Il sogno di Zorro, Le avventure di Mandrin, I tre corsari, Jolanda la figlia del corsare nero, La provinciale, A fil di spada, Il segreto delle tre spade, Il boia
di Lilla, Frine cortigiana d’Oriente e Il capitan fantasma: dal fumetto al romanzo d’appendice (1952-53)
Nel 1952-53 Soldati ritorna stabilmente al film in costume dopo il buon esito di Donne e briganti (1951; vedi) firmando ben quattro pellicole consecutive di tal genere. Si inizia con la farsa
Il sogno di Zorro
(marzo 1952; 86 min.), caricatura prevedibile dei numerosi film dedicati al simpatico giustiziere spagnolo, basata su una sceneggiatura di Mario Amendola, Ruggero Maccari, Marcello Marchesi e Sandro Continenza. Nel ruolo principale ritroviamo Walter Chiari (già diretto da Soldati nei recenti E’
l’amor che mi rovina e O.K. Nerone) che dimosrtra i consueti limiti di compatibilità con il mezzo cinematografico. La sua comicità, dalle smorfie esagerate, è troppo legata al palco della rivista per poter funzionare
nel realismo fotografico del film. Potremmo anzi stabilire che la grande stagione della cosiddetta commedia all’italiana – alla quale anche il comico pugliese darà il suo apporto – inizierà quando una lunga serie di importanti
attori comici riuscirà a smussare le intemperanze dell’avanspettacolo tipiche dei propri personaggi, forgiati comunque all’interno di quella fondamentale esperienza artistica; solo allora – rientrati quei personaggi nella
verosimiglianza della narrazione filmica, resi cioé compatibili con le esigenze del quotidiano senza peraltro rinnegarne l’originale e vincente tipologia – inizierà l’epoca della commedia italiana. Si può anche capire perché
quest’ultima sia stata difficile da replicare in epoche successive: gli attori che emergeranno negli anni ottanta e novanta mancheranno di quella formazione del teatro di rivista dal quale sorge l’inimitabile vivacità dei film
degli anni sessanta e settanta; al contrario gli interpreti più recenti si sono formati all’interno di un linguaggio filmico o peggio televisivo nel quale quegli eccessi non erano più ammessi (se non saltuariamenti e in
contesti eccezionali). All’epoca de Il sogno di Zorro però lo stile filmico non aveva ancora saputo sganciarsi dalla rivista, attenuarne le trovate ed era spesso una trascrizione in immagini dei siparietti dell’avanspettacolo, con esiti insopportabili, soprattutto per lo spettatore odierno.
Così la vicenda complessiva risulta un pretesto senza interesse e le scene si susseguono in blocchi ben definiti di sapore teatrale (facilmente adattabili su un palcoscenico), basati su gag e smorfie largamente
incompatibili con il racconto per immagini. Nello specifico il film di Soldati conta un paio di sequenze riuscite e poco altro. Il nostro Zorro (Walter Chiari) è bifronte: una botta in testa lo rende di colpo timido,
effemminato e misticheggiante fino allo spasimo (una esplicita presa in giro dell’altruismo cattolico) mentre una successivo colpo alla zucca lo riporta ad essere il guerriero indomito e coraggioso che conosciamo. In tal senso
Walter Chiari ha la possibilità di mettere in scena tutte le sfumature di cui è capace, da quelle a un passo dalla leziosità omosessuale (fatto per l’epoca ai limiti della decenza) a quelle del focoso avventuriero. Il suo
nemico principale è invece impersonato da un efficace Vittorio Gassman, la cui interpretazione però accentua il carattere teatrale dell’insieme. In particolare appare esilarante la sequenza dei mille trabocchetti in una
stanza chiusa, destinati a uccidere Zorro il quale, ovviamente, riesce ad evitarli senza neppure accorgersene. Altrettanto riuscita è la sequenza della falsa serenata: Zorro assolda uno zingaro affinché canti al suo posto
mentre egli, tremendamente stonato, simula sotto al balcone della bella; in breve tempo gli zingari divengono tre o quattrro (c’è anche una donna): essi si alternano e si accapigliano per poter cantare l’uno al posto dell’altro
mentre Zorro continua a simulare imperterrito la sua serentata con grande sconcerto della fanciulla (Delia Scala). Il resto della pellicola scorre piuttosto noioso: i malvagi verranno puniti e i buoni premiati... Gli
incassi sono modesti. Il titolo verrà ripreso da una parodia di Mariano Laurenti con Franco Franchi del 1975. Le avventure di Mandrin (marzo 1952; 95 min.), nuova coproduzione italofrancese (dopo Donne e
briganti, incentrato su Fra’ Diavolo con Nazzari) torna a toni più seriosi. Esso appare un evidente ricalco del già citato Donne e briganti e si basa su una sceneggiatura scritta dal regista con Giorgio Bassani, Augusto Frassineti e Nino Novarese.
Al posto del brigante Michele Pezza c’è ora la figura di Louis Mandrin (1725-55), una sorta di Robin Hood francese alle cui gesta il racconto si ispira assai liberamente: l’eroe tutto di un pezzo, popolano gentile e
all’occasione galantuomo, capace di fronteggiare con eguale charme locandiere di montagna e nobildonne di Versailles, è ora interpretato da un simpatico Raf Vallone che non sfigura al confronto con Nazzari. Il resto del cast - Silvana Pampanini nel ruolo di locandiera innamorata, Gualtiero Tumiati in quelo di un eccentrico castellano e Vinicio Sofia quale perfido capo dei doganieri – recita con convinzione. Soldati riesce a miscelare con abilità umorismo e dramma, beffa e avventura. Pertanto la narrazione delle imprese di Mandrin, soldato disertore che guida una banda di fortunati contrabbandieri tra il Piemonte dei Savoia e il Delfinato francese, non si prende troppo sul serio e non dimentica mai la componente giocosa. I nemici di Mandrin, capopopolo sempre più affermato e potente nella zona, sono i burocrati di confine, boriosi e sfruttatori della povera gente. Tutte le imprese riescono al fortunato malandrino fino a quando non eccede, beffando addirittura la favorita del re di Francia. Patou (Gudo Donnini), suo invidioso seguace, lo tradisce, i Francesi lo catturano in Piemonte e spediscono al patibolo; gli amici però non l’hanno dimenticato e lo salvano all’ultimo secondo (il vero Louis Mandrin, invece, muore strangolato dai doganieri francesi).
Come nel film su Fra’ Diavolo, il ritmo è spedito, i dialoghi sono brillanti, le immagini curate (qualche volta pittoriche; direttore della fotografia è Mario Montuori, lo stesso di Donne e briganti) e le
musiche di Mario Nascimbene sono ben dosate e mai invadenti. Lo spettacolo è di buona fattura anche se privo di originalità. Tra la fine del 1952 e l’inizio del 1953 esce nelle sale un dittico salgariano (le due pellicole
sono state girate contemporaneamente), basato su sceneggiature di Age, Scarpelli, Brusati e De Concini, nonché diretto da Soldati. Si comincia con I tre corsari (ottobre 1952; 90 min.) liberamente tratto da Il corsaro nero (1898). Nel mar dei Caraibi, intorno alla metà del Seicento, tre fratelli appartenenti alla nobiltà ligure vogliono vendicarsi di Van Gould (Marc Lawrence), assassino del loro padre ma anche potente condottiero spagnolo. Per riuscire nel loro intento i tre giovani si uniscono ai pirati che, durante una scorribanda, li hanno liberati dalle carceri di un galeone spagnolo. Trasformatisi ne il corsaro nero (Ettore Manni), rosso (Renato Salvatori) e verde (Cesare Danova), in breve tempo riescono ad avere ragione del proprio nemico anche se uno di loro – il corsaro rosso – verrà catturato e ucciso a causa delle atroci torture inferte dagli spagnoli.
Il film è lavoro di semplice routine nel quale si nota la consueta accuratezza nella composizione pittorica delle immagini (spesso fortemente contrastate e simili a quelle del cinema espressionista tedesco) curate da Tonino
Delli Colli e un’insolita crudezza nella descrizione delle violenze (si veda in particolare la già citata sequenza della tortura). La partitura musicale di Nino Rota – di taglio operistico – offre soprattutto un bel tema
melodico che accompagna gli episodi amorosi (il corsaro nero si innamora della figlia del vicerè spagnolo... ). Il successivo Jolanda, la figlia del corsaro nero
(febbraio 1953; 95 min.), tratto in modo molto libero dall’omonimo romanzo (1905) di Salgari, è invece più scadente. La vicenda è più o meno la stessa – Jolanda deve vendicare il padre, ucciso dal perfido Conte di Medina (Marc Lawrence) che governa Maracaibo – così come scenari, situazioni e dialoghi. Mancano i pregi visivi e musicali del precedente film (anche se i collaboratori sono sempre Delli Colli e Rota), gli attori sono più fiacchi (a partire dalla protagonista, la svedese May Britt) mentre la trovata di una Jolanda guerriera che tutti scambiano per un uomo è realizzata in modo pessimo, visto che la protagonista mostra un bel volto nettamente femminile. Il realismo fotografico del cinema ha altre esigenze rispetto alla arta stampata...
Entrambi i film salgariani riportano un discreto successo popolare (soprattutto il primo). Abbandonato il fumetto, Soldati passa al fotoromanzo d’autore con La provinciale
(febbraio 1953; 110 min.), pellicola liberamente ispirata al racconto omonimo (1937) di Moravia e sceneggiata da un piccolo esercito di letterati tra cui Giorgio Bassani. Gemma (Gina Lollobrigida), una ragazza senza qualità
e senza soldi (il nome è vagamente ironico se si considera poi che nel racconto è anche piuttosto bruttina) si innamora di Paolo Sartori (Franco Interlenghi), un giovane, ricco, bello, giovane e nobile. Al culmine della loro
storia
sentimentale, la giovane scopre di essere sorellastra dell’uomo (glielo dice la madre, un tempo amante del padre del ragazzo). Così Gemma ripiega su un professore (Gabriele Ferzetti), affittuario in casa sua e se lo sposa pur trovandolo noioso (Moravia si accanisce su di lui fin dal nome, prof. Vagnuzzi...). La giovane si annoia, conosce un’avventuriera rumena (Alda Mangini) che dapprima la getta nelle braccia di un vecchio amico (Renato Baldini), poi ne facilita gli incontri clandestini, infine la ricatta. Nel frattempo Gemma ha scoperto lo squallore di queste conoscenze passeggere e la nobiltà del marito. A quel punto trova la forza di confessare le proprie colpe al comprensivo coniuge che sbatte fuori casa in malo modo l’ex amica.
Come si vede il soggetto possiede i tipici caratteri torbidi e un po’ artificiosi della narrativa di Moravia. Soldati realizza con buon senso dello spettacolo il racconto, giocando su una struttura a flashback mutuata dal
noir americano. Pochi sono però gli elementi di valore in questo romanzo d’appendice: innanzitutto la curiosa idea (di Franco Mannino si presume, curatore del commento musicale) di utilizzare le 32 variazione in do minore (1806) per
pianoforte di Beethoven quale colonna sonora unica di una pellicola che si apre sull’esposizione dell’eroico tema beethoveniano e termina con la solenne perorazione finale della poco nota pagina pianistica. Queste magnifiche
miniature pianistiche trascolorano dal canto intenso ed estatico al frammento impetuoso ed eroico e si adattano, in modo curioso, alle vicende grige e drammatiche di Gemma, dipingendone lo stato di convulsa e febbrile ansia che
la tormenta (dapprima l’amore fallito, poi quello di convenienza col marito, infine quello extraconiugale generato dalla noia) in modo essenziale ed asciutto, senza peraltro mai precipitare nel retorico e nel melodrammatico. I
questo Soldati ha imparato la lezione innovativa dell’Antonioni di Cronaca di un amore in cui il moderno commento sonoro (di Giovanni Fusco) era affidato al pianoforte solo e al sax. Un secondo elemento di sicuro
interesse è costituito dall’ambientazione autunnale e triste del racconto, con squarci urbani angusti e grigi, un grigiore che raffigura un evidente prolungamento dello stato emotivo della protagonista. Il film è girato a
Lucca, ma il nome della cittadina non viene mai pronunciato, anche perché i personaggi hano in genere parole di sufficienza per il luogo di residenza di Gemma la quale, a sua volta, non vede l’ora di abbandonare quel “buco”.
Anche la polemica contro le piccole realtà urbane – in cui non accaderebbe mai nulla (a sentire i nostri cineasti) – è tipica di una certa visione della modernità (la si ritrova come tema costante nel cinema hollywoodiano) la
quale sa di poter ritrovare i propri confusi valori edonistico-libertari solo nel caos delle grandi realtà metropolitane. In ogni caso il film ha il merito di proporre la pittura di una piccola borghesia alienata e scontenta
che verrà ripresa a sviluppata dalla celebre tetralogia (1960-64; vedi) di Antonioni il quale, non a caso, ne L’avventura (1960) affida a Ferzetti un ruolo molto simile rispetto a quello del marito disattento e un po’ ottuso di Gemma.
Per il resto La provinciale è un dramma scontato i cui personaggi sono macchiette non molto distanti da quelle dei film sui pirati. La ragazza scontrosa e annoiata, il professore rinchiuso nel suo mondo accademico e incapace di comprendere cosa stia accadendo all’inquieta moglie, l’avventuriera straniera (nientemeno che una contessa rumena fuggita dal comunismo) pronta ad ogni bassezza pur di arricchirsi, la madre colpevole che ha nascosto alla figlia la vera identità del padre, una famiglia di nobili sfaccendati che non è in grado di stabilire un colloquio franco con la protagonista. Insomma un quadro che viene spacciato con i toni del realismo ma che è solo un fumetto per adulti (la pellicola viene vietata ai minori di sedici anni e giudicata negativamente dal Centro cattolico) basato su stereotipi della letteratura popolare di consumo. D’altronde il testo di Moravia, che risale a quindici anni prima, non è lontano - nel suo gusto un po’ morboso - da Gli indifferenti (1929):
tra incesti sfiorati, mariti prepotenti e amori extraconiugali, la finalità del romanziere rimane sempre quella di aggredire una borghesia italiana la quale – impaurita dal biennio rosso - aveva avuto il torto di assecondare il
fascismo. Non a caso l’uscita di scena della contessa rumena avviene con il velleitario proclama di “Siete tutti marci, tutta l’Italia è marcia!” il cui senso trascende i modesti eventi della narrazione filmica per attingere a
pretesi significati simbolici di carattere più generale.
Nello stesso periodo escono anche un paio di film di Carlo Ludovico Bragaglia simili alle pellicole salgariane di Soldati. Il primo è A fil di spada
(set. 1952; 79 min.) nel quale l’eroico Don Guy (Frank Latimore) si batte contro don Sebastiano (Pierre Cressoy), tiranno oppressore di una colonia spagnola nel mar dei Caraibi del Seicento. Lo sostiene la popolazione dell’isola che, al momento opportuno, insorge in aiuto dell’isolato protagonista imprigionato e ingiustamente accusato di omicidio. Finale lieto.
Nella pellicola di routine, girata senza infamia e senza lode, ritroviamo in parti minori anche Doris Duranti, Nando Bruno, John Kitzmiller e Franca Marzi. Un po’ più interessante è Il segreto delle tre punte
(set. 1952, 80 min.), uscito nello stesso mese, sceneggiato da Age e Scarpelli e incentrato su vicende inerenti la storia nazionale. Nel 1868 in Sicilia Massimo Del Colle (Massimo Girotti), ex tenente dell’esercito italiano
si infiltra tra i cospiratori borbonici capeggiati dall’insospettabile duca di Melia (Roldano Lupo) e ne sabota le intenzioni rivoluzionarie e antiitaliane. Il soggetto assai impegnativo e vicino ai temi de Il brigante di
tacca del Lupo (Germi, 1952) non indaga minimamente le ragioni degli uni e degli altri, dipinge i neoitaliani come patrioti ragionevoli ed equilibrati mentre i ribelli appaiono come localisti meschini e spietati (il conte
non esita a giustiziare un suo uomo ferito per il semplice sospetto che si tratti di un traditore). In ogni caso le questioni di storia patria sono un fondale generico (la vicenda poteva essere egualmente ambientata ai Caraibi,
tra pirati e corsari....) e il film si perde nella descrizione delle usuali generiche macchinazioni e degli immancabili amori multipli che accompagnano le gesta dell’eroe.
Vittorio Cottafavi, dopo una serie di film tutti in qualche modo interessanti (da La fiamma che non si spegne a L’uomo che ho ucciso), cede alla moda del film avventuroso e firma l’insignificante
Il boia di Lilla (ottobre 1952; 90 min.), titolo assai fuorviante nel quale si raccontano le malefatte di Milady (Yvette Lebon), l’acerrima nemica dei tre msochettieri. Non a caso esiste un secondo, più appropriato
titolo che recita La vita avventurosa di Milady. Le vicenda, sceneggiate dal regista con Giorgio Capitani ed altri, riprende alcuni paragrafi del celebre testo di Alexandre Dumas, I tre moschettieri (1844), reinterpretati e assemblati molto liberamente. Infatti i moschettieri compaiono solo nella parte finale del film mentre dapprima assistiamo alle imprese di questa seconda Manon Lescaut (siamo però nella prima metà del Seicento) la quale riesce a raggiungere una posizione di ampio potere grazie agli amanti e ai mariti che riesce a sedurre e imbrogliare. La prima delle sue vittime, un militare disertore (Armando Francioli), però finisce suicida e il fratello (Jean Roger Caussimon), il boia di Lilla, dà un’inesorabile caccia alla donna. Aiutato dai quattro moschettieri, uno dei quali (Athos interpretato da Rossano Brazzi) è stato addirittura sposato con Milady, riesce infine a portarla sul patibolo.
La narrazione è del tutto ordinaria. Si possono apprezzare alcuni spunti figurativi, qualche ammiccante leitmotiv inventato da Renzo Rossellini e il perfetto riutilizzo del celebre tema del quarto movimento dalla Sinfonia Fantastica (1830) di Berlioz il cui titolo è appunto Marcia al supplizio.
Anche un regista di valore quale Mario Bonnard cede alla seduzione del fumetto in costume e gira Frine, cortigiana d’Oriente
(dicembre 1953; 90 min.), vicenda ambientata nell’antica Grecia tra Tebe ed Atene. La bella Afra (Elena Kleus) assiste alla rovina di Tebe, viene venduta come schiava al mercato di Atene, diviene una cortigiana di lusso
(col nome di Frine), amata e venerata come una dea. Con i regali dei suoi facoltosi amanti mette insieme una importante somma che devolve alla ricostruzione delle mura tebane, non prima di avere rischiato di venire giustiziata
per sacrilegio (si era troppo immedesimata nel ruolo di sacerdotessa di Venere... ); il tutto infarcito da scenografie, musiche (di Giorgio Bonnard) e balletti di taglio operistico. Non mancano le consuete triangolazioni
amorose che vedono in campo lo scultore Prassitele (Roldano Lupi) e la sua nobile amante. Pellicola di assoluta routine, priva di un intreccio dotato di un qualche interesse e interpretata in modo accademico (anche se non
mediocre), riscuote un buon successo, quasi certamente da attribuirsi al versante erotico: la protagonista (come pure la gran parte dei personaggi femminili) è coperta di soffici veli (il reggiseno è invenzione dell’epoca
moderna... ) che lasciano intravedere le belle forme per tutta la durata del film. Inutile aggiungere che il Centro cattolico esprime un giudizio aspramente negativo intorno al lavoro di Bonnard.
Due anni dopo il mediocre La vendetta del corsaro (vedi) Primo Zeglio torna a girare un film d’avventure marinaresche con esito decisamente migliore.
Capitan fantasma
(nov 1953; 86 min.), ambientato tra la Spagna e L’Avana (colonia spagnola) nel 1808 si svolge secondo una brillante sceneggiatura (firmata, tra gli altri, da Age e Scarpelli) che racconta i tentativi di Inigo da Costa (Mexwell Reed), un comandante portoghese, di impadronirsi del tesoro della corona spagnola. I militari della penisola iberica, in guerra con l’invasore francese, sperano di mettere in salvo quella fortuna affidandola proprio al doppiogiochista Inigo, già colpevole di altri crimini. Per fortuna c’è il il capitan fantasma (Frank Latimore) ovvero Miguel, figlio del generale Cubanil, ucciso a tradimento dal portoghese, che comprende i disegni del losco avventuriero e riesce a sventarli.
Il film possiede innazitutto colori sgargianti, un buon ritmo, attori adeguati e caratteristi non dozzinali; inoltre, più che alle soliti puerili situazioni tipiche di questo genere di ispirazione spesso salgariana, siamo
in presenza di un complotto tortuoso che possiede le cadenze del giallo cospirativo. Sulla nave diretta a L’Avana il portoghese e i suoi complici (tra cui Cesare Fantoni) interpretano ruoli doppi (fanno saltare con un
complicato marchingegno la nave “amica” degli Spagnoli da cui hanno prelevato il tesoro, scortano la figlia del governatore de L’Avana, interpretata da Anna Maria Sandri, con l’intenzione di ammazzarla appena possibile... ) e
Miguel, che viaggia sotto falso nome, agisce come un detective. La miscela offre dunque uno spettacolo ben condotto e insolito.
Senza raggiungere esiti memorabili, la pellicola possiede in definitiva qualità superiori alla media.
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