Don Camillo monsignore... ma non troppo e La rabbia

Don Camillo monsignore... ma non troppo, Il cambio della guardia, La rabbia e I sogni muoiono all’alba: riflessioni insolite intorno alla questione comunista  (1961-63)

                ”Lo feci fucilar per le idee...
                Quali?...
                Nemmeno me lo ricordo più quali, è l’unico particolare
                che ho dimenticato... quali. Le idee che obbligano un uomo
                ad ammazzare un altro uomo non sono quali, sono merda”
                I. Montanelli, dialogo da I sogni muoiono all’alba (1961)

Sei anni dopo la terza puntata, Guareschi (autore del soggetto) e Gallone (sceneggiatore e regista) ripropongono la nota coppia di amici-nemici in Don Camillo monsignore... ma non troppo (ottobre 1961; 105 min.). Entrambi i personaggi hanno fatto carriera e risiedono ora nella capitale: l’uno è un monsignore che assolve con qualche fastidio ai propri compiti burocratici, l’altro è un senatore non proprio ai vertici della dirigenza comunista. Appena ai due si presenta l’occasione di rientrare a Brescello lo fanno con grande piacere.
Anche questo film è strutturato in una serie di episodi i quali, tuttavia, hanno maggiore respiro di quelli del passato, si collocano nella nuova situazione internazionale di distensione tra le due superpotenze e si collegano con maggior precisione allo scenario politico e culturale dei primi anni sessanta. Anzi potremmo dire che il film nasce proprio per rispondere ad alcune idee nuove – libertarie e irriverenti – che sono già sulla porta del vulcanico decennio e alle quali il lavoro – di evidente taglio conservatore – vuole dare una risposta, sorridente ma ferma.
Il primo episodio riguarda la costruzione di alcune case popolari da parte di una cooperativa comunista che prevede l’abbattimento di un altare della Madonna posto su strada. Tutti dicono di volerlo fare, anche dopo che Don Camillo ha dato il suo benestare (non prima di essersi fatto dare la metà degli alloggi per i suoi parrocchiani) e tuttavia il gesto sacrilego incute timore. Ci si mette anche una vecchina devota (una bravissima Emma Gramatica) che abbracciando disperata il piccolo altarino rende le cose ancor più difficili. Si troverà una soluzione: l’altare verrà inglobato nel nuovo edificio. E’ un primo episodio – come si vede - tutto all’insegna dei tempi nuovi, della pacificazione e della collaborazione tra democristiani e socialcomunisti, caldeggiata sia dalla politica di Crusciov, sia da quella di Giovanni XXIII (Kennedy non è ancora salito al potere; nel film il presidente in carica è ancora Eisenhower). Questo racconto, tutto incentrato sulla fede religiosa, che a Brescello si vuole interclassista e interpartitica, rimanda a uno dei sette episodi de La dolce vita (1960) – quello del falso miracolo - del quale costituisce una sorta di risposta cattolica. Nello scandaloso film felliniano si mette in scena una grande adunata notturna durante la quale due perfidi bambinelli affermano di vedere la Vergine ora qua, ora là, prendendo in giro una vasta folla credulona e dando spettacolo per un apaprato mediatico (radio, tv e giornalisti) smaliziato che non chiede di meglio. Episodio scettico e, a suo modo, blasfemo (termina in una fredda alba in cui l’unico esito certo è quello di due morti causati dalla calca) fa parte di questo potente affesco massonico durante il quale si racconta la nascita di un mondo nuovo (l’alba che conclude ognuno dei sette episodi), privo di certezze e di valori assoluti. A quella beffarda e grandiosa caricatura di Fatima e di Lourdes risponde più modestamente la folla di Brescello la quale, capitanata da un sacerdote fieramente conservatore e da un comunista poco rivoluzionario, afferma che su certe cose è meglio non scherzare, che un altare è meglio lasciarlo dove sta da decenni (forse secoli) e che chi tenta di sradicarlo va incontro a guai grossi (un camion cerca invano di trascinarlo via e, allorché le corde cedono, la folla urla al miracolo).
Gallone e Guareschi, autori del mondo conservatore, rispondono così a Fellini, Flaiani e Pinelli; nè il rimando può essere più chiaro visto che tra gli interpeti del nuovo Don Camillo c’è anche quella Valeria Ciangottini che interpretava “l’angelo caduto” nel capolavoro del regista riminese.
Saltando all’episodio finale, che si collega idealmente a quello iniziale dell’altare su strada, Guareschi e Gallone rievocano nientemeno che gli scontri sanguinosi che divisero l’Italia tra il 30 giugno e il 10 luiglio 1960. Iniziati a Genova essi si estesero a Torino, Roma, Milano e Reggio Emilia dove si registrarono 5 morti. Gli autori immaginano che uno di essi fosse di Brescello: di colpo il tono fiabesco, seppur intriso di verità, viene accantonato e la cronaca politica più aspra entra nel film, conferendogli un tono tragico e quasi epico (la scena del funerale) di cui si ricorderà perfino il Bertolucci di Novecento atto primo (1976; vedi la scena del funerale guidato da Olmo in un paesino della Bassa Padana, terrorizzato dalle violenze squadriste).
Gli scontri di quei giorni miravano a far cadere il governo Tambroni, sostenuto dal MSI, e a obbligare una volta per tutte la DC a orientarsi verso l’accordo con le sinistre. E così fu: alla fine delle violenze il governo si dimise e lasciò il posto a un lungo governo Fanfani che preparò il successivo centrosinistra (1963) guidato da Aldo Moro. Non senza una certa sorpresa vediamo che gi autori schierano il nostro don Camillo a fianco di quella DC che guardava a sinistra per risolvere le tensioni del paese. D’altronde Guaereschi, monarchico e fiero anticomunista, non era mai stato fascista e non aveva alcuna simpatia per il MSI; né va dimenticato che il suo Don Camillo ha sempre aiutato la Resistenza (vedi il secondo episodio del film): anzi è proprio in quel contesto che è nata la fraterna amicizia con Peppone. Dunque di fronte ai terribili fatti di Reggio Emilia, in cui la polizia uccise ben cinque manifestanti, la scelta dei nostri eroi è obbligatoria.
L’episodio finale del funerale in piazza appare quindi intenso e ben calibrato (Don Camillo suona personalmente le campane per il morto, anche se si tratta di un funerale civile) seppure insolito nella saga di Brescello: l’unica risposta politica possibile sembra essere dunque una saldatura tra universo cattolico e socialcomunista che guardi con favore alle classi più umili attraverso provvedimenti riformisti e lasci da parte sia l’integralismo cristiano degli uni, sia i disegni rivoluzionari degli altri. La strategia di quello che negli anni settanta si chiamerà compromesso storico, già adombrato nei tre film degli anni cinquanta, diviene il fulcro evidente di questo quarto lavoro.
Il film si incentra poi – soprattutto nella parte centrale – sul problema dei sacramenti: il matrimonio del figlio di Peppone con Valeria Ciangottini che il dirigente comunista vorrebbe civile e che don Camillo vuole religioso. Si discute animatamente della cosa (sarebbe il primo matrimonio civile nel paesino), si mettono in atto tutti gli stratagemmi possibili da entrambe le parti e alla fine la spunta don Camillo: il matrimonio sarà religioso con tanto di Peppone in funzione di chierichetto. Quando però sarà la volta del funerale del manifestante morto a Reggio, allora sarà Peppone ad averla vinta e il funerale sfilerà per le vie del paesino, senza entrare nella chiesa. Guareschi e Gallone cercano di difendere l’ortodossia cattolica e la Tradizione rispetto ai pericolosi modernismi dei socialcomunisti (che diverranno presto moneta comune) e tentano di mettere in atto una politica di svuotamento delle ambizione rivoluzionarie, costantemente sbandierate dalle sinistre. Sarà poi questa la politica di Moro nella parte centrale del decennio, anche se, accanto a un mondo politico ingessato, si svilupperà una vera rivoluzione nei costumi del mondo sociale (alla quale contribuirà in modo decisivo proprio il cinema italiano).
Guareschi continua a considerare i comunisti come dei fanfaroni che si inventano un’adesione al marxismo che sconfessano poi nella pratica quotidiana, tra battesimi e matrimoni religiosi. Questa visione auspicata e troppo semplicistica, si rivelerà solo parzialmente corrispondente al reale: i democristiani decidono di cavalcare la tigre e alla fine del percorso – vent’anni dopo - si ritroveranno in una società radicalmente mutata dopo che molti di loro sono morti per mano del terrorismo rosso. Dopo la tragica scomparsa di Aldo Moro, per uscire da vicolo cieco in cui si erano ficcati, dovranno accodarsi al nuovo PSI craxiano e concedere carta bianca al laicismo consumista delle televisioni berlusconiane.

Il notevole successo (anche questa volta l’incasso supera il miliardo) del quarto Don Camillo induce i due mattatori ad accettare di ritrovarsi insieme in una variazione sul tema ossia Il cambio della guardia (ottobre 1962; 90 min.), ispirato al romanzoe Avanti la musica! (il titolo è proprio in italiano) dello scrittore francese Charles Exbrayat, sceneggiato da Albert Valentin e Jean Manse. Siamo ad Ardea, piccolo centro a nord di Latina (ovvero Littoria), a pochi chilometri dal mare e da Anzio, nei primi mesi del 1944. L’arrivo degli americani è questione di giorni e dunque il podestà Mario Vinicio (Gino Cervi), fascista tiepido e pronto a cambiare casacca, lascia il proprio incarico per conferirlo all’oste antifascista Attilio Cappellaro (Fernandel). L’ala intransigente del partito però non ci sta: il fanatico doppiogiochista Crippa (Andrea Aureli) – il quale sta per scappare con un ricco botttino – chiama una squadraccia da Littoria per sistemare il “traditore”. Poco dopo però Crippa viene ucciso e la salma vien fatta continuamente sparire per depistare gli squadristi, nel frattempo giunti ad Ardea. Equivoci a non finire fino allo scioglimentoe: il colpevole è Virgili (Franco Parenti), un altro fascista intransigente che, dopo aver rubato il denato al Crippa, cercava di far ricadere le colpe su Cappellaro. Intano arrivano gli Americani: l’oste - nonché direttore della banda musicale cittadina – insieme al’intera popolazione in festa, saluta i nuovi arrivati in un tripudio di marcette anglosassoni.
Come si nota i ruoli sono ancora quelli dei racconti di Guareschi: Gino Cervi è sempre il sindaco, amato da tutti anche se rappresentante di una forza politica autoritaria e antidemocratica; Fernandel è il saggio oppositore che – da vent’anni – in modo coerente rimprovera all’amico podestà le malefatte del regime (perfino quelle architettoniche, relative allo squadrato e monocorde stile delle nuove costruzioni in Ardea). Cappellaro è in posizione di minoranza (come don Camillo a Brescello) ma rappresenta quei valori di tolleranza e libertà che, si auspica, debbano avere sempre la meglio. Il podestà invece rappresenta l’italiano medio che ha accettato il fascismo come il minore dei mali, che ha simulato adesione e convinta partecipazione, che lo ha interpretato con le riserve del caso (infatti il dissidente Cappellaro è stato tollerato per anni, senza troppe ritorsioni)  ma che è pronto a gettare la maschera appena essa diviene ingombrante e nociva. Come lui, quasi tutti i cittadini di Ardea attendono trepidanti l’arrivo dei liberatori e, soprattutto, la fine della guerra. Il manipolo di squadristi, anch’essi in fondo poco convinti (pronti a rubarsi a vicenda il bottino di Crippa), utilizzano gli ultimi sprazzi di potere loro conferito per perseguitare i loro concittadini e arricchirsi alle loro spalle. Insomma un quadro abbastanza scontato e verosimile, anche se addolcito nei termini di una piacevole farsa tutta italiana nella quale le ideologie risultano essere espedienti di comodo, semplici maschere pirandelliane indossate a seconda delle circostanze e delle necessità.
Il film si regge esclusivamente sulla simpatia dei due principali interpreti. A differenza dei lavori su Don Camillo, in cui era evidente il carattere caleidoscopico della narrazione (in quanto spesso derivante di singoli, separati racconti), Il cambio della guardia propone un unico argomento: lo scontro tra antifascisti (vecchi e nuovi) e intransigenti (di comodo) il quale ruota intorno al misterioso omicidio del fanatico Crippa (il cui preciso ruolo politico non viene chiarito) mentre i vicini cannoneggiamenti alludono all’ormai prossima fine di un’era.
Quanto invece al nucleo principale del racconto – la vicenda del cadavere continuamente trafugato – risulta chiaro che il film riprende lo schema narrativo de La congiura degli innocenti (Hitchcock, 1955) a sua volta derivato dal romanzo The Trouble with Harry (1949) dello scrittore inglese Jack Trevor. Per la scelta generale dell’argomento invece il film si inserisce pieno titolo nel filone cinematografico di argomento storico-politico inaugurato da Il generale Della Rovere (Rossellini, 1959) e che si esaurirà di lì a poco con I compagni (Monicelli, 1963) e Italiani brava gente (De Santis, 1964).
Gli incassi questa volta sono assai modesti.

Due anni dopo Don Camillo... monsignore ma non troppo esce un bizzarro esperimento filmico che accomuna Pier Paolo Pasolini e Giovannino Guareschi: sotto il titolo La rabbia (aprile 1963; 95 min.) ciascuno dei due letterati – nonché abili polemisti – illustra la propria visione del mondo, riesaminando alcuni dei principali episodi del decennio appena concluso. I due saggi per immagini, completamente basati su immagini di repertorio, si collocano ovviamente agli antipodi e suscitano un acre scontro giornalistico tra i due autori.
Come prevedibile il film è un sonoro fiasco: il pubblico non è certo preparato a pagare il biglietto per assistere a un elegante, finanche poetico, lungo cinegiornale d’autore.
La parte pasoliniana appare notevolmente squinternata: si inizia con il compianto dei morti d’Ungheria (il compianto e la connessa rabbia sono la cifre insistenti dell’episodio pasoliniano nel quale si cerca l’emozione poetica e si evita qualunque approfondimento storico) e si termina con l’esaltazione delle conquiste russe nello spazio (una grande festa sulla piazza rossa di Mosca). Appare chiaro che qualcosa stride: o si è con l’Urss, o si è contro l’Urss; non si può accusarla di strage in Ungheria e poi esaltarne, con enfasi acritica, i primi voli spaziali. L’operazione appare dunque sospetta e volta a ingraziarsi i vertici del PCI, tanto più che proprio uno degli eventi cardine della storia recente – la costruzione del muro a Berlino (1961) – è del tutto assente in questo saggio che allinea, invece, tutte le disgrazie del periodo storico. D’altronde nell’autunno 1962 lo scrittore anticipava i contenuti del suo documentario proprio sulle pagine della pubblicazione comunista Vie Nuove e dunque non ci si poteva attendere niente di diverso. D’altronde in quella sede Pasolini scriveva che “il nostro mondo, in pace, rigurgita di un bieco odio, l'anticomunismo”, mostrando (o forse fingendo) di non comprendere che milioni di persone vivevano in quei giorni (ed ancora per alcuni decenni) in una grande prigione a cielo aperto.
A Pasolini sembra allora più importante piangere per la morte di Marylin Monroe ed esaltare la salita al soglio di Giovanni XXIII, decantare la rivoluzione di Castro (si vedrà quanto libertaria e liberale in seguito... ) e quella d’Algeria (quest’ultima certamente assai più condivisibile), nonché accusare rabbiosamente i borghesi europei di ogni male del pianeta. Insomma se le immagini sono interessanti e ben montate (da sole valgono la visione), il commento letterario appare inconcludente, rivolto più agli estimatori di cose poetiche che al senso comune delle genti. Ottimo anche l’uso dell’Adagio di Albinoni, pagina musicale intensa e triste che anticipa l’utilizzo perfetto del Bach della Passione San Matteo (già presente in Accattone, 1961) per le immagini del Vangelo pasoliniano dell’anno seguente.
L’episodio di Guareschi invece prende proprio di petto la questione comunista (né ci si poteva attendere qualcosa di differente dall’autore di Don Camillo), stigmatizza con asprezza la repressione ungherese, si sofferma a lungo sulla tragedia del muro di Berlino e dei giovani perenemmente in fuga dall’est (a rischio della vita). E non solo. Guareschi osa dire almeno due cose che quasi nessuno afferma (almeno sui mezzi di comunicazione di massa): che oltre alle stragi naziste vanno processati per crimini contro l’umanità anche i sovietici colpevoli della strage di Katyn (che i comunisti di tutto il mondo continuano ad attribuire ai nazisti, sapendo di mentire) e i vertici politico-militari americani per le due bombe atomiche sul Giappone. Sulla prima strage la verità potrà affermarsi solo dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del Pcus (su Katyn, Wajda firma nel 2007 un film sconvolgente, probabilmente il capolavoro assoluto del primo decennio cinematografico del nuovo millennio e che, in Italia, è riuscito a trovare ancora forti resistenze...); sulla seconda solo Resnais - con il magnifico Hiroshima mon amour (1959) - aveva osato riflettere, accusando implicitamente gli Usa. Se La rabbia non ha circolato (viene ritirato pochi giorni dopo la presentazione), lo si deve quasi certamente a queste affermazioni dirompenti che il sistema mediatico dell’epoca non poteva permettere di far circolare e - in caso di successo del film – far divenire argomento di discussione politica poiché la cosa avrebbe messo in serio imbarazzo l’Italia nei confronti delle due superpotenze egemoni.
In generale Guareschi porta avanti un’appassionata difesa della vecchia Europa mentre riserva un duro trattamento agli Americani, considerati come nuovi, ottusi padroni, pronti a qualunque sciocchezza pur di conquistare nuovi mercati per la loro cianfrusaglie. Come si nota, si tratta di una posizione abbastanza atipica nell’universo della destra (basti pensare al filoatlantismo esasperato del Msi e di larghi settori della DC).
Il film di Guareschi possiede poi una verve e una capacità di miscelare toni e accenti, sconosciuta alla dolente monocromia pasoliniana. Tanto più che Guareschi utilizza – per le battute più taglienti – porprio il doppiatore di Don Camillo, dando all’insieme del discorso un tono, al tempo stesso, convincente e familiare. Su tutte queste tematiche Guareschi coglie nel segno: il tempo (in particolare la svolta del 1989) si incaricherà di confermare tutte le sue diagnosi.
Dove invece lo scrittore emiliano appare legato a un passato destinato a non ritornare è sulla tematica coloniale: l’autore si attarda a difendere la presenza europea in Africa con motivazioni generiche e perfino offensive nei confronti delle popolazioni di colore (l’autore mostra numerose cerimonie tribali con l’evidente intento di screditare quelle popolazioni); con lo stesso tono poi prende di mira gli omosessuali (seppure in episodi secondari), dando prova di un’intolleranza dogmatica francamente sbagliata e inutile.
D’altro canto però Guareschi intuisce già all’alba degli anni sessanta l’incombente rivoluzione sessuale che ridisegnerà i ruoli maschili e femminili, indebolendo l’istituzione familiare (c’è un esplicito attacco alle separazioni facili e al mondo dello spettacolo) e prende giustamente le distanze da queste finte emancipazioni che causeranno un diffuso e crescente disordine sociale di cui – come sempre - faranno le spese i più deboli (i bambini). Sull’argomento il fine umorista mette a segno non poche battute esilaranti.
Insomma La rabbia di Guareschi è un film dirompente (anche se non interamente condivisibile) quanto i suoi racconti su Don Camillo e Peppone.

Un attacco frontale all’universo sovietico-comunista - altettanto coraggioso e isolato – si trova ne I sogni muoiono all’alba (novembre 1961; 90 min.), unica regia di Indro Montanelli che mette in pellicola una sua commedia teatrale (1960).
In un hotel di Budapest, nelle prime ore del 4 novembre 1954, cinque giornalisti attendono l’inevitabile tragedia (la repressione nel sangue della rivoluzione ungherese): solo uno di loro (un insolito Aroldo Tieri), iscritto al PCI, parteggia per Mosca; gli altri osservano impietriti l’evento in parte inatteso. Nella sala delle feste gli Ungheresi ballano fino all’alba, assaporando le ultime ore di una breve libertà conquistata a caro prezzo (l’insurrezione è iniziata il 23 ottobre); all’alba scade l’ultimatum russo, i sogni dileguano e gli ungheresi tornano a imbracciare il fucile per una battaglia senza storie che durerà una settimana e causerà duemilacinquecento morti (nonché obbligherà all’esodo 250.000 ungheresi, timorosi delle successive, inevitabili repressioni). L’Ungheria torna ad essere così un gulag a cielo aperto (non una prigione, nella quale si presuppone che alcuni diritti dell’individuo vengano rispettati) nel quale basta un’affermazione sbagliata per perdere anche quel poco di libertà concessa dal dominio sovietico.
Il film di Montanelli è l’unico ad affrontare lo spinoso argomento il quale peraltro ha diviso il mondo comunista e causato, nel giro pochi anni, una forte diaspora di intellettuali (Renzo De Felice e Piero Melograni tra gli altri) dal PCI al PSI (che invece condanna l’intervento sovietico). Il mondo dello spettacolo, in buona parte egemonizzato dalla cultura socialcomunista, preferisce non sporcarsi  le mani e non guastarsi importanti relazioni di buon vicinato con il potente PCI per difendere e denunciare lo scempio ungherese. Togliatti ha addirittura caldeggiato l’intervento (ci sono documenti al riguardo), comprendendo che la libertà a Budapest avrebbe significato in breve tempo, la caduta dell’intero impero sovietico (come infatti accadrà nella seconda metà degli anni ottanta): sempre pronti a difendere la classe operaia italiana, il suo tenore di vita, le ingiustizie salariali ecc. questi presunti difensori degli umili fiancheggiano il permanere di mezza Europa in uno stato di incivile illibertà. Ma si sa, l’ ”oro di Mosca” val bene qualche ipocrisia e qualche scarto dialettico...
Montanelli, già autore dell’omonima piece teatrale (in due atti), si improvvisa regista (con l’aiuto di Enrico Gras e Mario Craveri) con successo e gira il film tutto in interni a Cinecittà. Il lavoro non nasconde dunque la propria origine teatrale. Innanzitutto esso rimane un buon esempio di come – in fondo – non esista un vero e proprio linguaggio cinematografico da assimilare e commentare poi nel dettaglio (l’errore di tanta critica del tutto illeggibile e, in definitiva, irrilevante in quanto snobbata dalla stragrande maggioranza del pubblico): si pensi che negli stessi giorni un altro uomo di lettere  – Pier Paolo Pasolini – esordiva alla regia con il magnifico Accattone senza avere seguito alcun corso di regia. A differenza di altre arti quali la musica o la pitttura in cui per arrivare ad esprimersi con compiutezza necessitano anni di studio e per la quali ha dunque senso una critica specializzata che esamini il linguaggio delle opere d’arte, il cinema si limita a mettere in scena la vita, ad imitarla, ad essere “la lingua scritta della realtà” (Pasolini) e pertanto il buon esito di una pellicola non dipende tanto dalle conoscenze tecniche dell’autore, quanto dalla conoscenza del reale e dalla sua capacità (e coraggio) di reinventarlo. Certo in generre bisogna avere almeno qualche capacità narrativa (Montanelli aveva iniziato a scrivere per il teatro negli anni trenta), qualche dote letteraria e un innato senso dello spettacolo (alias direzione degli attori); ma tutto ciò è sufficiente a garantire la creazione di film spesso più che dignitosi.
Tornando al lavoro sull’Ungheria, Montanelli racconta la lunga alba che precede l’entrata a Budapest dei carri armati sovietici dentro un paio di camere da letto di un grande hotel (un’esperienza di fatto autobiografica) in cui tempo cinematografico e tempo reale tendono a identificarsi. E’ il momento in cui i personaggi tirano le somme di un’esistenza che spesso affonda le proprie radici nella guerra civile italiana, fatta anch’essa di ribelli e di partigiani; per entrambe le situazioni storiche ci si rende conto che l’errore più grande rimane quello del fanatismo, quello dell’ammazzare il prossimo solo in nome di un’idea, destinata (spesso) a sfumare nel tempo, a passare, a cadere nell’oblio. Era successo negli anni del conflitto mondiale e la cosa si sta per ripetere, su scala più ridotta, a Budapest. La polemica tra i cinque giornalisti, i quali coprono l’intero arco parlamentare dell’epoca, si stemperano progressivamente, soprattutto a contatto con due donne ungherese – madre e figlia (Lea Massari) – le quali vivono la tragedia sulla propria pelle. La prima tornerà probabilmente nel gulag dal quale gli insorti l’hanno liberata da pochi giorni; la seconda – dopo una notte d’amore con il più giovane dei cinque italiani (Renzo Montagnani, già interprete del ruolo nella versione teatrale, al proprio esordio cinematografico) – imbraccia il fucile e va a combattere i russi. La Storia si ripete sempre identica di fronte agli allibiti e delusi giornalisti: gli amorali detentori di un potere totalitario schiacciano senza remore chiunque minacci la loro posizione di dominio.
L’immane tragedia ungherese non solo è emblematica dello stato di desolata illibertà nel quale versa mezzo continente europeo; essa inoltre allude al pericolo che tale penosa condizione politica si possa diffondere nell’Europa libera, per il tramite dei servili partiti comunisti. La fallita rivoluzione di Budapest è l’evento chiave degli anni cinquanta.
Nel giugno 1958 Imre Nagy – il premier e leader della rivolta d’Ungheria - viene segretamente giustiziato (con l’approvazione di Togliatti e di quasi tutta la dirigenza comunista internazionale) dal governo ungherese filosovietico di Kadar (premier in carica dal novembre 1956 fino al 1988) e sepolto in luogo ignoto. Negli anni ottanta invano Craxi chiederà a più riprese al governo ungherese di rendere noto il luogo della sepoltura e avanzerà formale richiesta (nel 1984 e nel 1989) di una effettiva riabilitazione del protagonista dell’insurrezione ungherese. Bisognerà attendere la grande rivoluzione del 1989 per ottenere questo passo e il 1992 (dopo la dissoluzione del Pcus) perché il leader della nuova Russia, Eltsin, ammetta ufficialmente le colpe del proprio popolo nei fatti ungheresi dell’autunno 1956.
Montanelli è l’unico italiano a essersi seriamente occupato di quegli eventi all’interno dell’universo dello spettacolo italiano, denunciando implicitamente il silenzio di tutti gli altri.