luglio, per espresso desiderio degli alleati, i partiti italiani votano per questa grottesca dichiarazione volta a coprire le spalle agli USA che stanno per usare la bomba atomica (6, 9 agosto), commettendo uno dei massimi crimini contro l'umanita' del Novecento. La vicenda e' il segno indiscutibile del cambiamento dei tempi: l'Italia rinasce come stato a sovranita' limitata sotto la protezione americana, nonche' priva di un'autonoma politica estera. Non si puo' che condividere le significative parole scritte da Nenni nel proprio diario: "Al consiglio di giovedì è tornata la questione della guerra al Giappone, e stavolta o bere o affogare. Ho bevuto.....De Gasperi ha comunicato una nota del sottosegretario americano agli esteri Grew di cui ecco l'essenziale: la dichiarazion di guerra sarà accolta con soddisfazione in America; il governo britannico e sovietico non fanno obiezioni; lo <State Department> attribuisce molta importanza al fatto che la dichiarazione di guerra ci sia al piu' presto" (Diari 1943-1956).
L'otto settembre ha sancito la debolezza intrinseca e il fallimento dell'Italia come stato nazionale, incapace di difendere la propria autonomia e reale indipendenza. Se la monarchia avesse retto (anziche' disertare adducendo generiche scusanti intorno alla continuità delle istituzioni) ed avesse dato ordini precisi all'esercito riguardo all'eventuale nuovo fronte antitedesco da aprire in caso di aggressione da parte dell'ex alleato, cio' avrebbe evitato il tragico dissolversi di una nazione, la nascita di Resistenza, della RSI e dell'inevitabile guerra civile. Ma così non e' stato. La popolazione italiana tuttavia sopravvive, ed assai bene, con spregiudicata scaltrezza, alla propria sconfitta, rassegnandosi pero' a vivere all'ombra della potenza americana, rinunciando progressivamente alla propria specifica cultura e divenendo una zelante consumatrice-assimilatrice di prodotti e atteggiamenti d'oltreoceano (fatto quanto mai evidente all'alba del terzo millennio). Pur con il suo inaccettabile e spesso goffo totalitarismo il fascismo fu tuttavia "l'ultimo tentativo di fare dell'Italia una potenza internazionale, in continuita' con il Risorgimento" (Prezzolini, L'Italia finisce). La storia dimostra che le dittature nazionali passano (Spagna, Grecia, Portogallo) mentre le sconfitte belliche che approdano alla resa incondizionata ad altre potenze, definiscono uno stato perenne ed immodificabile di servitu'. Solo un nuovo conflitto mondiale, tutt'altro che auspicabile, potrebbe rendere l'Italia una nazione nuovamente libera e capace di una propria autonoma politica interna ed internazionale.
Al contrario con la mitologia della Resistenza (fenomeno reale ma non rappresentativo dell'intera Italia: nel nord interesso' meno di 200000 volontari mentre nel centro-sud si verifico' solo sporadicamente) e della Liberazione gli Italiani, popolo di ottimi, pragmatici attori, fingono di avere vinto la guerra. Il cosiddetto cinema neorealista del periodo postbellico contribuisce con generosita' al rafforzamento di questa illusione, esaltando la lotta partigiana e raccontando l'intervento alleato come il sacrificio di un popolo generoso, venuto a morire sulle nostre coste per ridarci la democrazia perduta. Su queste penose menzogne rinasce lentamente la nuova Italia dei partiti.

Giuseppe De Santis nasce a Fondi (in Ciociaria) l'11 febbraio 1917, figlio di Oreste, geometra. A Roma frequenta la facolta' di lettere, ma, dopo alcuni esami, interrompe gli studi. Appassionato di letteratura e di cinema, si inserisce negli ambienti intellettuali "critici" del regime; diviene amico di Pietro Ingrao e, verso la fine degli anni trenta, scrive per la rivista "Cinema", dove il direttore, Vittorio Mussolini, ammiratore dei film hollywoodiani, lascia ampi margini di liberta'. Nel 1942-3 collabora alla sceneggiatura del film d'esordio di Visconti, Ossessione, lavorando inoltre sul set in qualita' di aiuto regista. Nella Roma liberata De Santis collabora con Mario Serandrei alla realizzazione di un documentario sulla Resistenza, Giorni di Gloria (1945). Il film e' un collage di sequenze di differente provenienza, alcune inviate dalle formazioni partigiane del nord, altre girate espressamente come quelle delle Fosse Ardeatine o quelle del processo Caruso (queste ultime effettuate da Visconti). Oggi quasi dimenticato, Giorni di gloria anticipa il quadro ideologico del futuro cinema italiano, poiche' esprime con fermezza una presa di posizione politica favorevole alle forze progressiste.
Come De Santis, Visconti si e' avvicinato agli ambienti di sinistra nei primi anni quaranta e agli inizi del '44 chiede di unirsi ai GAP (Gruppi di Azione Partigiana gestiti dal PCI), nei quali opera come fiancheggiatore, mentre nella sua casa nasconde soldati alleati e partigiani (c'e' una commossa reminiscenza di cio' nel suo penultimo film Gruppo di famiglia in un interno). Nell'aprile 44 viene arrestato dai fascisti del famigerato gruppo Koch, viene pestato e tenuto in galera fino ai giorni dell'arrivo degli americani a Roma. Dopo di che la sua collaborazione al documentario sulla Resistenza e' nell'ordine delle cose.
Giorni di gloria e' un film di propaganda. Con il suo tono enfatico, con le sue forzature e perfino con le sue falsita' esso finisce con l'assomigliare ai film LUCE del fascismo, sebbene il contenuto sia ovviamente antitetico. Edito dal Ministero dell'Italia occupata, in collaborazione con il potente Psycological Warfare Branch Film Division dell'esercito alleato (ovvero il servizio angloamericano dedicato alla guerra psicologica e alla diffusione di idee gradite ai nuovi "conquistatori"; nel 1944-5 tale struttura controlla la stampa italiana nella zona occupata, soprattutto attraverso l'assegnazione di quantitativi di carta disponibile, ma anche fornendo le notizie e indicando quale spazio deve essere loro destinato), il film sintetizza il nuovo punto di vista della corrente presto maggioritaria nel cinema della futura repubblica italiana, il suo saldo collocarsi all'estrema sinistra ideologica nel quadro della politica culturale e della differente battaglia delle idee che d'ora in poi opporra' in Italia sinistra progressista e centro moderato-cattolico. Inoltre esso, prodotto dalla sinergia di istituzioni italiane e alleate, anticipa la salda collaborazione tra Cinecitta' e Hollywood che si sviluppera' soprattutto nei tre decenni seguenti. Giorni di gloria si puo' intendere come il manifesto politico del piu' significativo e interessante cinema repubblicano.
Il taglio politico e' netto e privo di mezze misure. Il commento parlato sovrapposto alle immagini e' duro e insultante: la rifondazione del Partito Fascista Repubblicano a Verona (novembre 1943) e' opera di "buffoni"; le immagini delle rovine delle citta', sottoposte agli spietati bombardamenti alleati, vengono accostate sarcasticamente ai roboanti detti del Duce, presenti sui muri; soprattutto poi sulla questione di via Rasella il film prende una posizione allineata alla ortodossia comunista e francamente inaccettabile: esso esalta l'azione di guerriglia in cui vengono uccisi trentatre' "manigoldi" delle "SS tedesche" (cosi' recita il commento di Umberto Barbaro e Umberto Calosso). Siamo al nodo cruciale del film. I GAP, per ordine del dirigente comunista Giorgio Amendola, il 23 marzo in via Rasella (la data e' quella della fondazione del fascismo, risalente al lontano 1919; la via e' quella dove risiedette Mussolini nei primi anni del suo incarico di capo del governo; l'insieme ha un sapore dunque fortemente simbolico) fanno saltare una forte carica di esplosivo al passaggio di un plotone di 150 anziani riservisti altoatesini del battaglione Bozen. Non si tratta ne' di SS, ne' di "manigoldi" bensi' di gente comune in servizio nell'esercito tedesco con funzioni di sorveglianza dei ministeri e degli uffici pubblici. L'azione dei GAP, che causo' oltre ai trentatre' morti altre vittime civili (si e' parlato di sette passanti) non aveva alcun valore militare: la guerra non sarebbe finita neppure un giorno prima a causa di azioni come questa. Inoltre questa forma di subdolo attacco da parte di un nemico invisibile rientrava, secondo le leggi di guerra, nella casistica delle azioni punibili con la rappresaglia, ne' da un occupante tanto brutale come quello tedesco ci si poteva attendere qualcosa di differente. L'azione comunista e' quindi deprecabile e appare anzi segretamente finalizzata proprio a spingere il nemico nazista sul terreno delle atrocita' gratuite, per poterlo poi abilmente perseguitare nei decenni a venire con tale arma propagandistica (nelle Lettere a Milano [1973] Amendola "si tradisce" allorche' scrive: "Il sangue delle vittime innocenti fucilate alle Fosse Ardeatine sarebbe ricaduto sui responsabili della strage, sui nazisti e sui loro servi repubblichini"). I tedeschi caddero nella trappola e ordinarono il ripugnante massacro delle Fosse Ardeatine (335 morti), dimostrando, una volta di piu', di essere un popolo capace di eseguire disciplinatamente le piu' efferate crudelta'. Le vittime tuttavia, da una parte come dall'altra, erano gente qualunque trascinata nel vortice della violenza dai professionisti della politica, ovvero da chi era disposto a utilizzare ogni mezzo per scavare un solco d'odio tra gli italiani, al fine di escluderne una parte, quella ex fascista, dalla futura gestione della cosa pubblica. Va ricordato peraltro che la disgustosa tecnica della rappresaglia e' un fatto universale: la usarono anche i partigiani e gli alleati; la usa l'America di Reagan contro Tripoli e Bengasi nell'aprile 1986; la utilizza da cinquant'anni Israele contro il terrorismo palestinese, senza che questi ultimi esempi citati siano divenuti "celebri" quanto le Fosse Ardeatine. In definitiva l'azione dei GAP di via Rasella, dalla quale cercarono di prendere le distanze anche i partiti moderati del CLN, fu deprecabile poiche' figlia del fanatismo ideologico, pronto a metter in pericolo l'esistenza di gente comune, di quella "zona grigia" attendista che saggiamente, in omaggio al piu' naturale e sano senso di autoconservazione, riteneva inutile aggiungere altro sangue a quello che gia' si versava sui campi di battaglia. D'altronde e' proprio al fronte che si combattono le guerre; il terrorismo urbano e' un'altra cosa, mosso generalmente piu' da finalita' politiche che da intenti miliari, come potra' verificare nuovamente a proprie spese il popolo italiano nel funesto periodo 1969-80 e perfino quello americano nel drammatico settembre 2001.
Peraltro in quegli stessi mesi in cui venne edito il film di Serandrei e De Santis molte altre, orrende rappresaglie venivano poste in atto dai partigiani ai danni di fascisti o presunti tali, in una tragica continuazione di quella guerra civile che aveva insanguinato la penisola nei seicento giorni della RSI. Tra le tante si puo' citare l'eccidio di Schio: nella notte tra il 6 e il 7 luglio 1945 una banda di una dozzina di partigiani mascherati irrompe nelle locali carceri ove sono detenuti dirca un'ottantina di persone in modi differenti compromesse con il passato regime, tutte prive di precisi addebiti e in via di rilascio; ci sono perfino giovani donne prese in ostaggio al solo fine di convincere il padre o il fidanzato a costituirsi. I partigiani aprono il fuoco e fanno cenquantatre' morti e una ventina di feriti. E' un episodio di una ferocia incredibile, anche per la sua gratuita' e sostanziale mancanza di precise motivazioni. Perfino il generale Dunlop, governatore militare del Veneto, l'8 luglio si sente in dovere di affermare: " E' mio dovere dirvi che mai prima d'ora il nome d'Italia e' caduto tanto in basso". Ciononostante questi morti non hanno mai avuto degna celebrazione; gli storici si sono ben guardati da studiare l'evento, ricacciandolo nell'immondizia della Storia mentre perfino l'esposizione di una lapide commemorativa è stata osteggiata per decenni dal partito comunista locale. D'altronde negli anni subito successivi il fatto, gli assassini vengono fatti espatriare e fruiscono della "generosa" protezione jugoslava e forse cecoslovacca. Insomma solo le atrocità di una parte politica, quella sconfitta, possono essere additate alla pubblica riprovazione.
Il film di Serandrei, De Santis e Visconti dunque esalta l'azione gappista, falsifica la verita' storica (come già la stampa di sinistra dell'epoca che parlò del "combattimento di via Rasella") e quindi si situa in un orizzonte culturale interno alla "religione" comunista nella quale la singola vita umana può essere sacrificata in nome della causa. Le sequenze che documentano il ritrovamento dei cadaveri delle Ardeatine emanano tuttavia una sincera commozione, mentre quelle che riprendono il linciaggio del direttore di Regina Coeli Carretta e il processo al questore Caruso mostrano il turbamento popolare di fronte alla barbarie nazista. Il resto e' ordinaria amministrazione: partigiani che combattono con gli alleati; aerei che lanciano rifornimenti alle formazioni antifasciste; l'entrata solenne di partigiani e truppe alleate a Milano in un clima festoso: il popolo milanese inneggia alla liberazione, ma si intuisce che la palpabile felicita' riguarda la liberazione da cinque anni di guerra e di sofferenze e non tanto (come si vorrebbe far credere) l'apparizione dei nuovi padroni angloamericani che fino a pochi giorni prima hanno bombardato pressoché quotidianamente le citta' del nord, lanciando perfino numerosi giocattoli-bomba per incauti ragazzini, "simpatici" doni le cui finalità militari appaiono tuttora oscure.

Osservazioni simili valgono per Aldo dice 26 x 1 (settembre 1945; 50 min.), mediometraggio documentaristico firmato da Fernando Cerchio (attivo come documentarista fin dal 1940) e da Carlo Borghesio (regista fino a pochi mesi prima perfettamente allineato con la politica culturale del regime) nel quale si assemblano immagini di vita partigiana sui monti del Piemonte e preziose sequenze che documentano l’entrata dei partigiani prima e degli alleati poi in Torino, negli ultimi giorni di aprile (1945). Il titolo cita il messaggio cifrato che girava sulle radio partigiane nei giorni precedenti l’insurrezione finale, indicando l’ora x della sollevazione popolare nel giorno 26 all’ora 1 del mattino. Molto del materiale proviene dalgi archivi dell’ANPI di Aosta, del Psiup di Torino e del Pli. Il film gira poco e solo in sedi predisposte ad accettarlo (appare quasi assente dalla programmazione regolare nelle sale). E’ abbastanza curioso che sia stato realizzato da due cineasti che avevano aderito al cinevillaggio della Rsi dove avevano realizzato una terna di lungometraggi praticamente “invisibili” (Porte chiuse, La buona fortuna e Il processo delle zitelle).
Una voce stentorea, del tutto simile a quella che accompagnava i documentari del regime, accompagna un collage di immagini che riprendono la vita ordinaria dei partigiani in montagna, qualche loro isolato combattimento, scene di repressione e di fucilazione da parte dei fascisti repubblicani e infine il giubilo delle popolazioni per l’arrivo dei partigiani in città e soprattutto per la fine di un’interminabile e crudele guerra. Inutile dire che si tratta di un documentario di mera propaganda dove non si indaga nessuno degli eventi ritratti (la guerra, la sconfitta, la nascita della Rsi, la reazione delle bande partigiane, la scelta della montagna e quella dell’arruolamento nelle fila dell’esercito di Graziani) e in cui l’unica voce che si sente è quella, francamente irritante, del narratore. Così i fascisti commettono “atrocità a ripetizione” e “feroci esecuzioni” mentre gli eroici partigiani “non danno tregua al nemico”. Già nel differente scelta delle parole appare evidente che uccidere da una parte o dall’altra della barricata non è la stessa cosa.
Nel commento sonoro abbondano i canti comunisti (Bandiera rossa e l’Internazionale) come pure si sprecano i simboli del Pci (falce e martello) dipinti su carri armati e automezzi vari, come pure le scritte inneggianti a Togliatti e all’Urss. L’agognata fine del conflitto viene dipinto, senza troppi sottintesi, come un merito esclusivo della cultura comunista, egemone della Resistenza. In tal modo l’oggettiva sconfitta italiana viene capovolta in una stralunata vittoria dei comunisti italiani e in un’evidente allusione alla loro superiorità morale ovvero a quella saccente superiorità con la quale l’Italia del dopoguerra (perfino l’attuale Italia berlusconiana) dovrà costantemente fare i conti.
Per nostra fortunata sorte, la presenza angloamericana in Italia renderà impossibile il passaggio della penisola da una sciagurato regime a un altro perfino peggiore (quello del tetro stalinismo) come si propugna, sostanzialmente, in questo documentario rigidamente schierato, nonché opera di due autori i quali, fino a qualche mese prima, lavoravano per la Rsi.
In ogni caso le immagini dipingono la terrificante guerra civile in corso e come tali, una volta eliminato l’insulso commento, posseggono un loro importante valore documentaristico.
La santificazione della Resistenza e la divaricazione tra morti di prima e seconda classe inizia qui, a pochi mesi dalla fine del conflitto, e perdura fino ai giorni nostri sebbene in un clima decisamente mutato e più propenso a esaminare le ragioni di ogni parte in causa.
Ciononostante, poiché le fortune politiche di numerosi attuali soggetti partitici affondano le radici tuttora in quegli eventi, gli sforzi per un’obiettiva ricostruzione storica di quel periodo sono assai improbabili nell’immediato come pure nei prossimi anni, quanto meno nei media a larga diffusione (ossia nei media rigidamente controllati dai differenti soggetti politici) quali radio, televisione, cinema e grandi case editrici con annessi quotidiani e settimanali. Quel poco che è avvenuto negli anni novanta si è basato sull’implicito accordo tra dirigenti del Msi-An e del Pds–Ds, entrambi interessati a una legittimazione reciproca ai danni dei partiti centristi, eliminati dall’operazione tangentopoli. Frutto un po’ tardivo di questo accordo è certamente l’ambiguo film Romanzo criminale (Placido, 2005). Anche in questi casi dunque non l’amore per la verità, ma le esigenze politiche contingenti hanno portato - seppure per un breve periodo - a una maggiore obiettività nella disamina storica della guerra civile, nel disperato e vano tentativo di porre in essere una memoria condivisa e pacificata.
La riflessione culturale a larga diffusione rimarrà sempre ancella delle esigenze dei soggetti politici.