L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio: il clamoroso successo di una “imbarazzante” trilogia (1970-71)
Dario Argento, nato a Roma nel 1940, è figlio del produttore cinematografico Salvatore e della fotografa brasiliana Elda Luxardo. Negli anni sessanta si occupa di cinema in qualità di critico presso Paese
Sera e di sceneggiatore: nel biennio 1968-69 collabora ai copioni di C’era una volta il West (Leone) e Metti una sera a cena (Patroni Griffi). L’anno successivo Argento esordisce alla regia con L’uccello
dalle piume di cristallo (febbraio 1970; 96 min.), un giallo sanguinario basato su una sceneggiatura propria - ispirata nella sua implacatura complessiva al romanzo The Screaming Mimì (tit. it. La statua che urla,
1949) dello scrittore americano Frederic Brown - che diviene rapidamente un caso italiano e internazionale, inaugurando un nuovo filone cinematografico. Riassumiamo la ben nota trama: una sera lo scrittore americano Sam
Dalmas (Tony Musante, incontrato dal regista sul set di Metti una sera a cena) assiste a un tentativo di omicidio. Il luogo è una moderna galleria d’arte, la presunta vittima Monica Ranieri (Eva Renzi), l’aggressore una
misteriosa figura nerovestita. Il commissario Morosini (un ottimo Enrico Maria salerno) indaga e lo scrittore decide di aiutarlo anche perché è diventato il principale bersaglio dell’assassino. Intanto quest’ultimo - un maniaco
che ha già ucciso tre donne - continua ad ammazzare seguendo modalità intrise di sadismo. Dopo varie peripezie - nelle quali l’autore, seguendo l’esempio di Hitchcock, cerca di inserire episodi “leggeri” e perfino con ambizioni
umoristiche - l’assassino viene smascherato: si tratta proprio di Monica Ranieri che uccide, aiutata dal succube marito (Umberto Raho) che invano ha cercato di fermarla. Nella spiegazione finale, affidata a uno psichiatra (sul
modello di Psycho, Hitchcock, 1960) si parla di un trauma giovanile (qualcuno violentò e cercò di uccidere la giovane a pugnalate) e di una successiva identificazione della donna con il suo persecutore.
Il primo evidente modello cinematografico del film è quindi Psycho. In quest’ultimo si raccontava lo scontro tra una visione tradizionale e una modernista dell’esistenza (vedi),
rispettivamente incarnate in Norman e Marion. La schizofrenia di Norman, il suo dualismo Jekyll-Hyde si perpetuano nella delirante Monica Ranieri la quale si configura come un’inconsapevole incarnazione del desiderio di morte
proprio di Norman Bates. Le motivazioni psicologiche del suo agire (il trauma, la violenza subìta ecc.) sono evidentemente sfocate e pretestuose; quello che invece importa è il suo uccidere donne belle, sole, emancipate e
provocanti. La prima vittima frequenta gente elegante (sequenza delle corse), si muove con autonoma sicurezza e vive sola; nel suo appartamento penetra l’assassina che infierisce sul suo corpo, dopo averlo denudato. Anche
la seconda vittima si veste in modo audace e si presume viva sola poiché viene massacrata mentre sale al suo appartamento, dopo essere scesa dall’auto del fidanzato. La terza vittima doveva essere la compagna dello scrittore
(Suzy Kendall), una modella che vive anch’essa in totale autonomia (è appena tornata a casa, dopo un mese di lavoro in giro per il mondo). Il film di Argento dunque prosegue il discorso di Psycho: un’assassina senza
volto, ferita da un trauma giovanile, possiede una seconda personalità che si manifesta al cospetto di giovani, seducenti ed emancipate ragazze. Alla fine degli anni sessanta la rivoluzione sessuale è giunta al proprio
compimento, grazie anche al non indifferente contributo del cinema. Argento ce lo ricorda allorché fa comparire, nel fondale dell’inseguimento tra Dalmas e un sicario (Reggie Nalder) assoldato da Monica, i manifesti di
due film del periodo: Io Emmanuelle (Canevari,1969) e La donna scarlatta (Valeri, 1968). In essi, soprattutto nel primo, un mediocre prodotto scandalistico, si raccontano le disinibite avventure una giovane signora (Erika Blanc) la quale - essendo indisponibile l’amante abituale - cerca soddisfazioni sessuali sostitutive presso quattro amici che si rivelano tutti piuttosto incapaci. Questo dunque il quadro metaforico in cui opera la psicoptica Monica Ranieri.
Chi invece dà la caccia a questa sorta di sadico fantasma “reazionario”, è uno scrittore progressista e simpatico (nel “solaio” in cui vive campeggiano poster inneggianti al Black Power e una vivace immagine di Einstein),
sconvolto dalla brutalità degli omicidi. Argento, in buona parte inconsapevole, dà voce al grande conflitto che anima la società del suo tempo, giunta a un difficile punto di transizione. Né può essere casuale che la
pellicola, uscita nel “moderno” nord (a Milano e Torino) senza suscitare alcuna reazione, diviene un grande successo proprio a partire dalla reazione del pubblico meridionale (Napoli, ma anche Firenze) della penisola,
notoriamente più legato a una visione tradizionale del costume. Se per quanto concerne il conflitto ideale tra Tradizione e Modernità il grande modello di partenza è Psycho (al cinema di Hitchcock rimanda anche la scelta di Reggie Nalder per la parte del sicario, attore che aveva ricoperto un ruolo analogo in L’uomo che sapeva troppo),
per ciò che riguarda la dimensione visiva il segreto punto di riferimento è certamente La maschera di cera (de Toth, 1953, remake della prima versione di Curtiz del 1933; entrambi derivati da un testo teatrale di Charles Belden). L’idea geniale di Argento è stata quella di prendere l’uomo nero di quel film gotico e di trasportarlo, così com’era, entro un contesto moderno e gelido, in una Roma irriconoscibile e periferica, fredda e distante. Va ricordato che due (delle cinque) situazioni chiave del film - il pedinamento della donna sola, uccisa in casa e la situazione di forzata immobilità in cui giace lo scrittore poco prima dello scioglimento, in balia delle intenzioni
più macabre dell’assassino - sono ricalcate su sequenze analoghe del vecchio film americano (questo amore un po’ segreto per La maschera di cera Argento lo “confesserà” ventisei anni dopo, producendo e scrivendo la sceneggiatura del peraltro scadente remake di Stivaletti intitolato M. D. C.).
In più sia il fim di de Toth, sia L’uccello dalle piume di cristallo iniziano e terminano, circolarmente, in un luogo pubblico di esposizione artistica: il museo delle cere e la galleria di sculture. La forza
sconvolgente del film però risulta dall’avere calato questa icona fumettistica e legata al cinema degli studi hollywoodiani in uno scenario iperrealistico, sensibile alle glaciali tendenze dell’arte contemporanea sia in ambito
visivo, sia in ambito sonoro. Non a caso il film inizia con la grande sequenza della galleria d’arte: vi si accede da un magnifico portale a vetri di forma rettangolare che richiama con forza l’idea del cinemascope.
Prigioniero dentro quel bizzarro “schermo”, Dalmas vede e non vede, capisce e non capisce ciò che sta accadendo (Monica, in quel caso la vittima, in realtà è l’assassina); in ogni caso vede uno scenario luminoso e freddo, fatto
di statue contorte e deformi, mentre le sonorità morriconiane rievocano gli esperimenti rumoristici e aleatori della musica delle avanguardie, per una volta perfettamente funzionali al contenuto estremo delle immagini (peraltro
questa stessa musica risulta insopportabile se priva del riferimento visivo come sa chiunque abbia provato ad ascoltare i medesimi brani nella versione “autonoma”, su vinile o Cd). Argento quindi opta per un cinema moderno,
allineato alle recenti esperienze dell’arte visiva e sonora, producendo immagini compiaciute nella loro studiata freddezza, permeate di grumi sonori atematici e disturbanti, immagini nelle quali si aggira uno spettro antico, un
fantasma arcaico degno degli studi hollywoodiani degli anni cinquanta o delle pellicole della inglese Hammer Film. Estrema modernità ed estremo arcaismo si combattono dentro una cornice di sofisticata bellezza: lì sta il
fascino irrisolto e irrisolvibile del film. L’assassina, incarnazione delle più inconfessabili e inconsapevoli tendenze reazionarie dell’autore (il quale decide addirittura di affidare a una donna il ruolo di carnefice: una
donna che uccide altre donne... ), esprime, come già il Norman Bates di Robert Bloch-Alfred Hitchcock, la rabbia e lo sconcerto di un universo che sta tramontando. Monica Ranieri uccide donne belle e disinibite che sono ormai
sfuggite al controllo di una società fino a poco tempo prima patriarcale (ma nel meridione d’Italia, dove il film piace maggiormente, il cammino verso la modernità è assai più lento e complicato). Non a caso una delle più
suggestive innovazioni stilistiche di Argento è la cosiddetta soggettiva dell’assassino, una sorta di marchio di fabbrica dell’autore, con il quale la mdp si identifica con lo sguardo e i movimenti minacciosi del serial killer;
essa costituisce la carta vincente del film proprio per i significati simbolici che tale tratto stilistico implica. Appare scontato che quella soggettiva porta alla identificazione dello sguardo dell’assassino con quello
dell’autore e - per il tramite di quest’ultimo - dell’intero pubblico che contempla, nel buio della sala, lo snodarsi di questi visionari incubi proprio dall’inquietante punto di vista del carnefice. Pertanto le “solenni”
esecuzioni di donne sensuali e discinte acquistano il senso di un gesto liberatorio di massa, di una rivalsa fantastica dell’universo maschile (il pubblico dell’altro sesso si tiene complessivamente alla larga, per quanto
possibile, da questo tipo di cinema) nei confronti dell’emancipazione femminile, ormai inarrestabile nella sua marcia. Il comparire di questo cinema proprio agli inizi degli anni settanta e l’enorme successo che gli arride sono
inestricabilmente legati ai particolari mutamenti che sta vivendo il tessuto sociale. D’altro canto non va dimenticato che se il cinema muta pelle negli anni ottanta, rendendo marginale il cinema del terrore, tanto popolare
nel decennio precedente, questo fatto è largamente imputabile al peso ora crescente, spesso addirittura decisivo, della componente femminile nella scelta dei film da “consumare”. Tutto quindi tende ad ammorbidirsi a partire
negli anni ottanta: il cinema basato sullo scontro, sulla lotta aperta, sulla violenza sanguinaria diviene minoritario, quasi di nicchia mentre prevale la commedia drammatica e sentimentale o il rassicurante film comico, meglio
se di estrazione televisiva. D’altronde, a partire da quegli anni, i film vengono girato innanzitutto pensando alla futura fruizione domestica, quella che garantisce gli introiti più alti; e nella domus la donna è regina. Giungono così al loro tramonto insieme al cinema di Argento, il cosiddetto poliziottesco italiano, il gangster movie, lo spy movie e il western (italiano e americano). Il destinatario é mutato e, di conseguenza, muta anche il contenuto del messaggio.
Numerosi critici hanno sottolineato il rapporto tra L’uccello dalle pume di cristallo, La donna che sapeva troppo (Bava, 1963) e soprattutto Sei donne per l’assassino (Bava, 1964) in riferimento alla soluzione del giallo (la coppia asassina) e al doppio finale. Se certamente questi elementi esistono, va detto che il cinema di Bava - un tempo totalmente snobbato, oggi eccessivamente rivalutato - è un cinema prigioniero della dimensione gotica (immagini barocche, musiche tardoromantiche, recitazione teatrale ecc.) e come tale lontanissimo dal nuovo stle di Argento. Infatti la trilogia degli animali (L’uccello, Il gatto e le Mosche)
avrà decine di imitatori, ma non porterà ad alcuna rivalutazione a posteriori delle pellicole degli anni sessanta di Mario Bava o di Antonio Margheriti, in quanto appartenenti a un mondo narrativo e visivo ormai superato. Anzi
sarà semmai Bava a cercare, negli anni settanta, di imitare Argento con pellicole come Reazione a catena (1971) e Shock (1977). Come per i film di Hitchcock musicati da Herrmann, anche le pellicole di Argento
troveranno sempre un’importante e direi decisiva dimensione sonora, grazie alla intelligente e artistica collaborazione di ottimi compositori. La trilogia degli animali viene musicata con estro decrescente dal massimo autore di
colonne sonore del periodo ovvero Ennio Morricone. Questi da un lato si allinea alle scelte visive moderne del regista, producento dimensioni sonore multiple ove l’idea paranoica dell’omicida viene raffigurata da incisi iterati
in loop nel fondale (in particolare un temino di tre note ascendenti, in tempo ternario) sopra il quale c’è uno scatenamento orgiastico di rumori e suoni (sia aspri, affidati agli ottoni, sia delicati ad opera di celesta,
flauti ecc) che concretizza la dimensione del terrore in cui gli eventi si snodano. A far da contrappeso a questo lacerante caos sonoro compare un celebre, facile motivetto, sorta di delicato carillon affidato a un coro di
bambini: esso viene abbinato, per antitesi, alle situazioni tetre (l’iniziale pianificazione del primo omicidio da parte di Monica Ranieri) e viene utilizzato secondo un’originale stile “intermittente” che diverrà un altro
marchio di fabbrica del cinema di Argento: esso dunque emerge improvviso dal silenzio e nel silenzio, senza preavviso, di colpo scompare. Questa insolito tipo di abbinamento suono-immagine sottolinea la presenza forte di un
autore che “sonorizza” le sue immagini con totale libertà, rompendo una volta di più l’illusione del realismo fotografico a favore di una prevalente dimensione onirica (di cui tra poco diremo), così come un moderno pittore
sceglie qualunque colore per qualunque soggetto. Va notato però un ulteriore dato di riferimento: il delicatissimo tema morriconiano in realtà trasforma il noto tema di The Sound of Silence (Simon - Garfunkel) divenuto celebre come soundtrack de Il laureato (Nichols, 1967). L’andamento rilassato, a note ripetute, è lo stesso; all’andamento ascendente del motivo americano si sostituisce ora un andamento a spirale discendente. L’avere attinto da Il laureato - ossia dal film chiave del nuovo corso hollywoodiano, il primo che descrive apertamente il grande rifiuto e la contestazione globale che pervade le nuove generazioni - è un ulteriore elemento di conferma di quanto sopra spiegato: L’uccello
dalle piume di cristallo si pone come un ambiguo momento di riflessione intorno alla modernità di cui ripete una serie di opzioni (la spigliata freschezza di Dalmas e della sua compagna sembrano usciti dal coevo cinema giovanile di Hollywood; peraltro Musante è realmente americano mentre la Kendall è inglese), facendole scontrare con il loro opposto, con un sinistro fantasma che incarna arcaismi patriarcali. Ed è proprio quest’ultimo il punto di forza del film, il motivo che lo rende tanto dirompente.
Inoltre, più di una volta, il tema “angelico” sprofonda in quello “demoniaco” (fin dalla eccezionale sequenza dei titoli di testa) e viceversa, confermando il conflitto esistente, anche sul piano sonoro, tra armonia e
disarmonia, tra tranquillizzante apparenza e segrete pulsioni, tra le ottimistiche “luci” del Laureato e le tenebre della Maschera di cera, in definitiva tra modernismo e tradizione.
Resta da chiarire il legame tra il film e La statua che urla di Fredric Brown. Bisogna subito ammettere che l’intera impalcatura del racconto è copiata dal romanzo di venti anni prima e meglio avrebbe fatto Argento a citarlo nei titoli di testa, quanto meno come fonte alla quale si era liberamente ispirato. D’altronde se le vicende sono le stesse - a Chicago un giornalista assiste a un tentato omicidio, indaga, scopre che l’evento scatenante la follia del serial killer è il ritrovamento da parte dell’assassina di una sinistra statuetta legata a un vecchio trauma e infine aiuta la polizia a individuare la coppia colpevole - i personaggi sono stati radicalmente trasformati, così come gli ambienti e i dialoghi. Basti ricordare che l’assassina del romanzo è una spogliarellista, che non c’è alcuna galleria d’arte e che tutto avviene all’interno di prevedibili ambienti degradati di una Chicago notturna. Il romanzo insomma è piuttosto ordinario e prolisso mentre la versione di Argento comporta una trasfigurazione totale degli eventi del racconto. Non c’è peraltro una sola riga di dialogo comune tra romanzo e film mentre l’unico episodio fortemente somigliante - quello dell’antiquario gay - resta un episodio del tutto secondario nel film.
A proposito di dialoghi bisogna inoltre soffermarsi sul ben curioso discorsetto finale dell’americano Dalmas: “Vai in Italia mi avevano detto, lì non succede mai nulla... “, un discorsetto che venne ascoltato con non poco
stupore dagli spettatori dell’epoca. Argento gira nell’estate-primo autunno del 1969 ovvero dopo i grandi disordini studenteschi della primavera ‘68, gli scontri tra frange comuniste e fasciste nel biennio 1968-69, gli scontri
tra cortei studenteschi e operai e la polizia nel 1969 (primi morti ad Avola e Battipaglia), le prime avvisaglie stragiste con le bombe fatte esplodere a Milano il 25 aprile (alla stazione e alla fiera) e sui treni l’8 agosto
1969. Quando poi il film esce (febbraio 1970) l’Italia vive - dopo la tragica strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969) - in un’atmosfera livida, in cui si è sfiorato il colpo di stato militare. Come sia possibile far dire a
Dalmas che l’Italia è un paese dove “non accade mai nulla” è un ulteriore mistero da aggiungersi a quelli polizieschi del film. Semmai questa incongruenza amplifica il carattere onirico della pellicola, il suo occuparsi di
problematiche reali (il modificarsi dell’antico equilibrio uomo - donna) trasfigurandole in una dimensione di astratta fiaba nera. Al riguardo un altro segnale inequivoco viene dalla sequenza della ragazza uccisa a rasoiate
sulle scale (o dentro una scensore, poco cambia) di un condominio che si presuppone vivo, affollato, ospitante decine di famiglie. Nessun critico si è accorto della dimensione fantastica - vera anticipazione degli scenari
esoterici di Suspiria e Inferno - che circonda questa sequenza: la ragazza sale, ha paura, le luci si spengono, tutto è spettrale silenzio, poi la giovane, aggredita, urla senza che alcuno possa sentirla, come può accadere solo in un sogno. In evidente imbarazzo Argento tronca la sequenza sul sangue della donna perché non è in grado di creare un realistico seguito dell’evento: un’assassina costretta a discendere molte rampe di scale mentre, si presume, numerose persone escono dagli appartamenti per capire cosa stia accadendo.
In questa Italia di Argento - trasformata in una sorta di irrealistica ed intensa dimensione interiore, di silenzioso palcoscenico per omicidi carichi di valenze simboliche - non succede mai nulla in quanto la cronaca del
quotidiano è stata rimossa, esiste in un altrove estraneo alle “laceranti”, intime preoccupazioni del regista. L’uccello alle piume di cristallo è dunque un lungo incubo di matrice squisitamente onirica: Argento accantona il mainstream del cinema realistico per affidarsi alla libertà visionaria, poetica e rischiosa del cinema-sogno, aderendo a una corrente minoritaria della storia del cinema (in quegli anni Bunuel è l’unico autore popolare di questa differente estetica filmica). Il geniale incipit del racconto indica questa scelta in modo univoco: Dalmas assiste impotente – come uno spettatore cinematografico – al (presunto) tentato omicidio nella galleria d’arte, rimanendo imprigionato in uno spazio rettangolare che rimanda alla dimensione del cinemascope. Da quel momento egli abbandona il mondo concreto ed “entra” in una dimensione fantastica dove le pulsioni più arcaiche e sinistre (di cui si è detto) possono scatenarsi e dove possono coesistere improbabili killer vestiti con giubbotti gialli, pittori che mangiano gatti e assassini che stanno per cavargli gli occhi quando, come per un miracolo, una mano amica – quella del rassicurante commissario Morosini, “silenziosamente” giunto nella galleria d’arte - li ferma (sequenza conclusiva, anch’essa, nella sua totale inverosimiglianza, figlia dei meccanismi del sogno).
Significativo appare inoltre il fatto che l’intera critica dell’epoca - compattamente orientata a sinistra e attenta esclusivamente al cinema di “denuncia sociale” - liquidi il capolavoro di Argento come cinema di genere,
artigianato senza importanza, passatempo sospetto, semiedonistico. La presa di distanza è ancor più netta se si pensa che Argento era stato un collaboratore di Paese Sera (quotidiano di area PCI), un critico di sinistra, uno
dell’ambiente; d’altronde, al di là della miopia critica, del non accorgersi che era nato un grande film italiano e un nuovo importante autore (presto celebrato in tutto il mondo), va rilevato che la presa di distanza è
l’ennesima riprova che la pellicola suonava ambigua, poco allineata con lo spirito progressista del periodo, priva di attenzione per le problematiche sociali ed anzi pericolosamente compiaciuta nel descrivere sadiche uccisioni
di giovani, “moderne” e disinibite fanciulle negli anni della Summer Love, dei Beatles e dei Rolling Stones, degli hippies. Vi si intuiva insomma qualche pericoloso e “imbarazzante” rigurgito che era meglio non assecondare.
Così capita che il critico del quotidiano di destra <La notte> recensisca positivamente il film mentre le riviste specializzate, compattamente simpatizzanti per le sinistre, non si degnino di discutere il lavoro. In
seguito, obbligate a esprimersi dall’enorme sucesso popolare del Gatto a nove code, pubblicheranno qualche riga di circostanza, rigorosamente negativa, all’insegna dello snobismo intellettuale. Questo accade mentre sul
New York Times The Bird with the Crystal Plumage ottiene una recensione assai favorevole che avvicina il nome di Argento a quelli di Lang e Hitchcock, cosa più che pertinente visto che Hitchcock dirigeva sempre sceneggiature di altri (a loro volta ricavate da libri editi spesso con grande successo) mentre Argento ha scritto e diretto il suo film, ovvero ha creato - come ogni vero autore - i suoi personaggi e i contesti in cui interagiscono (i riferimenti a Brown, Hitchcock, Bloch e de Toth, come si è detto, non sono decisivi).
Come ebbe più volte a lamentarsene lo stesso Argento, in Italia “l’influenza nefasta del PCI sul cinema” imponeva tematiche e problemi da trattare, sempre all’insegna della più rigorosa desolazione, mentre il giovane
regista romano produceva pellicole che spaventavano, coinvolgevano e in definitiva divertivano il pubblico; e questo era automaticamente bollato come “commerciale” ovvero inutile per lo spostamento dei voti a sinistra. Riguardo
a quel periodo Argento dichiara: <se si pensa ai registi di successo di quegli anni... non ne ricordo uno che venisse sistematicamente attaccato come accadeva a me> (in Nuovo cinema Inferno, 1997). Tra i film
americani che mostrano una diretta derivazione dal capolavoro di Argento c’è il magnifico Klute (tit. it. Una squillo per l’ispettore Klute, 1971), seconda regia di Alan Pakula. La pellicola è un classico
noir ambientato in una stupenda New York autunnale e dominato dal personaggio interpretato da Jane Fonda ovvero quello di una disinibita e amorale prostituta che vive in solitudine, oppressa da un vago senso di insoddisfazione
e di scontentezza riguardo al senso ultimo della propria esistenza (si sfoga regolarmente da un’analista). Le atmosfere fortemente realistiche, il ritmo lento della narrazione e il taglio creativo delle inquadrature che fondono
personaggi e paesaggio urbano donano al film un fascino ipnotico che riesce a comunicare con forza quel generale senso di inappagamento che perseguita la donna. C’è poi un pericoloso sadico che la perseguita, la osserva
lungamente, la segue e infine tenta di ucciderla mentre un ispettore (un giovanissimo Donald Sutherland) dalle idee fortemente tradizionali (viene dalla provincia come il Coogan/Eastwood de L’uomo dalla cravatta di cuoio di Siegel, altro film col quale Klute ha un forte debito) indaga per scoprire l’identità del criminale. Nell’insolito lieto fine la strana coppia decide di provare a convivere, ovviamente abbandonando la grande metropoli luogo di tutte le “perversioni” (il regista descrive, con evidente disappunto, i numerosi ambienti hippy e i locali del malaffare dove imperano droga e prostituzione): è un classico finale aperto in cui la “redenzione” coincide con il rientro in una comunità più circoscritta in cui permangono i valori forti della Tradizione.
Pakula riesce a creare un’atmosfera costantemente sospesa e quasi onirica, servendosi di una colonna sonora inquieta e sussurrata di Michael Small, evidente ricalco di quella morriconiana scritta per Argento, unita a
inquadrature insolite (con Jane Fonda spesso come “prigioniera” in immagini scure e claustrofobiche) che comunicano plasticamente il senso di insicurezza della protagonista. Come si nota la sceneggiatura è molto simile a quella
dell’Uccello dalle piume di cristallo: Pakula finisce con l’assorbire, senza rendersene conto, anche la visione vagamente misogina e turbata del regista romano in quanto crea una figura femminile spigliata, indipendente
e nevrotica - simpatica ma anche imprevedibile e frustrante - che è l’emblema stesso dei tempi nuovi, una figura che, come tale, attira le attenzioni del reazionario sadismo maschile. Il carattere puritano del cinema Usa
purtroppo non permette a Pakula di approfondire l’aspetto sessuale della narrazione (l’attività della protagonista è ridotta a poche sequenze inoffensive e poco credibili) che pur risulta assai più centrale rispetto al film
argentiano e che esplicita, più di ogni altro discorso, le libertà in cui si sostanzia la svolta antropologica degli anni sessanta. In entrambi i film, dunque, il criminale esprime il disagio nei confronti di questa nuova
tipologia femminile la cui libertà e solitudine sono peraltro invise anche al personaggio positivo del racconto (Klute) e vengono in definitiva, contraddette nel titubante lieto fine.
Il grande successo del film d’esordio induce Argento a replicare rapidamente con un secondo film parzialmente simile al primo. Il gatto a nove code
(febbraio 1971; 112 min.), su soggetto originale e sceneggiatura del regista coadiuvato da Dardano Sacchetti e Luigi Collo, si basa su una struttura narrativa più tradizionale nella quale tuttavia il regista inserisce le proprie ossessioni sanguinarie e sadiche; possiamo dire quindi che la solida costruzione del racconto è un mero pretesto per potere con tutta tranquilità dar sfogo alle medesime sequenze visionarie e raccapriccianti che costituiscono, in definitiva, l’intima ragion d’essere della pellicola. L’assassino - un ricercatore (Aldo Reggiani) all’interno di un Istituto scintifico che studia problemi di genetica - scopre di possedere il cromosoma XYY, quello che implica una naturale propensione al crimine, e per nascondere ciò, inizia ad ammazzare dapprima con metodi consueti (spinge chi lo ricatta sotto un treno; strangola un fotografo che ha visto troppo), ma poi ci prende gusto e massacra selvaggiamente la fidanzata del ricattatore, rapisce una bambina e la rinchiude in un solaio insieme ai topi e infine confessa un delitto inesistente (quello della bimba appunto) per il solo scopo di veder soffrire atrocemente suo zio cieco.
Dunque all’interno di un plot consueto - tra segreti, ricatti, testimoni eliminati e bambini sequestrati - si scatena una compiaciuta violenza che si distingue come la componente essenziale della pellicola. Cercando un
nuovo soggetto Argento decide di utilizzare un argomento quanto mai controverso e “reazionario”: quello delle ricerche intorno al cromosoma XYY, detto “cromosoma dei carcerati” in quanto studi scientifici lo qualificano come
causa altamente probabile di comportamenti criminali (le ricerche sono proseguite fino ai giorni nostri, senza smentire le prime scoperte degli anni sessanta). Non si può immaginare tematica più conservatrice di questa che
sottolinea le cause tutte naturali e individuali delle scelte delittuose e che, in definitiva, porta acqua al mulino del grande tema - censurato con cura, soprattutto nella seconda metà del Novecento - della naturale
diseguaglianza delle persone. Insomma un vero e proprio schiaffo a quelle teorie deterministiche e marxiste, giunte proprio negli anni sessanta e settanta al loro apice di popolarità modaiola, da parte di un regista che ora
decide di prendersi una qualche rivincita nei confronti di una cultura di sinistra che lo snobba e che continuerà a snobbarlo, con crescente astio, durante tutti gli anni settanta. Tanto per rincarare la dose Argento
descrive con simpatia il commissario (Pier Paolo Capponi) amico del protagonista e gli affida battute ironiche intorno all’immagine di comodo - offerta da buona parte dei media dell’epoca - di una polizia italiana interessata
solo a spaccare la testa agli operai e agli studenti. Va detto che il secondo film di Argento, come unanimemente notato dai critici - quelli sinceramente interessati all’arte del regista romano - si colloca al di sotto del
lavoro d’esordio. La prima parte corre veloce ed è quasi perfetta: la scena notturna iniziale con la misteriosa incursione dentro l’istituto, l’assassinio alla stazione, il particolare mancante nella foto (per la seconda volta
Argento cita Blow Up di Antonioni, ora in modo esplicito trattandosi di particolari al’interno di una fotografia; nell’Uccello la questione centrale del particolare misterioso che Dalmas non riesce a mettere a fuoco è, se si vuole, un’altra derivazione dal celebrato film inglese di Antonioni), l’uccisione del fotografo, il martirio della sua fidanzata (che riprende i rituali sadici di Monica Ranieri; ma a questo punto Casoni è diventato un folle maniaco in tutto simile alla protagonista del precedente film). Giunto più o meno a metà, il film però si blocca: il giornalista detective (James Franciscus) frequenta Anna Terzi (Catherine Spaak), forse la corteggia, corrono in auto per Torino (non si capisce perché), finiscono a letto e il film diventa un film qualunque, noiosetto, un po’ insulso, ligio alle leggi di mercato che caldeggiano una storiella amorosa nella seconda parte di una pellicola (tanto per accontentare anche il pubblico femminile). E’ evidente che Argento non è a proprio agio in questi episodi e lo gira per dovere, come pure inutile è la lunga incursione notturna con l’amico scassinatore nell’ufficio di Terzi (Tino Carraro). Poi il racconto “riprende“ con la discreta sequenza del cimitero (comunque eccessivamente lodata; in realtà prolissa e non priva di goffaggini) per giungere al gran finale, degno del migliore Argento, con la rincorsa sui tetti (un po’ come nell’hitchcockiano Vertigo,
1958), il grand shaw delirante dell’assassino e il suo precipitare nella tromba dell’ascensore. Il gatto a nove code soffre dunque di lungaggini (infatti dura troppo: 112 minuti, rispetto agli essenziali 96 minuti del film precedente) e di alcuni cedimenti conformistici; non a caso Argento - con eccessiva severità - lo giudica il peggiore dei suoi film ed anche il New York Times, che prontamente lo recensisce nel maggio 1971, ne parla negativamente. In ogni caso il lavoro riscuote un enorme successo popolare, perfino superiore (almeno in Italia) a quello dell’Uccello.
D’altronde il successo del primo film era stato progressivo (come si è detto) mentre quello dell’attesissimo Gatto è grande e immediato. In fondo si ripete quanto era accaduto a Leone con Per un pugno di dollari (1964), un successo colossale del tutto inatteso, e con Per
qualche dollaro in più (1965) salutato fin dall’inizio da incassi miliardari; con l’unica differenza che il secondo fim di Leone era superiore al primo. Nel Gatto Argento sceglie un plot tradizionale nel quale l’assassino uccide per salvare se stesso, la propria carriera e il proprio benessere; dunque quell’atmosfera di incubo onirico e misogino che avvolgeva l’Uccello sembra svanire anche se va notato che gli omicidi hanno tutti un carattere più “funzionale” con l’eccezione di quello di Bianca Merusi (Rada Rassimov) per la quale il regista rimette in scena il rituale macabro e in una certa misura “collettivo” di cui si è detto. L’utilizzo della soggettiva dell’assassino intanto è andato perfezionandosi, permettendo al pubblico di identificarsi completamente nell’agire nefando del folle, e il regista ha voluto aggiungere il Leitmotiv di una pupilla dilatata (evidente il rimando a 2001: a Space Odyssey),
quella dell’assassino ma, in fondo, anche la nostra, a fare da stacco all’interno delle sequenze più violente. Completa la buona riuscita complessiva della prima metà e del fnale della pellicola la colonna sonora di
Morricone che ricalca, con minore estro, quella scritta per l’Uccello. Ancora un tema soave, infantile ma con qualche cadenza epica che lo apparenza ai grandi temi composti per Sergio Leone, accompagna le figure
dell’enigmista (Karl Malden) e della sua dolce nipotina Lori (Cinzia De Carolis), mentre le consuete accese stratificazioni sonore segnano le sequenze di tensione. Questa volta però alle invenzioni rumoristiche si sostituiscono
andamenti ritmati di netta derivazione jazzistica i quali vengono abilmente sfruttati dal regista nel gioco (già discusso) delle “intermittenze sonore”. Come nel cosiddetto stop and go jazzistico, il magna sonoro appare inatteso, ritma numerose immagini, poi improvvisamente scompare per lasciare il posto a un enigmatico silenzio destinato però a durare pochi secondi, prima della ricomparsa del caos sonoro; e così via. Era già successo nella magistrale sequenza d’apertura dell’Uccello;
riaccade soprattutto nella lunga sequenza del cimitero dove, con meccanica regolarità, le convulse sonorità accompagnano i due investigatori mentre il silenzio avvolge l’assassino in agguato. Argento invita Aldo Reggiani,
divenuto popolare per aver interpretato il ruolo dell’eroico Dick Shelton nel rassicurante sceneggiato televisivo La freccia nera (Majano, 1968), a rivestire i panni dell’omicida sanguinario: è anche questo un piccolo colpo di scena o almeno tale era per gli spettatori dell’epoca.
La solida sceneggiatura del Gatto sembra inoltre fugare qualunque aura onirica per radicare il racconto nella concretezza della detection (a indagare ora sono addirittura in tre: giornalista, enigmista e commissario)
e in un contesto concretamente realistico. Progressivamente però le cose vanno cambiando: mentre l’omicida si trasforma sempre più in mostro sanguinario, anche la vicenda scivola impercettibilmente verso una deriva astratta e
fantastica. Così l’intera vicenda della bambina affidata a un taxista da una sciagurata amica dell’enigmista cieco e, di conseguenza, direttamente nelle mani del sadico, è una svolta narrativa assurda ma svolta entro sequenze
notturne di sinistra efficacia, così come delirante è la scelta di andare a cercare un bigliettino dentro la tomba della Merisi. L’intero finale sui tetti, con la bambina chiusa in uno sgabuzzino insieme ai topi è ormai favola
nera, gotica e perversa, volta a fare da perfetta cornice al conclusivo svelarsi del mostro. Il Gatto è insomma una pellicola ibrida, oscillante tra poliziesco classico e fiaba spaventosa, tra una costruzione narrativa rispoettosa di una qualche verosimiglianza e le libere associazioni dell’incubo.
Si è visto che L’uccello e Il gatto contengono forti venature oniriche, abilmente mascherate entro una cornice svogliatamente realistica. Con il terzo tassello della trilogia degli animali,
4 mosche di velluto grigio
(dicembre 1971; 105 min.) Argento si sente più sicuro di sé (dopo due enormi successi) e decide di sviluppare quelle componenti e quindi di abbandonarsi a un racconto apertamente onirico, più visionario dei precedenti nonché direttamente ispirato a questioni private opportunamente deformate, ingigantite e proiettate in un contesto di pura fantasia cinematografica (infatti, pur partendo da un soggetto scritto insieme a Luigi Cozzi e Mario Foglietti, Argento poi stende una sceneggiatura che porta la sua sola firma). Si comincia dalla scelta dei due interpreti principali che il regista vuole somiglianti a se stesso e a sua moglie: vengono pertanto scelti lo sconosciuto Michael Brandon (attore debole e inespressivo, uno dei numerosi punti deboli del film) e l‘ottima Mimsy Farmer (sicuramente notata dall’autore nella bella prova di More,
1969, il fim d’esordio di Barbet Schroeder con musica dei Pink Floyd). Quest’ultima, impegnata nel non facile ruolo già di Eva Renzi (L’uccello) ovvero di una psicotica e sadica assassina, traumatizzata da un’infanzia
violenta nonché figlia di una pazza conclamata, si scatenerà nel magnifico finale in una grande scena madre di violenta schizofrenia di cui fa le spese il povero e inebetito Brandon, una sequenza quasi teatrale segnata da una
recitazione espressionista, tutta sopra le righe (d’altronde era proprio ciò che ci si poteva aspettare, essendo l’abitazione degli sfortunati coniugi in cui si svolge buona parte del film situata nell’immaginaria via Fritz
Lang). La storia è semplice e perfino prevedibile: Nina perseguita segretamente il marito Roberto Tobias poiché assomiglia al padre che le ha guastato l’infanzia, facendola finire in manicomio per alcuni anni. Dapprima gli
fa credere di avere ucciso a coltellate un uomo che lo aveva insistentemente provocato (in realtà un complice di Nina), poi lo ricatta, lo
impaurisce con visite notturne (si tratta sempre del suddetto complice, in seguito liquidato a bastonate); nel frattempo chiunque capisca l’andamento degli eventi viene prontamente ucciso dalla sciagurata: sia la donna di
servizio, sia il simpatico detective Arrosio (Jean-Pierre Marielle) vengono freddamente uccisi. Intorno a Roberto c’è ormai il vuoto e lui si arma di una pistola e decide di aspettare il misterioso persecutore nel buio della
propria casa, in via Lang. Si giunge così alla resa dei conti finale - quasi un duello in stile western - con il provvidenziale arrivo di un amico (Bud Spencer) e la fuga di Nina che, alla guida della propria auto, finisce
decapitata sotto un camion. Come si nota 4 mosche riprende situazioni già svolte nei due precedenti film: la schizofrenica traumatizzata, i ricattatori (come nel Gatto sono un uomo e una donna e finiranno entrambi sgozzati), il detective (che questa volta allunga la serie delle vittime), lo psicopatico che minaccia le proprie vittime con voce sinistra, la spettacolare catarsi finale del folle (la Farmer sviluppa con efficacia le mimiche sconvolte di Monica Ranieri e del ricercatore Casoni); inoltre Argento ripesca una vecchia idea presente nella sceneggiatura di C’era una volta il West - un confuso e visionario episodio che torna più volte e che si sviluppa gradualmente fino a mostrare il proprio senso compiuto solo nel finale della pellicola - idea la quale diviene uno dei tratti più caratteristici del racconto. Se l’identità dell’assassino diviene abbastanza chiara a metà film, il senso della decapitazione in fieri in una grande piazza araba (questo il contenuto della misteriosa visione) non si chiarisce se non nelle ultimissime immagini, divenendo una premonizione del destino di Nina.
Tutto ciò costituisce la parte migliore del film che si configura come incubo insopportabile e sinistro, crudele e lacerante. Il protagonista è come prigioniero in quella sua oscura abitazione dove per ben tre volte viene
aggredito dall’assassino (o dal suo complice): le sequenze notturne, basate sul semplice, atterrito aggirarsi di Roberto per le stanze della sua abitazione sono episodi permati da un’intensa suspense cui la musica di
Morricone, questa volta in tono minore (scarsa è ora l’invenzione timbrica e ritmico-melodica delle consuete stratificazioni sonore), offre un contributo comunque decisivo. Queste tre sequenze nella casa - unite al sogno che,
luminosissimo, irrompe nel buio di quelle notte - costituiscono l’ossatura del nuovo incubo di Argento; sempre nella casa verrà uccisa Daria (la cugina di Nina) in un episodio di vero terrore, geniale per l’uso del rumore (la
ragazza percepisce la presenza dell’assassino poiché quest’ultimo la impaurisce volutamente con suoni improvvisi che giungono da qualche parte della grande abitazione e che la inducono a nascondersi in un armadio). Dopo i
serial killer che spaventano l’intera Roma (al punto da rendere necessari i rassicuranti appelli televisivi del commissario Morosini) e le vicende di un istituto di ricerca scientifica di fama internazionale, ora tutto sembra
risolversi tra le pareti domestiche, divenendo quasi un semplice psicodramma familiare. La polizia è infatti del tutto assente: questa scelta narrativa possiede pregi e difetti che vanno esaminati con cura. La totale
“latitanza” della polizia (centrale invece nei due precedenti film) - unitamente al carattere “domestico” del dramma - sbilancia in modo definitivo il film verso la dimensione del racconto onirico. E’ ovviamente impensabile che
la polizia non intervenga in vario modo nella atroce sequenza di omicidi ma Argento è troppo concentrato sulle dinamiche “familiari” della seneggiatura e non vuole esserne distratto dando spazio ai freddi uffici di un
commissario e alle sue razionali indagini. Il racconto può svilupparsi così secondo modalità libere e visionarie che implicano il sogno della decapitazione, il detective ucciso nei bagni del metrò di Milano, il grande “duello
finale”, il silenzio sul passato paranoico di Nina (verosimilmente la polizia l’avrebbe immediatamente messa sotto torchio, subito dopo la morte della domestica...). D’altro lato Argento opta per riempire i vuoti narrativi
lasciati dalla mancata presenza delle forze dell’ordine con una serie di penosi siparietti che si vorrebbero comici, basati su un postino preso a randellate, un amico semibarbone prodigo di consigli (Argento lo chiama Dio,
diminutivo di Diomede, riprendendo il nome da quello dell’amico del giornalista ne La statua che urla di Fredric Brown), una tediosa visita a un’esposizione di casse da morto, siparietti che non solo non divertono nessuno, ma hanno inoltre il grave difetto di distruggere lo stato di alta tensione che invece il film riesce a comunicare nelle sue parti migliori.
Differente invece il discorso per il detective Arrosio, una figura gay indubbiamente simpatica in cui la tendenza allo scherzo e alla leggerezza non “sfonda” mai il contesto narrativo, rimanendo in perfetta sintonia con
l’insieme: le sue indagini sono girate in modo eccellente da Argento, attraverso un montaggio nervoso e sincopato (continui gli inserimenti di immagini che hanno a che fare col passato schizofenico dell’assassina) e attraverso
pianosequenza molto espressivi su palazzi dall’inquietante architettura eclettica, per finire tragicamente nel buio del metrò milanese, fermata Lotto, dove la psicopatica lo aggredisce, trafiggendolo con una siringa piena di
veleno. Peccato che anche gli altri episodi collaterali non posseggano lo stesso abile impasto di umorismo e tragicità, di scherzo e paura, scivolando invece nel farsesco più banale. In fondo l’intero episodio di Arrosio - un
detective che si aggira per l’elegante piazza Castello a Torino vantando una carriera di 84 insuccessi consecutivi - è anch’esso parte integrante della dimensione onirica del film. Perfino l’ambientazione sfugge a una
precisa collocazione geografica e accosta luoghi di città differenti come può avvenire solo nel contesto associativo del sogno. Così l’abitazione di via Lang si trova all’Eur (Roma), Arrosio abita a Torino ma insegue Nina nel
metrò milanese (viene ucciso alla fermata Lotto) mentre la domestica viene ammazzata nel parco del Valentino (Torino). Oltre alla polizia, manca anche un contesto geografico credibile. Dispiace invece che la colonna sonora
di Morricone sia poco ispirata poiché avrebbe aiutato questo film, a suo modo più difficile e complesso dei due precedenti. Anche questa volta il compositore crea un’ampia melodia cantabile (Come un madrigale) basata su
una linea discendente, ancora vagamente legata alle atmosfere epiche del cinema di Leone, ma si tratta di un tema piuttosto ordinario mentre le stratificazioni sonore atematiche e atonali, destinate a suscitare un clima di
forte tensione durante le sequenze degli omicidi, sono ripetute ora senza reale convinzione. Non è un caso che dopo 4 mosche si interrompa la collaborazione tra Argento e Morricone (bisognerà attendere La sindrome di Stendhal, 1996, per ritrovarli insieme).
4 mosche è un dramma “domestico”: in esso torna quindi prepotente la tematica inconscia della misoginia argentiana, chiamata ad esprimere, come si è detto, un disagio collettivo e generale di fronte al nuovo modello femminile che viene imponendosi negli anni sessanta, grazie alla cosiddetta “rivoluzione sessuale”. Questa pellicola così “intima” rivela con più precisione il non detto delle due precedenti avventure filmiche: l’imbambolato e un po’ scemo Roberto Tobias rappresenta quella situazione di generale apatia - per non dire di sudditanza - che viene sviluppandosi nei confronti di un universo femminile che incute ora soggezione. Roberto è un batterista senza soldi che vive con una moglie ricca (ma folle); mentre lui si sforza di incidere qualche disco rock di modesta fattura (il personaggio non è famoso e la musica che ascoltiamo è un rockblues di maniera), la moglie si aggira annoiata nella sua bella abitazione e trova completa occupazione nel perseguitare l’uomo che si è messo in casa. Tra i due non c’è neppure un momento che riveli una qualche profonda intimità; appaiono semmai semplici coinquilini travolti da una brutta avventura: la coppia di fatto non esiste. Ne L’uccello la psicopatica aveva schiavizzato il marito, qui invece lo perseguita e si diverte nel vederlo precipitare in un vortice di paura: in entrambi i casi la figura femminile, da rassicurante compagna, si è trasformata in mostro che atterrisce e uccide. Il sogno arabo della decapitazione - in definitiva un sogno all’interno di un sogno - al di là del presunto valore di premonizione, esprime lo stato di orribile paura e sottomissione in cui si trova il protagonista. Qualcuno lo ha imprigionato per sempre: bloccato al centro di una scena collettiva, osservato da decine di persone, egli è la vittima impotente di un terrorizzante contesto (arabo) che percepisce come ignoto; o meglio - passando al “sogno” più ampio - è la vittima di una donna resa folle dalle angherie di un padre che la voleva a tutti costi simile a un maschio, forte e spietata. La Farmer, capelli corti e look “maschile” (addirittura nello scontro finale si presenta con un basco francese, simbolo rivoluzionario del tema dell’uguaglianza massonica), costretta contro al propria volontà “trasformarsi in un maschio, appare dunque una figura emblematica (difficile stabilire in che misura consapevole) di quella rivoluzione ugualitaria, radicata nei principi del 1789, che ha stravolto gli equilibri naturali del tessuto sociale italiano, soprattutto a partire dagli anni sessanta e che ha generato l’oscuro, generale disagio di cui Roberto Tobias è un evidente prodotto.
Donne che diventano uomini - uomini che somigliano a donne (il batterista porta capelli più lunghi della moglie, così come la maggior parte dei suoi amici vagamente hippies): inizia qui, alla fine degli anni sessanta, la
generazione dei mutanti, afflitti da complicati problemi psicologici poiché abbandonare il proprio ruolo tradizionale, sedimentato da secoli dentro precise informazioni genetiche, non è quella passeggiata che si vuol far
credere. Gli psicopatici di Argento - e dei suoi numerosi imitatori - sono tutti figli di questa difficile transizione verso l’ignoto. La prevalente dimensione onirica del terzo film di Argento lo destina a un pubblico più
ristretto. Il successo è garantito in quanto ormai ogni lavoro del regista romano è un evento atteso dal grande pubblico, ma gli incassi sono meno consistenti. Negli Usa poi, dopo l’entusiasmo per The Bird e la mezza delusione per The Cat, ora le Four Flies vengono apertamente stroncate a causa della totale inverosimiglianza del plot. Qualche parola di lode va solamente alla performance di Mimsy Farmer (recensione del solito New York Times). Bisognerà allora attendera Deep Red (1975) e soprattutto il capolavoro assoluto, Suspiria (1977), per ritrovare negli Usa e in Giappone il grande entusiasmo intorno a quello che viene ormai definendosi come il massimo maestro del cinema di paura degli anni settanta.
In Italia il clamoroso successo della trilogia degli animali è un evento culturale “imbarazzante”: la “nomenclatura” culturale tace indispettita di fronte al fatto che proprio uno di loro, per di più un giovane dotato di un
innegabile talento artistico, dia voce in modo così eclatante alle istanze più conservatrici e più ostili alla difficile e fantasiosa mutazione antropologica in atto.
testo scritto nell’apr. 2009; ultimo aggiornamento feb. 2016
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